Home Blog Pagina 1387

Renzi e il liberalismo “di sinistra”

Scrive Salvati «L’orientamento ideologico di fondo (di Renzi) è una versione del liberalismo di sinistra». “Di sinistra” in quanto disponibile a promuovere «una ragionevole uguaglianza di opportunità per le persone socialmente più svantaggiate». Comunque sempre «liberale, non socialdemocratico… per lui padroni e dipendenti sono tutti lavoratori e l’importante è che ci siano rapporti cooperativi». «Come ogni liberale – prosegue Salvati – Renzi è convinto che in larga misura efficienza ed equità viaggino insieme: l’Italia è ingiusta anche perché è inefficiente». E siccome si tratta di inefficienze e ingiustizie che affondano “in un lontano passato”, rimuoverle «richiede un lungo periodo di manutenzione straordinaria». La prima delle riforme è «la riforma del riformatore», un riassetto costituzionale, istituzionale ed elettorale.

Raccontandola così (Corriere della Sera del 3 di novembre) – tutto si tiene nella politica del nostro premier. Tutto, tranne, forse, quel suo eccesso di ottimismo che inducono Salvati a dubitare. Non dubiteremo, noi, ma dobbiamo chiederci se serva alla sinistra e all’Italia questa tardiva iniezione di “liberalismo di sinistra”. No! Perché non sembra una crisi “ciclica” quella che ci stringe ormai da 7 anni. Autorevoli studiosi la collegano alla crescita intollerabile delle disuguaglianze sociali e alla bolla speculativa che grava sull’economia occidentale.

Renzi rischia di perdere la faccia come Hollande se continuerà ad annunciare la ripresa, con gli imprenditori che investono e le casse dello Stato che si riempiono. No! L’Italia, nell’Euro, è uno dei Paesi debitori e le risorse che la Commissione a trazione tedesca le concederà, per curare antiche ferite e sostenere la produzione, resteranno assai limitate. Ecco che intervenire – come prevede la legge di stabilità – riducendo il costo del lavoro per ogni sorta di impresa è un errore, indotto dall’illusione liberista.

Ridurre le imposte ai Riva, ai Marchionne, agli imprenditori che aprono, poi chiudono e scappano via, è uno spreco insensato. No! Provando a rafforzare a dismisura i poteri del premier – e a questo mirano Italicum e riforma del Senato – Renzi finirà con il delegittimare la Costituzione e a ottenere per sé stesso una vittoria di Pirro. Sì! La politique d’abord del premier e il suo liberalismo ideologico possono costringere la sinistra, politica e sindacale, a fare un salto di qualità. A passare dalla difesa corporativa a un’idea di futuro. Lotta alla disuguaglianza, all’evasione e alla corruzione, Europa; rilanciando l’idea di una Unione politica e democratica, solidale e con una sola politica fiscale.

Lutz, il traditore

Sabato 5 marzo 1983, mezzanotte circa. Lutz Eigendorf, ventisettenne centrocampista dell’Eintracht di Braunschweig (bassa classifica della Bundesliga) si schianta con la sua Alfa Romeo contro un albero di periferia. Morirà in ospedale quando è già lunedì 7 marzo. La polizia della Bassa Sassonia archivia il caso: guida in stato di ebbrezza. Troppo strano per uno abituato a bere solo birra in quantità moderate.

Qualche anno dopo, grazie all’apertura degli archivi segreti della vicina Ddr, Heribert Schwan, giornalista della tv tedesca, scopre un’altra verità. Lutz Eigendorf era nato nella Germania Est a Brandenburgo (70 chilometri dalla capitale) e cresciuto nel vivaio della Dinamo Berlino, squadra del ministero dell’Interno nonché giocattolo pericoloso nelle mani di Erich Mielke, il terribile capo della Stasi.

Eigendorf prometteva bene con le sue 100 presenze in campionato e con 3 reti nelle 6 partite giocate in Nazionale. Eppure l’ultimo giorno d’inverno del ’79, al termine di un’amichevole contro i cugini occidentali del Kaiserslautern, il ragazzo fece perdere le tracce aiutato da un taxi e dagli stessi dirigenti del club dell’Ovest i quali (consapevoli dell’anno di squalifica dopo la pronta denuncia all’Uefa da parte della Federazione di Berlino est ferita nell’orgoglio) avevano preparato al giocatore un contratto da due stagioni. L’appartamento di Zechliner Strasse, dove Eigendorf aveva lasciato moglie e figlia piccola, fu subito messo sotto controllo audio e video dalla Stasi stessa. La presenza degli uomini di Mielke era così premurosa e costante che la signora Gabrielle Eigendorf, nel giro di pochi mesi, ottenne il divorzio dal marito per sposare proprio un agente della polizia segreta.

Nell’estate dell’82, dopo 53 presenze e 7 reti con il Kaiserslautern, il centrocampista viene ceduto all’Eintracht di Braunschweig, primo club della storia ad aver sfoggiato lo sponsor sul petto: l’amaro Jagermeister. Il 5 marzo ’83, sul campo di casa arriva il Bochum. L’allenatore Uli Maslo, tuttavia, manda Eigendorf tra le riserve. Il primo tempo finisce 0-0 e le sostituzioni effettuate nella ripresa non producono risultati, anzi. Eigendorf rimane in panchina e il Bochum passa due volte in contropiede: 0-2. La sera stessa, il centrocampista dell’Est viene visto in un bar dove beve due birre innocenti.

Secondo le ricostruzioni di Heribert Schwan, autore del documentario Morte del traditore, Eigendorf avrebbe firmato la sua condanna due settimane prima con un’intervista televisiva in cui criticava sia il sistema di propaganda sportiva della Ddr sia la scarsa competitività raggiunta dal football nel suo Paese. Furono alcuni agenti della Stasi, inviati in trasferta da Mielke in persona, a sequestrare il calciatore all’uscita del bar e ad iniettargli una miscela di gas velenosi e di sonniferi difficili da rintracciare. Dopodiché lo misero alla guida dell’Alfa e provocato l’incidente conducendo un autocarro sulla corsia opposta con gli abbaglianti puntati.

Era l’83. In Bundesliga trionfò l’Amburgo di Ernst Happel, pronto a vincere anche la coppa dei Campioni. In Oberliga, come tutti gli anni, vinse la Dinamo Berlino: squadra che in Europa, chissà perché, non faceva paura a nessuno.

Bombe d’acqua e decisioni politiche

Mentre la previsione tradizionale delle scienze naturali ha il ruolo di convalidare le ipotesi sul funzionamento dei fenomeni naturali, negli ultimi anni è sorto un nuovo tipo di previsioni, motivato dalle esigenze dei responsabili politici e dallo sviluppo di nuove tecnologie, che si occupa del comportamento di complessi fenomeni ambientali come i cambiamenti climatici, i terremoti e i fenomeni meteorologici estremi.

Queste previsioni hanno dunque il ruolo di garantire una base razionale alle decisioni in ambito di politiche globali o locali: protezione civile, prevenzione sanitaria, politica economica ecc. Nella maggior parte dei casi, si è interessati a eventi localizzati nel tempo e nello spazio non riproducibili a piacimento (uragani, terremoti ecc.). Molto spesso si tratta di previsioni molto difficili da eseguire poiché condizionate da un grande numero di fattori interconnessi.

Il caso delle “bombe d’acqua” è indicativo. Da una parte la qualità delle previsioni meteorologiche è aumentata dai primi anni Ottanta grazie allo sviluppo dei computer, che risolvono numericamente complicati sistemi di equazioni, e grazie all’osservazione sempre più accurata delle condizioni atmosferiche attraverso una vasta rete di satelliti. D’altra parte la formazione delle “bombe d’acqua”, dovute ai cumolonembi, è dovuta a fenomeni molto localizzati (pochi chilometri quadrati) e molto veloci (alcune ore), che non sono facilmente identificabili con il monitoraggio delle condizioni atmosferiche.

Ogni previsione contiene un elemento irriducibile d’incertezza, le cui implicazioni spesso sono sottovalutate quando questa riguarda fenomeni d’interesse pubblico e le relative scelte politiche. In generale, vi possono essere due errori: quando un evento che è previsto non avviene (un falso allarme) o quando un evento avviene, ma non è stato previsto (una sorpresa). Cercando di ridurre il primo errore si aumenta il secondo e viceversa: il punto chiave è dunque definire l’incertezza della previsione e in particolare la soglia d’incertezza tollerabile per la decisione politica.

La quantificazione dell’incertezza è molto difficile per eventi rari, come un uragano o le bombe d’acqua: una parte di questa incertezza si può ridurre attraverso una comprensione dei processi fisici alla base dei fenomeni in questione e attraverso una raccolta di dati più precisa, ma la valutazione della soglia d’incertezza rimane un compito chiave, di tipo discrezionale, che può essere svolto solo da scienziati esperti che hanno il ruolo di informare correttamente il decisore politico e l’opinione pubblica.

Il cavallo zoppo

«Un’azienda con più di 11mila dipendenti che produce in outsourcing il 70-75 per cento di quello che trasmette – soprattutto negli orari pregiati – significa che ha dei fortissimi problemi di identità». Giovanni Minoli, uomo Rai per eccellenza, oggi voce di punta di Radio24, sintetizza in poche parole il male che rischia di azzoppare definitivamente il cavallo di Viale Mazzini: la morte delle grandi produzioni. «Se poi pensiamo che il resto viene prodotto quasi tutto dai collaboratori esterni, uno si chiede che cosa fanno quelle migliaia di dipendenti che stanno lì», dice.

La tv di Stato appare ormai come un carrozzone barocco, sprecone e incapace di pianificare un futuro di qualità per il servizio pubblico. Un pozzo senza idee, e senza fondo, a cui Matteo Renzi ha pensato di attingere a piene mani per finanziare l’operazione “80 euro in busta paga” con un taglio netto di 150 milioni dal bilancio. Eppure, a guardare i numeri diffusi dal direttore generale Luigi Gubitosi, l’esercizio 2013 si è chiuso con un timido utile di 5 milioni. Una piccola boccata d’ossigeno che però non garantisce per il futuro. Se il canone porta ancora nelle casse dell’azienda circa 1,7 miliardi di euro (con un tasso altissimo di evasione: il 27 per cento), gli introiti pubblicitari fanno pensare al peggio: in due anni Viale Mazzini è passato da 964 milioni di euro a 682, con un calo netto del 30 per cento.

Gubitosi, dg sopravvissuto a tre diversi presidenti del Consiglio, sa che in queste condizioni l’azienda rischia di naufragare e prova a correre ai ripari. Oltre a quotare in borsa il 30,5 per cento del colosso Rai Way – la società del gruppo proprietaria della rete di trasmissione e diffusione del segnale – il direttore generale ha presentato un piano di “dimagrimento” delle testate. Si chiama “Progetto 15 dicembre” (dalla data in cui nel 1979 nacquero il Tg3 e il Tgr) e prevede l’accorpamento di sei giornali diversi in due sole newsroom. La prima metterà insieme Tg1, Tg2 e Rai Parlamento. La seconda fonderà invece il Tg3, Rainews e Tgr. Il tutto senza che i contribuenti abbiano alcun trauma visivo. Volti e nomi delle singole testate, infatti, rimarranno invariati. Cambieranno “solo” le redazioni.

Chi sente il fiato sul collo sono soprattutto i giornalisti delle sedi regionali, su cui pende una mannaia pronta a calare da un momento all’altro. Perché la cancellazione delle redazioni locali adesso è possibile. All’interno del decreto Irpef del 19 aprile scorso, infatti, c’è una norma che esonera la Rai dall’obbligo di avere una sede per ogni regione. Uno strumento in più nelle mani di Luigi Gubitosi e del suo piano di razionalizzazione dei costi. Le uscite, in realtà, potrebbero diminuire anche senza licenziare nessuno. Basterebbe ottimizzare le risorse interne all’azienda, sfruttando al meglio proprio i giornalisti delle realtà locali. Che oggi lamentano un certo snobismo da parte dei tg nazionali a mandare in onda i loro servizi, preferendo invece prodotti confezionati all’esterno.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

Franca Valeri: Roma secondo me

«Conosco Roma come le mie tasche, anche più di Milano dove pur sono nata, e sento sotto ogni sua pietra il suo malessere». Franca Valeri, pungente novantaquattrenne, come la città una volta eterna sta stretta nei panni del presente.

Lo fa capire il prologo che ha scritto allo spettacolo-maratona che debutterà la prossima settimana al teatro Argentina, Ritratto di una Capitale, ventiquattro brevi pièce di autori diversi che fotografano, in modo realistico o immaginoso, luoghi e situazioni della città. Lo dice subito l’attrice, dopo aver letto in anteprima il testo al direttore del teatro, Antonio Calbi, che ha ideato questo appuntamento: «Roma è stata vittima della classe politica, prima i fascisti, poi i democristiani, poi Berlusconi e ora questi scalzacani del governo che si vedono in giro. Sono brutti, vestiti male. Occupano tutti i palazzi che hanno costruito altri nei secoli, Michelangelo, Bernini, i papi…

La vita pubblica moderna è una calamità per Roma. Strade chiuse, non si sa perché, quel vecchio cialtrone, Berlusconi, che prende palazzi che non gli spettano. Non ritrovo più la Roma che ho conosciuto negli anni Cinquanta e Sessanta».

Franca Valeri arrivò in città che ancora si chiamava Franca Maria Norsa, dopo la guerra, determinata a diventare attrice. Lo spirito e il coraggio non le mancavano: nel periodo oscuro dell’occupazione nazista aveva vissuto nascosta in case di fortuna, mentre il padre ebreo era fuggito in Svizzera. Ha raccontato più volte la gioia della Liberazione, e i rischi corsi, perché non riusciva più a trattenersi in casa, alle prime notizie, si era precipitata in strada nonostante i cecchini tedeschi ancora sparassero dai tetti. Si era fatta largo tra la folla, aveva applaudito l’arresto degli aguzzini della Gestapo, era arrivata fino a piazzale Loreto…

Quella spavalda voglia di scoprire, di agire, non l’ha mai abbandonata. Nel 1948 si presenta all’esame dell’Accademia d’arte drammatica, a Roma: «In commissione c’erano la Capodaglio, Orazio Costa, Silvio D’Amico. Io avevo come compagno Buazzelli. Gli altri allievi erano entusiasti: questa vince di sicuro, che gioia… Invece mi hanno bocciata. Loro disperati. Io contenta, perché ho pensato: sono convinta di essere una che farà carriera, perché perdere tre anni? E così è andata. Però Roma era magica. C’era poco traffico, c’erano tanti turisti, tanti stranieri, era bellissima, un tempo splendido. Chi vede Roma per la prima volta rimane incantato. Oggi è irriconoscibile».

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

Draghi dopo Napolitano

Il dado è tratto. Le probabili dimissioni del presidente Giorgio Napolitano sono, infatti, i dadi lanciati nel bussolotto della politica italiana. Un gesto avventato? Una complicazione dello scenario istituzionale già reso accidentato dalla impossibilità di trovare la quadra sulla legge elettorale, dalla riforma del Senato, dalla guerra per ora a bassa intensità con le toghe? È da escludere.

Il lungo colloquio di qualche giorno fa tra Matteo Renzi e il Presidente era, forse, dedicato alla scelta del successore agli Esteri di Federica Mogherini, ma ora sembra chiaro che Napolitano ha reso noto al premier anche il countdown della presidenza verso fine anno. Con il Quirinale scoperto e con un Presidente da scegliere la politica potrebbe finire in una palude insalubre e pericolosa. Senza una legge elettorale, senza una guida autorevole che imponga ai partiti con nuovo vigore la strada delle riforme che, anche, l’Europa pretende in tempi brevi, si potrebbero addensare nubi scure.

Scaduto il semestre italiano di presidenza Ue a fine anno si starà con il fiato sospeso. Forse. In verità tutti i tasselli potrebbero essere pronti per accogliere l’ultimo tessera del mosaico che consentirà a Renzi di giungere, forse, al 2018. Mario Draghi non potrà restare incollato ancora a lungo alla poltrona della Banca centrale europea, il Paese lo chiamerà a gran voce al Colle ed egli, come Carlo Azeglio Ciampi, non potrà sottrarsi. Bankitalia verserà l’ennesimo tributo alle sorti del Paese (da ultimo la presidenza della Rai) e Angela Merkel si sbarazzerà di uno scomodo monetarista cripto-keynesiano, nemico del rigore teutonico. Non è facile che le cose vadano così, ma è uno scenario che ci pare credibile.

Con il passaggio del testimone da Napolitano a Draghi l’ultimo frammento della Prima Repubblica cederebbe il passo direttamente a un uomo della Terza Repubblica, più in sintonia con il modello sociale ed economico che il presidente del Consiglio Matteo Renzi immagina per la nazione degli anni a venire.

La centralità acquisita dal Quirinale è ormai irrinunciabile e se davvero il Senato non parteciperà più al processo legislativo il Colle sarà decisivo nel controllo sulle iniziative legislative del governo. Il vero custode della Repubblica e della democrazia semi-parlamentare.

Lucio Caracciolo: Presidenza Ue, zero risultati

I risultati conseguiti dall’Italia nel suo semestre di presidenza dell’Unione europea? «Praticamente nulli». La disfatta di Obama nelle elezioni di midterm e l’afasia politica dell’Europa sullo scenario internazionale? «Tutto lascia immaginare per il prossimo futuro ulteriore instabilità e conflitti. A meno che…». è un’intervista a tutto campo quella concessa a Left da Lucio Caracciolo, tra i più autorevoli analisti di politica estera italiani, direttore della rivista di geopolitica Limes.

Partiamo dalla disfatta elettorale dei Democratici e, in particolare, del Presidente Obama nelle recenti elezioni di midterm. Quali ricadute questo voto potrà avere nel modus operandi sullo scenario internazionale dell’inquilino della Casa Bianca negli ultimi due anni del suo mandato presidenziale?

Il Presidente può avere due reazioni opposte: la prima può essere che Obama accentui ulteriormente il suo tono profetico, nella consapevolezza che nulla di ciò che dice si avvererà. La seconda, che accentui il suo tono filosofico, che si riassume nell’invidia per i leader cinesi, che si occupano serenamente di casa loro e per il resto sognano la pietrificazione internazionale. In ogni caso, l’unico modo in cui Obama potrà agire d’ora in poi è per decreto.

Faccia un esempio…

Poniamo che, per un miracolo, si raggiunga un accordo con l’Iran sul nucleare. A questo punto il Congresso, in mano ai Repubblicani, non abolirà le sanzioni contro Teheran, ma Obama potrà sospenderle per un anno, grazie ai suoi poteri presidenziali. Sarebbe un atto di grande coraggio che implicherebbe uno scontro frontale con il Congresso repubblicano.

Un’“anatra zoppa” alla Casa Bianca potrebbe aprire nuovi spazi di iniziativa sullo scacchiere internazionale all’Europa. E comunque, quali rapporti è possibile ipotizzare nei due anni di fine mandato tra il presidente Usa e la Ue?

L’interesse di Obama per l’Europa mi sembra limitato a impedire due cose: il collasso dell’euro, che inevitabilmente avrebbe riflessi sull’economia globale, e il ritorno di potenza della Russia. Mi pare che per ora questa doppia politica faccia leva sul contenimento della Germania. Riguardo all’euro, ciò significa Draghi contro i falchi della Bundesbank. Sul piano del contenimento della Russia, i fatti ucraini dovrebbero per ora tranquillizzare Obama, anche rispetto all’allineamento germano-russo che resta inaccettabile dal punto di vista americano.

Restando all’Europa, quale risultato è possibile tratteggiare del semestre di presidenza italiano dell’Unione europea?

Un risultato nullo, se non un forte risentimento da parte della Commissione europea e degli “eurocrati” nei confronti di Renzi e dell’Italia. In questo semestre, non si ricorda una singola iniziativa italiana di qualche rilievo, salvo gli insulti a Juncker e ai suoi “burocrati”. Il fatto curioso è che alla fine dei conti, però, tendiamo sempre a seguire le raccomandazioni di quella banda di “burocrati.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

Sla: grandi promesse nessuna premessa

Forte con i deboli, debole con i poteri forti. Mentre il rapporto di sudditanza di Matteo Renzi con gli ambienti che contano, della Chiesa, della finanza e dell’industria, è oramai piuttosto chiaro, quello del presidente del Consiglio con il mondo delle disabilità appare fondato sulla finzione.

Grandi promesse, impegni, solidarietà ma al momento di tradurre le parole in azioni di governo come per incanto alla voce “fondi pubblici” per il sostegno e l’assistenza delle persone disabili spunta il segno meno. In barba all’articolo 32 della Costituzione. È accaduto da ultimo nel “Fondo per le non autosufficienze” che garantisce un sostegno per l’assistenza domiciliare, da cui l’esecutivo ha dichiarato di volerlo ridurre di quasi un terzo, sottraendo 100 milioni. Una briciola nel mare magnum del debito pubblico stramiliardario, ma che può fare la differenza tra la vita e la morte per gli 1,8 milioni disabili gravi e gravissimi che vivono nel nostro Paese.

E accade al “Nomenclatore dei dispositivi medici” per i quali è previsto il rimborso. Si tratta di un tariffario istituito nel 1999 e mai aggiornato nonostante innumerevoli promesse, la qual cosa costringe migliaia di persone a usufruire di strumenti tecnologici obsoleti e oramai inadatti per potersi rapportare con chiunque. Limitando o addirittura impedendo anche i più normali gesti quotidiani.

Questo ritardo colpisce in particolare le 6.000 persone che in Italia sono affette da Sla (Sclerosi laterale amiotrofica). L’attuale nomenclatore non comprende infatti i comunicatori a comando oculare disponibili da un decennio sul mercato, che sono gli unici dispositivi in grado di farli interagire con la famiglia, i medici e il mondo esterno.

Marco Gentili, 25 anni, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, affetto da Sla familiare, è uno di loro. Laureato in Scienze politiche e consigliere comunale Pd nella sua Tarquinia, meravigliosa cittadina etrusca nell’alto Lazio, Gentili è da anni in prima linea con la sua battaglia politica e di civiltà contro i soprusi di Stato alle persone disabili. Left gli ha rivolto alcune domande per fare il punto di una situazione oramai divenuta insostenibile.

A giugno il ministro Lorenzin aveva promesso che l’aggiornamento del nomenclatore tariffario sarebbe avvenuto entro il 30 settembre. Ma il termine è scaduto senza che nulla accadesse. Come del resto era già successo con il Milleproroghe di gennaio 2014. Durante una recente trasmissione delle Iene, Renzi ha affermato che l’aggiornamento sarà realizzato entro dicembre. Sarà davvero la volta buona?

I disabili per pronunciarsi hanno bisogno di supporti tecnologici o quanto meno di amici e familiari, e sono persone che non possono né insorgere né tanto meno manifestare in modo compatto. Per questo la loro categoria è sempre stata quella meno ascoltata, sia da governi di centrosinistra che di centrodestra. L’attuale premier e il suo governo fanno troppe promesse. Riguardo il nomenclatore posso solo dire di aver smesso di credere a Babbo Natale da tempo, ma come Associazione Coscioni siamo pronti a interloquire con l’esecutivo affinché la problematica sia risolta nel miglior modo e nel minor tempo possibile.

Matteo Renzi ha partecipato con entusiasmo alla campagna di sensibilizzazione contro la Sla bagnandosi con il famoso secchio di acqua gelata. Dopo quel gesto lei ha ricordato al primo ministro che l’attuale nomenclatore non include gli unici dispositivi in grado di permettere ai malati di Sla di interagire con il mondo esterno. Ha avuto dei riscontri a questa sua sollecitazione?

Sarei ben lieto di esternare notizie positive ma ad oggi, di consistente, c’è davvero ben poco. Dopo il mio appello, nonostante la solidarietà mediatica ricevuta e ben accolta e la possibilità che ho avuto di parlare a un grande pubblico, nulla di concreto è accaduto.

Dopo quella dichiarazione del ministro Lorenzin, l’Associazione Coscioni aveva chiesto – inascoltata – l’approvazione immediata dell’aggiornamento del Nomenclatore e l’emanazione del decreto sui Livelli essenziali di assistenza. Quali sono le vostre proposte per la revisione del regolamento dell’assistenza protesica?

La nostra richiesta si concentra su alcuni punti salienti. Innanzitutto la revisione della lista delle tipologie di ausili erogabili eliminando quelli obsoleti e introducendo quelli tecnologicamente più avanzati. In secondo luogo la realizzazione di un sistema di identificazione dei dispositivi erogabili più efficace e trasparente, attraverso la registrazione in un “Repertorio” degli ausili tecnici, peraltro già previsto dalla legge Finanziaria del 2006 e mai realizzato. Tutto ciò allo scopo di garantire alle persone disabili l’effettivo diritto di conoscere quali sono i dispositivi a cui possono accedere, senza sottoporsi ad inutili umiliazioni per sapere se un determinato prodotto può essere ottenuto gratuitamente oppure no, oppure tra quali modelli di ausilio sia possibile effettuare la scelta.

Quali conseguenze comporta per la vita quotidiana delle persone con gravi disabilità il mancato aggiornamento del nomenclatore tariffario?

È innanzitutto un ritardo ingiustificabile. Per una persona disabile, che non è continuamente attenta allo sviluppo tecnologico degli ausili, il non aggiornamento può voler dire l’utilizzo di strumenti scadenti e fuori commercio da tempo e, quindi, può significare l’aumento delle difficoltà nella comunicazione, ma anche nell’espletamento dei bisogni primari o può diminuire la capacità di vivere una vita autonoma, anche solo in parte. Chi invece ha la possibilità di utilizzare strumenti più innovativi, non certo grazie al nomenclatore, lo fa dopo innumerevoli ricerche in merito e dopo aver compiuto diverse procedure trasversali per nulla semplici per ottenere il prodotto. L’aggiornamento è necessario, quindi, perché venga garantito a tutti i disabili il medesimo diritto di vivere al meglio delle proprie possibilità.

Quanto costa allo Stato questo ritardo?

Costa, e costa molto. Il prontuario è fermo al 1999, con i prezzi del 1999. Quindi se una persona disabile necessita di un ausilio che viene erogato dal Ssn, quest’ultimo lo paga al costo stabilito sul Nomenclatore del 1999. Si tratta di un prezzo più alto rispetto a quello che un’ortopedia fa pagare per lo stesso ausilio acquistato da un privato. Nel frattempo, però, il costo di molti ausili è diminuito e molti altri più innovativi sono stati messi in commercio, e questo genera un dispendio economico per lo Stato non ben controllabile e regolabile.

Gli altri grandi Paesi Ue (Germania, Gb, Francia etc) come si regolano?

L’Italia è il fanalino di coda. In tutti i Paesi europei vige la registrazione degli ausili comprensivi di prezzo di listino del prodotto di base e degli accessori, preceduta da test tecnici e da valutazioni riabilitative o sanitarie. In particolare, superlativo è il sistema in uso nei Paesi scandinavi. Qui è lo Stato a farsi carico dell’assistenza del bambino o dell’adulto disabile fin dal momento della prima diagnosi con la formulazione, da parte di un’equipe altamente specializzata e diversificata, di una “Proposta di intervento assistenziale” che tiene conto, tra l’altro, della composizione del nucleo familiare, dell’abitazione, della necessità di un mezzo di trasporto idoneo oltre che dei bisogni e delle potenzialità della persona con disabilità. Non da meno sono Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Gran Bretagna, dove ogni ausilio è continuamente testato da organismi competenti e iscritto in appositi schedari. Sulla base delle necessità e delle disponibilità economiche del richiedente, lo Stato finanzia poi totalmente o in parte la spesa. Ribadisco, perciò, che il nostro ritardo è decisamente ingiustificato.

Perché il nomenclatore non viene aggiornato?

Innanzitutto, come sempre accade in Italia, non si fa mai fede alle scadenze. A meno che non succeda qualcosa di significativo, tutto finisce nel dimenticatoio e nell’intricato sistema di revisione delle leggi del nostro Parlamento. Vorrei anche dire, senza accusare nessuno, che molto probabilmente a qualcuno fa comodo questa situazione perché un aggiornamento delle tariffe e l’abbassamento del costo degli ausili di cui si fa carico lo Stato potrebbe alimentare un sistema concorrenziale.

A Renzi lei ha ricordato anche che l’associazione Usa dalla quale è partita la catena delle secchiate d’acqua devolve cospicui fondi proprio a quella ricerca sugli embrioni che da noi oggi è vietata dalla Legge 40. Pensa che agirà di conseguenza eliminando questo divieto da una legge oramai scarnificata dalle sentenze della Corte costituzionale?

Non credo anche se me lo auguro. L’Associazione Coscioni ha rivolto molti appelli al premier affinché cancellasse gli ultimi divieti rimasti nella Legge 40. Ma non ha fatto nulla, neanche una risposta puramente formale ai nostri solleciti. Purtroppo saranno i giudici a colmare le inerzie politiche. E noi saremmo accanto a tutte quelle coppie che ci chiederanno aiuto per accedere senza discriminazioni alla fecondazione assistita o che vorranno donare alla ricerca i propri embrioni, proprio per tentare di trovare una cura a malattie invalidanti come la Sla.

Da consigliere comunale eletto nel Pd.come giudica l’atteggiamento del suo partito riguardo il riconoscimento dei diritti e la garanzia di soddisfazione dei bisogni fondamentali delle persone disabili?

A livello locale l’atteggiamento è stato sempre positivo dimostrando una certa sensibilità nell’affrontare queste dinamiche sociali. A Tarquinia, invece di tagliare abbiamo incentivato l’attuazione di nuovi progetti. Io personalmente sto promuovendo l’istituzione del registro del testamento biologico, che se verrà realizzato sarà un eccellente esempio di libertà, autonomia e democrazia.

E come giudica invece la sensibilità e l’operato del governo Renzi?

Dopo la versione ufficiosa del Disegno di legge di stabilità che taglia il Fondo per le non autosufficienze di 100 milioni è piuttosto imbarazzante esprimere un giudizio . Anche se si trattasse solo di una scelta tecnica non dettata dal premier, sarebbe comunque inaccettabile. Questo fondo è vitale per garantire un sostegno per l’assistenza domiciliare a migliaia di malati gravi e non autosufficienti, tra cui le persone che in Italia sono affette da Sla. Da questo governo che ha fatto delle docce gelate un vanto, il solo fatto di aver pensato a questa mossa politica risulta alquanto deplorevole.

Quale consiglio darebbe a Renzi se fosse sufficientemente umile da ascoltare la “base”?

In Italia per salvaguardare il generale benessere dei cittadini occorre ridare valore al rapporto tra classe politica e comunità scientifica, attraverso un dialogo costante. La politica, a mio avviso, dovrebbe prendere atto della validità dell’etica scientifica e delle scoperte che hanno ricadute su ambiti di interesse sociale. Per poi legiferare in maniera più democratica e più bilanciata possibile. Il problema cruciale per il nostro Paese è proprio l’incapacità manifesta della classe politica di sviluppare questo dialogo e questa collaborazione con il mondo scientifico.

Lo Stato scivola sull’argine del fiume

Quanto è avvenuto a Carrara la scorsa settimana è l’ultimo campanello di allarme per ricostruire il settore delle opere pubbliche per la sicurezza dei territori e della popolazione. L’argine del fiume Carrione, ricostruito di recente, è collassato provocando l’inondazione di abitazioni e di attività produttive. Saranno le indagini della magistratura a chiarire i motivi del crollo, ma si può certo affermare che un simile evento è stato causato da difetti di progettazione e di esecuzione.

Dobbiamo allora ragionare come sia possibile che un Paese un tempo all’avanguardia nelle opere pubbliche assista inerte ad una simile spirale. Dovremmo dunque compiere il bilancio della scellerata cultura semplificatrice e derogatoria che si è diffusa come un morbo in tutto il paese. A furia di cancellare controlli e demolire pezzi dello Stato, le opere pubbliche – anche le più delicate per la sicurezza della vita dei cittadini – vengono affidate con procedure accelerate a privati che hanno poi piena autonomia nella progettazione e nell’esecuzione. La cultura dell’urgenza e della privatizzazione ha spazzato via lo Stato.

Si deve correre, così ci viene spiegato, perché è l’unico modo per essere più competitivi. Nonostante il fallimento di questa ricetta, assistiamo infatti ancora oggi al delirio di semplificazioni e di compressione dei tempi delle decisioni. Negli stessi giorni in cui l’argine del Carrione cedeva di schianto, il governo approvava il decreto “Sblocca Italia” e nelle dichiarazioni di giubilo si è affermato appunto che le semplificazioni lì contenute avrebbero assicurato la ripresa economica. L’articolo 7 contiene «norme di accelerazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico» e specifica al punto l, comma 4, che i presidenti delle Regioni in qualità di commissari straordinari «possono avvalersi dell’opera di privati». Si prosegue dunque sulla strada che ha provocato molti disastri.

La popolazione di Carrara occupa da giorni la sede comunale. Se non vogliamo che questa giusta rabbia dei cittadini provochi danni incalcolabili, c’è una sola strada, quella di ricostruire la struttura tecnica dello Stato e dotarla di finanziamenti adeguati. La manutenzione del territorio italiano è l’unica grande opera che dovremmo affrontare, ma anche con lo Sblocca Italia tutte le risorse vanno alle grandi opere. I cittadini possono aspettare per Renzi e Lupi, ma la vicenda di Carrara ci dice che non sono più disposti a farlo.

Sergio Cofferati: larghe intese? No grazie

«Nella politica dovrebbe tornare un po’ di passione. Invece tra gli elettori di sinistra passa il messaggio che vengono prima gli interessi, la collocazione personale». Sergio Cofferati da pochi giorni ha annunciato la sua corsa alla presidenza della Liguria, una regione martoriata dal dissesto idrogeologico e in una crisi profonda.

L’ex segretario della Cgil, l’uomo dei due milioni e mezzo al Circo Massimo nella manifestazione per la difesa dell’articolo 18, è stato rieletto al Parlamento europeo lo scorso maggio proprio dagli elettori liguri. Genovese di adozione («mia moglie è di Genova e qui è nato mio figlio»), a 66 anni si rimette in gioco. E lo fa accettando la sfida delle primarie che si terranno il 21 dicembre. La corsa lo vede impegnato soprattutto contro l’altra candidata del Pd Raffaella Paita, renziana, assessore regionale alle Infrastrutture e alla Protezione civile. Tra i concorrenti, c’è anche Massimiliano Tovo alla guida di una lista civica.

Sergio Cofferati perché ha deciso di candidarsi?

Non avevo messo in conto in nessun modo questa decisione. Ma sono stato sollecitato a farlo non solo dall’interno del Partito democratico della Liguria, ma soprattutto da tanti cittadini. A volte in modo molto affettuoso. Sono gli stessi che qualche mese fa mi avevano votato per continuare il lavoro in Europa. Una richiesta che parte dalla vera emergenza economica, sociale e politica che purtroppo sta colpendo la Liguria. Ci ho pensato e riflettuto. Io considero la politica come servizio. E siccome quei cittadini sentono il bisogno di una mia presenza in Liguria, devo essere disponibile. Inoltre, all’emergenza economica si unisce una crisi istituzionale accentuata dai ritardi e dagli errori, come si nota anche dalle drammatiche vicende di queste settimane che stanno proponendo problemi che già si erano verificati tre anni fa, con l’emergenza del dissesto idrogeologico.

A quali forze e movimenti si rivolgerà? Dove pensa di raccogliere consensi nella sua corsa per le primarie?

Credo che sia indispensabile introdurre nelle politiche dell’istituzione Regione cambiamenti radicali rispetto al passato più recente. Cambiamenti forti. Tutti quelli che sono convinti che bisogna cambiare rotta sono ben accetti nella coalizione che dobbiamo costruire. Occorrono politiche diverse. C’è stata una mancanza radicale di politica ambientale, ma anche un’assenza altrettanto vistosa di quella relativa alle infrastrutture. I nostri porti, ad esempio, così importanti, non riescono a esprimere la loro potenzialità perché non sono collegati a sufficienza con il territorio circostante.

Tutte le forze che vogliono cambiamento: cosa significa?

Ovviamente significa che i confini sono ben precisi. Penso a una coalizione di centrosinistra. Al di là del puro rapporto istituzionale, non penso ad alcun coinvolgimento del Nuovo centro destra. Non si può ripetere in Liguria il modello di governo nazionale. Assolutamente. Anzi, bisogna fermare processi vistosi di trasformismo. Il venir meno dell’antico coagulo del centrodestra che aveva come leader Scajola e la sua attività politica sta producendo fenomeni negativi. Gruppi, persone di destra si fingono soggetti civici non avendo più il referente di prima.

Lei si riferisce a Massimiliano Tovo?

Che cosa sia oggi Tovo non si sa, e questo è un problema che dovrà chiarire lui stesso. No, c’è molto di più: si tratta di movimenti di sindaci eletti nel centrodestra. Anche se io non nego a nessuno la possibilità di cambiare idea, la rottura con il passato deve esser netta e visibile. Non si può fare una coalizione con soggetti ignoti.

Sarà un “laboratorio rosso” quello di Sergio Cofferati in Liguria?

Penso che sia molto importante il rapporto con le forze alla sinistra del Pd, ma è lontana da me l’idea del laboratorio! Adesso servono uno sforzo straordinario e un rapporto forte, che è motivato dalla crisi. Non penso a nulla che possa avere a che fare con la dialettica interna del Pd e ancor meno a ipotesi che abbiano la pretesa di essere laboratorio di soluzioni future. No, adesso bisogna misurarsi sul campo con problemi enormi e drammatici da risolvere.

Dall’esterno la sua candidatura può essere letta in chiave anti-renziana.

Sono già in fieri e saranno presto esplicite le disponibilità di una parte del centro, cioé dei renziani della Liguria, a sostenere la mia candidatura. Comunque punto ad avere uno schieramento trasversale nella geografia interna del Pd.

In questo momento in cui si invoca da più parti la necessità di una politica industriale, lei ha in mente nuove attività produttive?

Qualche decennio fa quando entravano in crisi le produzioni di base, la siderurgia e la chimica, la Liguria propose un investimento su attività manifatturiere più nuove utilizzando anche una cultura dell’innovazione presente nell’università e nelle strutture di ricerca genovesi. Un modello molto affascinante che per qualche tempo ha funzionato e che poi si è arrestato perché il governo nazionale e gli enti locali non hanno più creduto al valore dell’innovazione. Si tratta di rilanciarlo, partendo dalla realtà e dalla storia di Genova. Non penso solo al manifatturiero, ma anche ai beni e ai servizi. Penso alle potenzialità del turismo, molto spontaneo e poco programmato. Al sistema dei teatri della Liguria che hanno fama e visibilità in Europa e che sono difficili da fruire per chi abita le regioni vicine. E poi bisogna intervenire sulle infrastrutture, sui trasporti, sui porti. Bisogna intervenire utilizzando risorse che preesistevano e che, ricollocate in un quadro diverso, possono dare vantaggi. Occorre una politica minimamente programmata. In passato ha prevalso l’idea che ognuno faceva per conto suo, con le amministrazioni che stavano a guardare.

Quale potrebbe essere il ruolo del sindacato a livello politico, anche dopo la radicalizzazione dello scontro con il governo sul Jobs act? Potrebbe nascere un partito del lavoro?

Per me non sono temi all’ordine del giorno. Penso una cosa molto semplice: quando un territorio con la storia e la bellezza della Liguria entra nel tunnel di una crisi così drammatica, riuscire a affrontarla senza che si rompa il rapporto tra istituzioni e cittadini e ottenere qualche risultato per rovesciare la tendenza negativa in atto, sarebbe di per sé un grande risultato. A questo vale la pena destinare energia e disponibilità. Se no cos’è la politica?