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Matteo Salvini, moderato come Putin

E’ l’uomo politico del momento. Mentre Silvio Berlusconi fa morire di lenta agonia Forza Italia e Beppe Grillo sembra essere uscito dalla grazia degli elettori, Matteo Salvini è l’unico leader in grado di lanciare il guanto di sfida a Matteo Renzi. Il capo leghista scala ogni giorno le “classifiche” di gradimento degli italiani e il suo partito, un tempo confinato alle valli del Po, viene quotato attorno al 10 per cento.

Salvini il “macina consenso” – soffiando sulle braci della guerra tra poveri che genera paura e scollamento sociale – non disdegna nemmeno compagni di strada scomodi, come i fascisti di CasaPound. Il Matteo venuto dal Nord ha un’idea fissa in testa: trasformare la Lega in un partito nazionale, capace di diventare forza di governo a Canicattì come a Pontida. Per farlo, ha annunciato la nascita di un nuovo contenitore, la Lega dei Popoli, con cui i seguaci di Alberto da Giussano dovrebbero a breve sbarcare al Sud.

Salvini, partiamo da qui, a che punto è il progetto “Lega dei Popoli”?

Quasi confezionato. Lo stiamo ritardando perché non pensavamo di avere così tante richieste e adesioni, l’avevamo studiato come punto di partenza ma ci sbagliavamo: oggi sono già arrivate 140 domande di adesione da tutto il Centro Sud.

Da quali regioni?

C’è un sacco di Puglia, un sacco di Calabria e Roma che è un vulcano.

Anche perché nella Capitale avete cavalcato la rabbia delle periferie.

No, ma anche da prima.

Grazie a Borghezio allora, che le ha preparato il terreno con CasaPound durante la campagna elettorale per le Europee. Ma come fa ad accogliere i fascisti di CasaPound nel suo progetto?

Il progetto è aperto a tutti. Presenteremo una carta di valori con sei o sette punti molto concreti su tasse, immigrazione, Europa, famiglia, burocrazia. Saremo aperti a tutti i soggetti democraticamente riconosciute: dalle casalinghe ai pompieri, passando per i cacciatori e qualunque tipo di comunità aggregata.

Mi sta dicendo che CasaPound, che non disdegna la violenza, è una qualunque comunità aggregata?

Il no alla violenza è il prerequisito per chiunque voglia aderire. I problemi non si risolvono a calci, pugni e sprangate. Purtroppo la violenza è di sinistra.

Vabbé, torniamo alla Lega dei Popoli. In realtà è un’idea che viene da lontano, dai primi anni Novanta e dalla mente di Gianfranco Miglio, ideologo e padre nobile del suo movimento. Però, secondo un’inchiesta della Procura di Palermo poi archiviata, Miglio, per espandersi al Sud sarebbe entrato in contatto con uomini d’onore, con la benedizione di Licio Gelli. Spero che la nuova Lega dei Popoli non abbia nulla a che vedere con quel progetto…

Avendo avuto la fortuna di conoscerlo, mi rifiuto di pensare che Miglio ragionasse insieme a certi personaggi. Detto questo, i soggetti di cui parla sono nostri nemici giurati con cui non voglio avere niente a che fare.

Però Miglio qualche idea strana ce l’aveva, senta cosa dichiarava al Giornale il 20 marzo del 1999: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e dalla ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando».

Non è la mia idea. Io al Sud voglio dialogare con gente che odia la mafia, la ’ndrangheta la camorra e la Sacra corona unita.

Vorrebbe creare delle macroregioni autonome in tutta Italia?

L’importante è il concetto di autonomia. Ne ho parlato anche con esponenti pugliesi, siciliani, calabresi. A noi interessa l’autogoverno. Se poi sono macroregioni, Regioni a statuto speciale, aree omogenee per interesse economico, non lo so. L’importante è che ogni territorio riesca ad autogestirsi. Di certo non penso alla Sicilia come modello, quella è la peggiore accezione dell’autonomia.

Come individuerà le persone di cui fidarsi al Sud, visto che parliamo di un ambito geografico non di sua diretta competenza?

Guardiamo le fedine penali, per cominciare. E poi si va a intuito. Contando soprattutto sulla biografia delle persone. C’è gente che mi ha contattato e ha storie anche ventennali di lotta contro le mafie. Parto da quelli.

Domenica si vota in Calabria, ma voi non ci siete. A quando l’esordio elettorale della Lega meridionale?

In primavera. Saranno chiamate al voto nove regioni e noi ci saremo ovunque.

Perché ha ritirato il mandato agli avvocati della Lega nel processo contro Belsito?

Perché stavamo perdendo tempo e soldi.

Sì, ma stiamo parlando di una persona che per gli inquirenti avrebbe avuto rapporti con le ’ndrine? Forse, a rimanere nel processo, la Lega avrebbe ci avrebbe guadagnato in immagine…

C’è un processo. Se verrà condannato dalla giustizia italiana posso chiedere comunque il risarcimento danni. Ma siccome io non ho moltissima fiducia nella giustizia italiana, voglio vedere quanto tempo ci mettono e cosa portano a casa.

Perché non ha detto niente a Maroni prima di prendere una decisione del genere?

Perché ho altre emergenze onestamente. Ho girato per Milano sott’acqua e la settimana scorsa ho girato per l’Emilia in campagna elettorale. Il signor Belsito ci ha già fatto tutti i danni possibili e immaginabili. Non è più al centro dei miei pensieri.

Riuscirà ricompattare tutto il centrodestra attorno alla sua figura?

Sì, è la maggioranza di questo Paese.

Come fa a prendere il posto che fu di Berlusconi?

Proponendo un progetto di vita, di società e di economia totalmente alternativo a quello di Renzi.

E quale sarebbe?

Noi il 13 dicembre a Milano, per esempio, presentiamo la nostra proposta di rivoluzione fiscale: la flat tax. Sarebbe un’aliquota fiscale secca, uguale per tutti, al 15 per cento. Spero che attorno a questa proposta l’area liberale, moderata e moderna del Paese si ricompatti. È una sfida totalmente alternativa a Renzi.

Una sfida che lancerete alleandovi con Fratelli d’Italia?

Anche. Però non voglio chiudere il recinto alle sigle di partito. Io penso ai 10 milioni di italiani che votarono centrodestra e che non l’hanno più votato perché la rivoluzione liberale non l’abbiamo fatta. Penso che adesso ci siano le condizioni per farla.

Per conquistare i moderati forse dovrebbe prima disfarsi dei compagni di strada di cui parlavamo prima: quelli di CasaPound. Scusi se insisto…

Ripeto, il progetto sarà uguale per tutti. Basta accettare alcune idea: la non violenza, un certo tipo di considerazione di Europa, un certo tipo di presenza dello Stato nel welfare, meno Stato in economia.

E basta Euro…

Certo, ma questo è nelle cose. Salvini, da questo punto di vista, è l’ultimo dei problemi. L’Euro finisce perché è una moneta senza senso. Solo così l’Italia potrà tornare a competere ad armi pari, non con una moneta sbagliata, sopravvalutata e al servizio di interessi di altri, non i nostri.

Marine Le Pen e Vladimir Putin sono due suoi ingombranti punti di riferimento. Pensa che i moderati la capiranno?

Sì, perché penso che Putin sia il leader mondiale con le idee più chiare che ci sono sulla faccia della terra e Le Pen può giocarsi la presidenza della Repubblica francese, che non penso sia composta da matti.

In effetti anche Berlusconi era molto amico del presidente russo e riusciva a ottenere il consenso degli strani liberali italiani. Ma sulla scarsa democraticità di Putin, per usare un eufemismo, credo ci sia poco da discutere…

Come quella di Obama e della Ue. Il giudizio è soggettivo. Penso che sia molto meno democratica l’istituzione europea rispetto alla Federazione russa.

Rivoluzione? No. Solo compassione

Indimenticabile quel giorno in cui, presentando un libro, ho avuto uno scontro educato ma sentito con uno specialista che sosteneva di provare “compassione” per quegli uomini che un tempo, al freddo di una vita, si infilavano nel letto delle loro figlie.

Quando è arrivato il mio turno, sono intervenuta dicendo che non provavo nessuna compassione per quegli uomini, anche se fuori era freddo e le mogli erano stanche. La risposta fu che, evidentemente, non conoscevo il significato latino della parola “compassione”. Che, mi spiegò, non voleva dire comprendere o giustificare ma “patire con”, patire insieme. Non sapeva che qualunque medievista, anche mediocre, mastica latino già a colazione. Il significato lo conoscevo fin troppo bene, e il punto era proprio lì: io non pativo affatto con/insieme a quegli uomini che si infilavano nel letto delle loro figlie. E non so perché oggi, non mi stupisce che il papa torni a usare questo termine, “compassione” (cum patior) per parlare ai medici.

È “compassione vera” solo se il medico patisce insieme, patisce con, proprio come mi disse quello specialista. Questo fa il Buon samaritano: si “prende cura”, assiste. Scelte controcorrente, fino all’obiezione di coscienza, chiede Francesco, perché i medici sono chiamati a «salvaguardare la vita che è sacra». E perché in un mondo dove è «più facile guarire» diventa «più difficile prendersi cura dei più fragili». Anziani, malati, disabili, bambini. «State attenti, ha avvertito, sperimentare con la vita, è un peccato contro Dio creatore». Ma soprattutto è “falsa compassione” perché cura, persino guarisce. Addirittura solleva da una “non vita” un essere umano che sceglie di farlo. E’ “falsa compassione” fecondare artificialmente una donna, perché un figlio è un dono e non un diritto. Come è un dono e non un diritto la sua infertilità biologica. Un dono di Dio, anche quello.

Ma sia chiaro, il papa fa il papa. Il problema non è lui, semmai sono le lenzuolate sulla “rivoluzione di Francesco” che da più di un anno riempiono tutti i santi quotidiani del Paese. Prime pagine, lettere, colloqui, interviste, incoronazioni a sinistra e a destra. Chiunque, anche quelli con cui condividi grandi cose, di fronte a Francesco, perdono la testa. Bene, ecco qua: «Il pensiero dominante propone una falsa compassione: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica “produrre” un figlio, usare vite umane come cavie di laboratorio per salvaguardarne presumibilmente altre», questa è la “rivoluzione” di Francesco. Chiaro?

Sogno e son destro

Ha seminato Grillo e Berlusconi, e ora tallona Renzi. Avanza come un fulmine, Matteo Salvini, l’astro nascente della destra italiana. Uno che la casacca non l’ha mai cambiata, ma le felpe (e gli slogan) sì. Se nel 1997 – quando era candidato al Parlamento del Nord con la lista dei Comunisti padani – lo si vedeva in giro con la maglia di Che Guevara, negli anni delle marce sul Po ha sfoggiato a lungo la felpa “Padania is not Italy”.

Adesso che batte palmo a palmo tutto il Paese ripetendo lo slogan “prima gli italiani” con la stessa assertività con cui un tempo diceva “prima i milanesi”, alterna disinvoltamente maglie che inneggiano alla Lombardia, all’Emilia e persino a Roma. Perché il leader del Carroccio ha capito che il bacino elettorale orfano è la destra, senza limiti territoriali. Così ha velocemente accantonato il secessionismo per marciare alla volta del nazional leghismo fianco a fianco con quelli che nel 2011 liquidava come «i soliti pirla, squadristi e fascisti».

Una contraddizione non facile da risolvere per un partito che si chiama Lega Nord e che sul sito fa ancora riferimento all’indipendenza della Padania. Ma lui tira dritto: fa conferenze stampa con la leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen, va a trovare Vladimir Putin in Russia, sguinzaglia il fascistoide Mario Borghezio al di sotto della linea gotica e si allea con la destra sociale di CasaPound.

E mentre tutti i partiti italiani, persino il Pd di Renzi, calano nei sondaggi, il Carroccio 2.0 sfreccia oltre il 10 per cento, record nazionale per il movimento fondato da Umberto Bossi. Anche se ripete la solfa del «destra e sinistra non contano più niente», Salvini sa benissimo che il vuoto da riempire è a destra. E infatti lo scontro con Flavio Tosi, raccontano dall’interno, non è solo su quale dei due leader debba guidare la coalizione, ma su dove si debbano prendere i voti: il sindaco di Verona è convinto che la competizione con Renzi si giochi nel campo moderato, Salvini punta all’elettorato esasperato delle periferie allo stremo. Una volta fatto il pieno di consensi là, è pronto a trattare con il centro, ormai a secco di voti. Per farlo, lancia crociate contro immigrati, rom ed euro, scatenando guerre tra i poveri e gettando benzina sul fuoco.

L’ENFANT PRODIGE DEL CARROCCIO

Come il suo omonimo a Palazzo Chigi, anche Salvini, classe 1973, ha cominciato a fare politica giovanissimo. Affascinato dallo slogan «Sono lombardo, voto lombardo», si è iscritto alla Lega a 17 anni. Già a 20 è eletto consigliere comunale a Milano, e a 25 diventa segretario della Lega meneghina. Racconta spesso che da ragazzo aveva due foto sul comodino: Umberto Bossi e Franco Baresi. Lega e Milan le sue grandi passioni, assieme a Fabrizio De Andrè e ai tortelli di zucca.

Cresciuto ai microfoni di Radio Padania Libera, è diventato un abile comunicatore. I conduttori televisivi l’hanno capito e ormai imperversa su tutte le reti, dal mattino alla sera. Nel suo excursus non sono certo mancate le sparate esagerate, come quando nel 2009 se ne uscì con la proposta di destinare alcune carrozze del metrò ai milanesi. Era parlamentare e fu sommerso dalle critiche. Ma Salvini non è uno che si demoralizza. E si è rimesso al lavoro, tra mercati e banchetti, sempre in mezzo alla gente.

Poi è scoppiato lo scandalo dei soldi alla famiglia Bossi e dei rimborsi irregolari, tra banchetti di matrimonio e munizioni per fucili, e il Giamburrasca che un tempo frequentava il centro sociale Leoncavallo ha abilmente sfilato la Lega al suo fondatore. Dopo aver impugnato la ramazza assieme a Roberto Maroni, alle primarie del 7 dicembre 2013 Salvini ha conquistato l’82 per cento dei voti, mandando a casa il senatùr, vecchio e malato. Certo, i votanti erano 10mila, non i quasi tre milioni che il giorno dopo si sono recati ai gazebo del Pd, ma l’investitura è stata netta.

Già alle Europee di maggio ha sorpreso tutti: invece di scomparire, il suo Carroccio ha incassato un dignitoso 6 per cento e ha eletto il suo primo europarlamentare nel collegio Centro Italia. C’è chi racconta che questo colpaccio sia stato un caso fortuito. Molti non volevano ricandidare Borghezio, che aveva finito il suo mandato in Europa con una sospensione dal gruppo per la sua sparata contro il “governo bonga bonga” della “negra” Kyenge. Salvini gli ha proposto il seggio incerto di Roma: lui ha accettato e si è buttato pancia a terra, riattivando i suoi contatti di estrema destra.

Studi classici al liceo Manzoni, centro di Milano (ma non ha mai finito l’università), Salvini soffia sul fuoco mantenendo una parvenza di buona creanza. Non chiama gli immigrati “bongo bongo”, come i suoi compagni di partito, e non paragona la Kyenge a un “orango”. Però può essere verbalmente molto aggressivo. Come quando ha ripreso l’ex ministra all’Integrazione in visita alla Nazionale di calcio: «Ma preoccupati dei disoccupati e degli esodati invece di girare l’Italia da turista, a spese nostre, sparando cazzate». È stata gentile Cecile Kyenge a non restituirgli l’accusa.

Perché Salvini è costantemente in giro per l’Italia con la sua auto piena di volantini. E lo fa malgrado sia pagato per stare a Bruxelles. I dati delle sue presenze in aula parlano chiaro: ha un tasso di assenza nella metà delle votazioni, piazzandosi al 706esimo posto su 750 europarlamentari. Non molto migliore il suo posizionamento per l’attività: 604esimo. Il giudizio più tranchant l’ha dato il socialista belga Marc Tarabella: «Sei un fannullone di questo Parlamento. Solo in tv, mai in aula, mai in riunione per lavorare», l’ha apostrofato nel gennaio 2013, furibondo per le sue assenze in commissione, là dove si risolvono i problemi della gente.

TANTI SLOGAN, POCHE SOLUZIONI

Molti, infatti, ipotizzano che il problema di Salvini sarà la capitalizzazione del consenso. Del resto è noto che il Carroccio ha governato per quasi 20 anni a Milano e altrettanti in Italia senza risolvere i problemi da sempre indicati dai leghisti come prioritari. A cominciare dai campi Rom, che venivano continuamente sgomberati e spontaneamente risorgevano. Un partito, il suo, che non ha esitato a lasciare a digiuno i bimbi non in regola con il pagamento della mensa scolastica, ed ha proposto di vietare la materna ai figli degli immigrati irregolari o di denunciare i clandestini che si fossero presentati in ospedale.

Eppure Salvini sfoggia una sensibilità sociale, contrapponendo gli immigrati al disoccupato nostrano che non arriva a fine mese o al pensionato che non ha i soldi per curarsi. Sempre fingendo che lo straniero intaschi risorse che altrimenti andrebbero agli italiani che “fanno la fila”, mentre la maggioranza dei fondi sono europei e vincolati all’integrazione. «Salvini ha capito che lo spazio politico oggi è a destra: c’è una forte domanda di destra ma non c’è offerta», spiega il politologo Roberto D’Alimonte. «Lui dà risposte di destra su temi come l’immigrazione, l’euro e i diritti civili. Vorrebbe fare un partito di destra nazionale ma è segretario di un partito che si chiama Lega Nord. La sua crescita continuerà finché questa contraddizione non esploderà».

Oltre che con il suo passato, le contraddizioni sono anche nei confronti dei suoi alleati. Molti elettori di Forza Italia, ad esempio, inorridiscono all’idea dell’uscita dell’euro. Salvini stesso, del resto, nell’ottobre 2012 era categorico: «Il Nord l’euro se lo può permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta». A segnare le distanze con i fan di Berlusconi, ci sono anche le posizioni leghiste a favore della certezza della pena e contro ogni indulto. Con gli ex An, invece, lo iato è sempre stato sull’integrità della patria e sul Tricolore, che i leghisti hanno sempre voluto bruciare. Anche Salvini gli preferiva la bandiera con la croce di San Giorgio, tanto da farsi contestare nel giorno del 150esimo dell’unità d’Italia. Ovviamente di questi episodi non parla più, né rievoca il suo coro “Napoli merda, Napoli colera” di 5 anni fa.

Come se non bastasse, è stato pizzicato in contraddizione anche nella vita privata. Convinto fustigatore delle assunzioni di parenti, arranca nello spiegare come mai la sua attuale compagna sia stata chiamata dalla Regione Lombardia a guida leghista. Lui ribatte che Giulia – dalla quale nel 2012 ha avuto una bambina (Mirta) -, lavorava già con l’attuale assessore al Welfare quando era alla Asl. Ma è emerso che pure la sua ex moglie, Fabrizia – che nel 2003 gli ha dato un figlio maschio (Federico) -, passò da una radio privata al Comune di Milano quando lui era consigliere.

E se Salvini può trovare argomenti sulla competenza delle sue donne, fa senz’altro fatica a spiegare per quali meriti scelse come assistente a Bruxelles Franco Bossi, fratello dell’Umberto: uno che prima di seguirlo in Europa, aveva un negozio di autoricambi. Nel 2010, inoltre, “l’altro Matteo” fu tra quelli che sostennero la candidatura del pluribocciato Renzo Bossi nella lista per la Regione. Certo, lo scandalo dei soldi del partito usati per auto e paghette dei figli non era ancora scoppiato. Ma l’unica operazione politica del Trota era stato inventare il gioco “Rimbalza il clandestino”, rimosso addirittura da Facebook. Un exploit in perfetta linea col nuovo corso leghista.

Il leader? Ecco dove non è

Esistono tre Stati europei dove potrebbe succedere l’incredibile: una vittoria dei partiti della sinistra radicale. I tre Stati sono la Grecia, la Spagna e la Slovenia e i tre partiti sono, rispettivamente, Syriza, Podemos e Sinistra unita. Viaggiano, stando ai sondaggi, attorno al 30 per cento. Diciamo subito che l’esistenza di un partito della sinistra radicale non è una prescrizione medica. Anzi, laddove esiste un partito del centrosinistra aperto e inclusivo, è nell’ordine delle cose che la sinistra radicale sia una forza minoritaria. Devono aver ragionato così quegli esponenti di Sel che sono passati al Pd.

Il fatto è che nemmeno nel Pd tutti sono d’accordo e, come ci racconta Tiziana Barillà, si è ricominciato a ragionare attorno a qualcosa di sinistra. Un qualcosa che, a giudicare dai suoi atteggiamenti tutt’altro che inclusivi, non pare preoccupare più di tanto Matteo Renzi. Il quale è convinto che verrebbe fuori l’ennesimo partitino “a vocazione minoritaria”.

Le forze potenzialmente vincenti in Grecia, Spagna e Slovenia hanno dei tratti comuni: sono nate di recente, derivano da movimenti di protesta e sono guidate da forti figure di giovani leader. Questa constatazione – che alimenta l’idea di una sinistra vincente anche senza il centro – è all’origine del quesito che domina tutte le discussioni sul futuro della sinistra italiana: il leader dov’è? Perché la necessità di un leader (magari di un leader capace di tracciare il solco per poi farsi da parte: il leader dei sogni, diciamo) è data per scontata anche da chi non la condivide perché ritiene che il leader non sia, in quanto tale, di sinistra.

E infatti, periodicamente, spunta un nome. L’ultimo della serie è Maurizio Landini che, essendo un grande sindacalista e anche un uomo accorto, ha già detto mille volte di non volerne sentire parlare. In attesa dell’arrivo del messia, è possibile avviare un lavoro preparatorio. Che sarà utile sia nel caso in cui la mitica forza di sinistra nasca, sia nel caso in cui diventi una componente del mitico Pd inclusivo. Si tratta, semplicemente, di rubare al Renzi della prima ora l’idea vincente della rottamazione. E individuare i luoghi dove il leader non va assolutamente cercato, a meno di non decidere che la condanna minoritaria è a vita.

Ecco, facendo tesoro dei punti comuni della sinistra europea vincente, si arriva all’esclusione immediata: 1) dei partiti della sinistra radicale esistenti, disciolti e morenti, 2) della componente ex Ds del Pd, 3) di tutti i fondatori e ideatori di Rivoluzione civile. È solo una prima bozza. Si accettano integrazioni.

Paolo Conte e le donne dal sapor di caffè

L’inconfondibile voce roca, con stile. Il piano suonato con apparente disattenzione, seguendo un proprio filo interiore. E poi la nostalgia di un altrove sempre e solo sognato. Standosene nello scrigno della provincia torinese. Che però si pensa ad un passo da Parigi.

E poi l’esotismo da cartolina, immaginifico e divertito, il miraggio di una Habana barocca e notturna, al suono di «maracas… clessidras… al ritmo mirage ». C’è tutto l’universo di Paolo Conte in questo suo nuovo album dal titolo autoironico: Snob.

Paolo Conte, Snob, leftPubblicato dall’etichetta Platinum, questo nuovo disco arriva dopo quarant’anni di carriera, rompendo un silenzio creativo durato anni. Per l’occasione l’avvocato e “chansonnier” si regala una tournée internazionale, appena partita da Monaco di Baviera e che, dopo una tappa a Barcellona, il 20 novembre approderà al Teatro Regio di Parma, il 27 e 28 novembre a Milano e dal 4 al 6 dicembre a Roma.

Seguendo la rotta inversa a quella dei tanti migranti evocati nei testi di questo cd che si apre con il brano“Si sposa l’Africa” e dal porto di Genova s’imbarca per “L’Argentina”, lasciando signore dabbene per vagheggiate “Donne dal sapor di caffè”. è popolato di personaggi immaginifici e stralunati questo Snob che inanella quattordici canzoni originali caratterizzate da classiche atmosfere jazzy e fumose, mentre linguaggio colto e slang fumettistico si fondono nel racconto di paesaggi incantati che sembrano vivere di vita propria.

Questo è un album che viaggia sulle autostrade del contemporaneo con un ritmo che viene da lontano, evocando, quella lunga e nobile tradizione musicale portata da africani ridotti in schiavitù nelle piantagioni americane. Una tradizione che è da sempre il binario forte e strutturante di tutta la produzione musicale contiana, come nota Enrico Capasso nel libro Paolo Conte (Arcana).

Non a caso tornano qui a far capolino gli amati Duke Ellington e Louis Amstrong. E torna la passione per la rumba e per il tango anni 30, riletti in chiave rigorosamente astigiana. C’è spazio per sonorità caraibiche in “Tropical” e perfino per le canzoni anni 20 nell’ironica “Signorina saponetta”. E se sorge il sospetto che un po’ Conte qui si diverta ad imitare se stesso, brani speziati e avvolgenti come “Gente” ci restituiscono tutta la gioia dell’ascolto.

Amoreodio e l’ apparente normalità dietro ai fatti di Novi Ligure

Amoreodio, opera prima di Cristian Scardigno, è ispirato ai fatti di Novi Ligure: il tragico duplice omicidio avvenuto in provincia di Alessandria nel febbraio 2001 che vide coinvolti due adolescenti di 15 e 16 anni che uccisero a coltellate la madre e il fratellino di lei e poi inscenarono un’aggressione per far ricadere la colpa su immigrati.

Locandina Amoreodio, leftBisogna ammettere che non solo i grandi film permettono di riflettere sul cinema e sul suo linguaggio. Vi riescono bene anche i film inconsistenti come questo.Ragionando in negativo possiamo meglio spiegare questa affermazione. E’ assente dal film la patologia della ragazza (o il dilemma sanità-malattia che investì l’aula oltre all’opinione pubblica); è assente o del tutto anacronistica la dinamica madre-figlia. È assente la rappresentazione della freddezza detta clinicamente «anaffettività»; è assente l’alienazione religiosa che fa da sfondo alla drammatica vicenda; è assente la sessualità fredda e meccanica che diventa violenza patologica. È assente la fatuità di quel nucleo familiare, è assente la provincia del nord normale e benestante, vero e proprio medioevo moderno (l’ambientazione pugliese stride oltre misura); è assente l’adolescenza nelle sue infinite sfumature anche laddove sono ridotte a una sola tonalità di grigio.

Quella apparente normalità, vero leit motiv dell’intera storia, non è minimamente indagata. E’presa dal suo autore come dato acquisito, senza che avverta la necessità di guardarvi dentro. E’ assente soprattutto la capacità dell’autore di pensare per immagini una vicenda così complessa; mancano, duole dirlo, gli strumenti di conoscenza, di studio e di approfondimento oltre al coraggio che gli avrebbero evitato di vedere il suo fim annoverato come ricostruzione di fatti con attori alla maniera di quelle che vediamo spesso nelle trasmissioni di cronaca nera in cui appunto, il pensiero è una presenza che non c’è.

Per tutto questo non vorrei attardarmi con un giudizio troppo tecnico sul film, sulla regia o sulla recitazione. Desta stupore il fatto che una tale vicenda non abbia sollecitato il regista ad indagare dinamiche più profonde. Dichiarando di essere rimasto colpito da quell’avvenimento ci si chiede alla fine cosa realmente di quella vicenda l’abbia colpito per arrivare a farne un film. Assente, al cinema è ciò che resta fuori dall’inquadratura, e si chiama fuori campo. Ma ciò che resta fuori campo al cinema può non essere assente e può infondere dimensionalità, luce, tempo, corpo alla scena proprio come se fosse uno zéfiro che vi soffia dentro e fa vivere l’immagine cinematografica. Questo venticello è il pensiero dell’autore, la sua realtà più profonda, la sua creatività, la sua intelligenza.

Anche senza scomodare autori come Antonioni, Kubrick, Bunuel o Hitchkock possiamo dire che attraverso l’uso geniale del fuori campo, l’invisibile entra nell’inquadratura. Purtroppo la parola composta che dà il titolo a questo film sbarra ogni possibilità che giunga aria nella camera oscura, per cui la materia non riesce mai ad animarsi e con essa i suoi protagonisti.

Che modi Gentiloni!

Il suo primo pensiero l’ha dedicato ai due marò, proprio come aveva fatto nove mesi fa Federica Mogherini. Paolo Gentiloni arriva alla Farnesina in punta di piedi, nel segno della continuità e della rassicurazione. D’altronde non è difficile: i problemi internazionali restano sempre gli stessi, e la debolezza continua a immobilizzare la diplomazia italiana, anche se abbiamo spedito la nostra donna a Bruxelles.

Ovviamente lo status quo per chi ne fa parte è una garanzia e il passo felpato del nuovo ministro alla Farnesina non dispiace. Un funzionario del ministero ci dice: il nuovo capo sembra disponibile, umile, aperto. «Pensiamo che il rapporto sarà costruttivo». Non fa paura, Gentiloni, e anzi un bel gruppo di diplomatici lo preferisce a chi l’ha preceduto. Non avendo contatti nel mondo delle relazioni internazionali, il nuovo ministro dovrà affidarsi alla struttura della Farnesina molto più di quanto facesse Mogherini, che aveva portato con sé una squadra molto esterna e poco avvezza a rispettare i delicati equilibri interni al ministero.

Il nuovo titolare, invece, non pesta i piedi, è «tranquillo» come lo definisce un altro alto funzionario, ma anche “autorevole” e anche se non brilla per competenze internazionali – nella sua carriera non si è mai occupato di esteri – può raggiungere risultati grazie al suo “fiuto politico”. Se qualche diffidenza c’è, sostiene il diplomatico, dipende più che altro dal fatto che la Farnesina è fondamentalmente “di destra” e non ama mai troppo i ministri di centrosinistra. E ribadisce che la nomina è nel segno della continuità, e che le priorità resteranno le stesse: Europa, Libia, rapporti transatlantici.

Confermati, per ora, anche i ruoli di vertice, a partire dal capo di gabinetto Ettore Sequi, diplomatico navigatissimo in ambito internazionale che Federica Mogherini aveva voluto con sé sfilandolo dalla sua carriera nell’Unione europea, per la quale aveva rivestito anche il ruolo di rappresentante speciale in Afghanistan. Apprezzato nelle cancellerie di tutta Europa, Sequi era però un “esterno”, paracadutato dentro la Farnesina dopo anni di assenza insieme ad altri fedelissimi della Mogherini che non erano stati ben accolti dai ministeriali. La collaborazione tra i due staff non è andata benissimo e la Farnesina, tanto per cambiare, si è impantanata.

Anche tra chi ha lavorato con l’attuale miss Pesc c’è chi lo ammette: i risultati sono stati pochi. A giocare contro Mogherini c’è stato soprattutto il tempo, infatti già da prima dell’estate si parlava della sua candidatura alla Ue e fissare una strategia di lungo periodo era praticamente impossibile. C’è da aggiungere che, pur competente e preparata, la giovane ministra aveva le conoscenze teoriche ma poca esperienza politica e per recuperare si è infilata in un tourbillon di appuntamenti diplomatici, incontri con premier e ministri di mezzo mondo. Così si è fatta una ricca agenda che potrà sfruttare adesso come lady Pesc a Bruxelles, ma non ha messo mano a nessuna di quelle riforme di cui la struttura del ministero avrebbe tanto bisogno.

Governi troppo brevi e continui cambi di ministri (Bonino è restata in carica 10 mesi, Terzi un anno e quattro mesi) rendono qualsiasi strategia di lungo periodo impensabile e fanno perdere colpi all’Italia di fronte ai suoi rivali storici (Francia, Gran Bretagna e Germania), in un gioco di posizionamento tutto interno alla Ue.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

La disumana ferocia dei narcos

«C’erano una volta 43 poveri ragazzi…». No, non hanno più belle favole da raccontare, i nonni del Messico. Conoscono ormai soltanto storie vere che possono iniziare così, proprio come quella dei 43 studenti di Iguala, nello Stato meridionale di Guerrero, rapiti il 26 settembre e ritrovati poco più di un mese dopo in una discarica data alle fiamme. Li avevano gettati là, alcuni ancora vivi, nel fondo di quella immonda foiba ardente da dove sono usciti come mucchietti d’ossa spezzate e cenere. Cose impossibili soltanto da immaginare anche da parte di chi pratichi poco quella cosa chiamata umanità. Eppure sono storie così quelle che i nonni potrebbero narrare oggi ai loro nipoti: tutte orribili, tutte identiche una all’altra, tutte scritte con il sangue. Storie che non si concludono con un «vissero a lungo…», ma piuttosto con uno straziante «…e morirono atrocemente».

Sono le brutte storie che raccontano di un Ogro feroz – lo chiamerò così – quell’orco feroce che un tempo viveva lassù, al Norte, lungo la frontiera oltre la quale si stende lo smisurato e spesso farlocco lunapark d’America. Che brilla appena lì, a pochi metri oltre il Rio Grande. Da anni, purtroppo, l’orco ha iniziato a muoversi. Si aggira dal Nord al Sud, terrorizzando un grande Paese che un tempo aveva avuto la dignità – povera, ma vivaddio era dignità – del Terzo Mondo. Si sposta, l’Ogro feroz, e assume tanti nomi diversi quanti sono quelli dei cartelli della droga che si dividono una torta da 50 miliardi di dollari ogni anno. Sono le gang di Tijuana o quella dei fratelli Beltràn Leyva, le accolite dei decapitatori di Sinaloa o degli scuoiatori di Ciudad Juarez, la Familia Michoacana e i Los Zetas, i Los Negros o ancora i Templarios. Per nominare soltanto i più potenti e famosi. A guidarli, dalle loro lussuose ville, sono uomini ricoperti di catene e orologi d’oro e con le pance gonfie fasciate di batista bianca; mentre a metterci le braccia, e spesso la testa, è una fauna variegata che va dai chimici con pochi scrupoli agli ex poliziotti che di scrupoli ne hanno ancora meno, dai poveri diavoli generici ai militari senza più bandiera.

Ma oltre che diversi nomi, l’Ogro feroz assume altrettanti volti. Volti per esempio senz’anima, senza più un’espressione, ma ciascuno con il proprio soprannome di battaglia come quelli di Patricio Retes, detto El Pato; di Juan Osorio, più noto come El Jona; o ancora di Agustin Garcia Reyes, chiamato El Chereje, ovvero i tre che a cose fatte la polizia federale ha individuato e arrestato giorni fa come esecutori della strage. Con indifferenza, i tre hanno anche confessato. Come a dire: «Eh hombres, e che saranno mai 43 ragazzi uccisi?».

Ma i volti dell’orco – i volti contano, aveva ragione Lombroso – possono avere gli occhi cattivi e bistrati di Maria de Los Angeles Pineda Villa, onnipresente e onnipotente moglie del sindaco di Iguala, e cioè quel “galantuomo” di José Luis Abarca Velàzquez. I loro sventurati “sudditi”, che quando ne vogliono parlare bene li definiscono come due monumenti di protervia e arroganza, li chiamano sottovoce “La Coppia imperiale”. La signora, autocandidatasi a prendere il posto del consorte alle prossime elezioni, può contare su quella che si dice una gran bella famiglia, storicamente legata al cartello dei Beltràn Leyva, come testimonia un cursus honorum che comprende due suoi fratelli morti ammazzati, più altri due latitanti, da quando è esplosa la guerra contro il Cartello del Pacifico, l’altro terribile esercito dei narcos in quell’area del Messico. E almeno una trentina di loro parenti ricoprono i posti chiave dell’amministrazione.

Quanto alla loro povera città, appunto… Da quel che ne scrivono i giornalisti locali liberi, almeno quelli ancora vivi, o da quanto si legge su un sito molto ben informato come www.borderlandbeat.com, a Iguala la linea di demarcazione tra polizia e malavitosi è talmente labile che è cosa nota come la prima risponda di fatto al gruppo criminale dei Guerreros unidos, in ottimi rapporti con la coppia imperiale. Si spiega così, stando alla ricostruzione dei fatti, anche la sparizione e la successiva strage di quei poveri 43 ragazzi. I quali, studenti del college Raùl Isidro Burgos di Ayotzinapa, un istituto che forma insegnanti di materie legate all’agricoltura, avevano avuto l’ingenua e pessima idea di voler protestare contro le ripetute azioni discriminatorie da parte delle autorità locali nei confronti degli studenti provenienti dalle aree rurali, e tutto a vantaggio di quelli di città. Lo avevano fatto in corteo, andando a “disturbare” una festa organizzata proprio per annunciare la candidatura a sindaco della Pineda Villa. Gli imperatori non dovevano aver gradito: pollice verso, o forse soltanto un sopracciglio inarcato. E la premurosa polizia locale, forse senza nemmeno la necessità di un ordine, lo ha fatto capire, mandando avanti i tre con il soprannome.

È andata così, per incredibile che possa apparire. Chi avrà il cuore di dirglielo, adesso, ai nonni senza più favole del Messico?

Burkina Faso, la caduta dell’imperatore Blaise Compaoré

Bisognerà pur andarsene un giorno, aveva detto. Blaise Compaoré, per 27 anni presidente del Burkina Faso, era convinto di poter scegliere lui la data. Non il 2015, quando sarebbe scaduto il suo quarto mandato elettorale. Più facilmente il 2020, alla fine del prossimo quinquennio da capo di Stato. Oppure – un cattolico non mette mai limiti alla provvidenza – quando Dio avesse deciso che fosse giunto il tempo.

Invece sono stati sufficienti dei tumulti di piazza e una certa complicità dell’esercito nazionale per costringerlo, lo scorso 31 ottobre, a fuggire su un 4×4 lungo le sconnesse strade di terra rossa del Burkina Faso. A un centinaio di chilometri dalla capitale lo aspettavano le forze speciali francesi, che l’hanno messo su un aereo e traghettato fino alla vicina Costa d’Avorio, suo momentaneo esilio. Ma la caduta di Blaise Compaoré non è quella di un dittatore qualsiasi. Impossibile liquidarla solo come l’ennesima rivolta contro un presidente a vita, per di più di un piccolo Stato africano senza nemmeno uno sbocco sul mare. Più che a Ben Ali, l’ex presidente del Burkina Faso somiglia a Muammar Gheddafi, di cui è stato a lungo sodale. Al pari della morte (fisica) del colonnello, la morte politica di Compaoré potrebbe travolgere il fragile equilibrio del Sahel. E rovinare i piani di Francia e Stati Uniti, che sul “piccolo Stato africano” hanno puntato come partner militare nella lotta al terrorismo.

François Hollande aveva provato in ogni modo a convincere Compaoré a non modificare l’articolo 37 della Costituzione per ripresentarsi a nuove elezioni. Il presidente francese aveva persino promesso – in una lettera del 7 ottobre scorso che l’Eliseo ha fatto circolare sottobanco – un aiuto per fargli avere un incarico internazionale prestigioso e ben remunerato. Come a dire: “Se vuoi il potere, ecco, te lo do. Però fammi la cortesia di non destabilizzare il Burkina, che ho i miei interessi a tenerlo tranquillo”. Per la Francia in questo momento gli interessi si chiamano “operazione Barkhane”, cioè il dispositivo in grado di garantire le missioni militari dell’Eliseo in Mali, in Repubblica centrafricana, in Niger.

Il Burkina ospita uno dei quattro pilastri dell’operazione, nonché un piccolo contingente di uomini specializzati in grado di intervenire rapidamente in caso di problemi. L’aeroporto di Ouagadougou è un punto focale anche per gli americani: da qui partono i droni che sorvegliano il Mali, il Niger e gran parte del Sahel. Una cooperazione iniziata nel 2008 e che è servita ad accreditare Blaise Compaoré come interlocutore privilegiato degli occidentali, a dispetto del suo passato di “signore della guerra”. Accusato di aver preso parte a tutti i conflitti africani degli ultimi venti anni, per proprio conto o in alleanza strategica con Muammar Gheddafi, Compaoré è riuscito lo stesso a costruirsi un’immagine molto più soft e a evitare di finire davanti alla Corte penale internazionale che, da organismo più politico che giuridico, ha preferito occuparsi d’altro.

La destituzione di Blaise Compaoré dimostra però che l’alleanza con Francia e Usa non è più una garanzia. O almeno non lo è se l’esercito non dà il suo appoggio. L’assalto al parlamento di Ouagadougou è stato possibile perché i soldati lo hanno permesso, non perché le forze popolari fossero soverchianti. Il generale Gilbert Diendéré, capo della guardia presidenziale, non è uomo da farsi trovare impreparato. La sua rete di informatori, che gli ha consentito di sapere in anticipo del colpo di Stato che si preparava in Guinea o della ribellione Touareg, gli avrà dato sicuramente conto delle intenzioni dei manifestanti. «Compaoré è stato sicuramente abbandonato da una parte dell’esercito», conferma Roland Marchal. «Da tempo in seno all’apparato militare c’è un dibattito acceso. Probabilmente gli ufficiali a lui più vicini devono aver calcolato il prezzo politico che avrebbero pagato continuando a sostenerlo. Hanno concluso che sarebbero stati molto più protetti accompagnando una transizione piuttosto che scontrandosi con la popolazione. Così facendo si sono garantiti una amnistia per tutte le questioni spinose avvenute sotto la presidenza Compaoré, sia a livello nazionale che internazionale: dall’assassinio del giornalista Norbert Zongo al sostegno ai ribelli in Costa d’Avorio, nessuno avrà interesse a tirare fuori questi dossier».

Blaise Compaoré, secondo le inchieste Onu, avrebbe partecipato con appoggio logistico al conflitto negli anni Novanta in Liberia e poi in Sierra Leone, fornendo armi e uomini a Charles Taylor, oggi a processo alla Corte penale internazionale; in Costa d’Avorio avrebbe sostenuto le Forces nouvelles di Guillame Soro, allora capo della ribellione contro il presidente Laurent Gbagbo e ora presidente dell’Assemblea nazionale; in Angola avrebbe ceduto, in cambio di diamanti, armi all’Unita, uno dei contendenti in campo. I suoi soldati, appena pochi mesi fa, sarebbe stati presenti nelle fila della Séléka, la ribellione centrafricana che ha deposto il presidente Bozizé e portato il Paese alla guerra civile.

In sostanza, Compaoré è stato il mediatore delle crisi che lui stesso ha creato. Probabilmente l’esercito ha negoziato anche questo in cambio di una soluzione rapida della crisi. Niente Corte penale, niente tribunali speciali. Per nessuno. Non è un caso, spiega Merchal, «che il rappresentante americano sia andato subito a Ouagadougou per chiarire le cose e ottenere rassicurazioni. Questa visita dice a tutti i potenziali attori della transizione che ci sono degli interessi occidentali in gioco, che le basi militari sono ancora necessarie e che deve essere chiaro a tutti che le conquiste ottenute non possono essere rimesse in discussione».

La sollevazione popolare in Burkina è stata laica, quasi una rarità in questi anni. Avrebbe avuto bisogno di una migliore conclusione: l’esercito ha mostrato che il potere resta alle armi. Ma per qualche presidente troppo attaccato alla poltrona, potrebbe essere una riflessione non priva di conseguenze positive.

Il turpiloquio è lecito. Ai poeti

È assai peggio dire «recarsi» o «egli» che dire «fottuti» o «coglione». La lingua è un organismo vivo, sempre in movimento e non c’è peggior delitto di «volerla imbalsamare con norme e precetti considerati astrattamente eterni».

Giuseppe Antonelli in Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, leftFa bene Giuseppe Antonelli in Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori) a combattere il perbenismo lessicale (con ampio prelievo di citazioni letterarie) e a liberarci da alcuni luoghi comuni: non è vero che il congiuntivo sia in estinzione (è usatissimo in Tv e nei fumetti), né che gli anglicismi minaccino davvero la nostra lingua (dall’1 per cento sono arrivati solo al 2 ). Il punto e virgola arretra, però è in espansione la punteggiatura espressiva.

La norma si rifrange in una pluralità di norme. La stessa ortografia è un work in progress: scrivere «un po’» con l’accento non è errore grave se fino a due generazioni fa si contestava la necessità di usare la lettera h per le voci del verbo avere. Oggi i ragazzi ignorano il significato di “biasimare” ma 40 anni fa non capivano parole come “avallare” o “etico”.

Il punto non è salvare le parole (che muoiono e risorgono imprevedibilmente), né censire espressioni cacofoniche («ma però» è un rafforzamento intensivo per nulla irregolare), quanto dare a ciascuno gli strumenti linguistici adeguati ad una piena cittadinanza; e proprio nel momento in cui diminuiscono le competenze di lettura degli italiani, la capacità di interagire con l’informazione scritta. Credo poi che vero nemico di una lingua italiana dinamica e variegata (e informale) sia la ricercatezza banale (variante del midcult): non tanto dire “dimenticare” al posto di non “scordarsi”, ma dire “Scusa , non ho più preso le patate al mercato, le ho rimosse”.

Solo una obiezione ad Antonelli. Va bene, le parolacce le diceva anche Dante, con buona pace del purista cinquecentesco Bembo, ma il punto è che nell’Italia attuale le dicono ministri e senatori. Questo il cambiamento epocale. Se a 15 anni usavo il turpiloquio contro il perbenismo dei genitori e dei docenti a scuola, oggi che il turpiloquio è la lingua della classe dirigente e dei nuovi comici in Tv usarlo non ha più niente di trasgressivo. E anzi il comportamento linguistico più eversivo potrebbe diventare un lessico casto: comunque non sempre Belli diceva le parolacce!