Home Blog Pagina 1385

E l’altra Italia con chi?

«Questa rivoluzione non ha un volto». Con questo slogan i movimenti di protesta contro la troika hanno invaso le piazze europee: in Grecia come in Spagna. Eppure è anche grazie ai “volti” dei loro leader – Alexis Tsipras e Pablo Iglesias – che quei movimenti sono diventati le forze politiche che oggi rischiano di entrare dritte dritte nei palazzi del governo. La greca piazza Syntagma si è tradotta in Syriza, oggi primo partito ellenico che negli ultimi sondaggi supera il 31,3 per cento. Podemos, l’ala sinistra del movimento spagnolo degli indignados 15-M, in soli 9 mesi può già dirsi un partito di massa: se si votasse domani otterrebbe il 27 per cento dei consensi.

In Italia la sinistra radicale – quella a sinistra del Pd – da anni procede a una lenta e faticosa riunificazione. Lo scorso maggio alle Europee un traguardo lo ha raggiunto: il superamento dello sbarramento e l’elezione di tre eurodeputati. A vincere la sfida è stata L’Altra Europa con Tsipras, una lista radicale con un leader forte e riconoscibile, anche se straniero. Oggi la domanda è: se l’Altra Europa sta con Tsipras, l’Altra Italia con chi sta? A Firenze, il 16 e 17 novembre, di leader ce n’erano tanti: da quelli del Gue, i freschi e giovani rappresentanti della Sinistra europea, ai più “classici” italiani: Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Sergio Cofferati, Fausto Bertinotti.

«Non mi nascondo che una delle malattie del nostro tempo è la personalizzazione della politica», ammette Marco Revelli, storico, sociologo e promotore de L’Altra Europa con Tsipras. «La considero una patologia e ho sufficiente realismo per sapere che le patologie sono dei dati di fatto, non si può far finta che non esistono. Ma non sono convinto che debba essere una sola, anche una pluralità di figure credibili andrebbe altrettanto bene».

Quello di un leader, insomma, non pare essere il primo assillo per il nuovo soggetto della sinistra. La preoccupazione per il momento è ancora ferma alla definizione del “perimetro” del nuovo soggetto. «Che deve essere ampio», secondo Massimo Torelli di Alba, «e includere anche una parte di democratici. Quando c’è una crisi economica reale e in campo una proposta rivoluzionaria come quella di Renzi, tutto ciò che c’era prima diventa storia, viene spazzato via». A Firenze, per Torelli, è stato definito il campo dell’ampiezza in cui «vogliamo stare. L’aspirazione ad avere un campo ampio l’abbiamo avuta da subito, non a caso Curzio Maltese stava nel Pd».

È più prudente Pippo Civati del Pd, presente a Firenze come “esterno, ma bendisposto”. «Per ora è più importante capire il perimetro e cosa vuole fare il Pd», dice il deputato democratico. «Capire se il partito di Renzi abbandona tutta la sinistra. Anche quella al suo interno. La definizione di questo perimetro dipende anche da Renzi: se il Pd sbatte la porta è chiaro che un soggetto politico nascerà. E i leader sono quelli che conosciamo già, ma forse è il caso di trovarne degli altri. C’è Maurizio Landini che interpreta l’area sindacale, ma le realtà sono tante».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 22 novembre 2014

Donne da macello nel libro-inchiesta di Riccardo Iacona

«La questione rimane: quanto grande è quella parte di maschi nel nostro Paese a cui piace come pazzi “tenere sotto” le donne, da ogni punto di vista, quello sessuale prima di tutto». Dopo Se questi sono gli uomini (Chiarelettere 2012), Riccardo Iacona torna in libreria con Utilizzatori finali. E per cercare di capire, più in profondità, cosa c’è attorno alla questione della violenza sulle donne si concentra in questo suo nuovo libro-inchiesta sul fenomeno della prostituzione.

Da gnoccatraverls.com alla Thailandia fino alle baby squillo dei Parioli, i racconti si succedono crudi e a tratti la lettura si fa “insopportabile”. E la conclusione è amara: «Una cosa è certa: gli uomini italiani che vanno a prostitute non sono pochi, al contrario sono milioni. I numeri parlano di nove milioni di prestazioni sessuali a pagamento all’anno e di una platea di due milioni e mezzo di clienti».

Era meglio se quest’intervista te la faceva un uomo. Non è stato facile per me leggere fino alla fine il tuo libro. Non dico come giornalista ma come uomo, che effetto ti ha fatto ascoltare altri uomini come te raccontare con quel linguaggio di donne e rapporti sessuali? E perché poi hai deciso di farne un libro?

L’effetto è esattamente quello che provi mentre li senti parlare, mentre ascolti le fonti. Questa è la cosa che mi ha colpito di più e per cui ho pensato valesse la pena metterlo nero su bianco, per far sì che rimanesse nel tempo, anche perché non è facile far parlare i clienti delle prostitute. Sono milioni gli italiani che vanno a prostitute costantemente e che alimentano questo enorme mercato oramai molto generalizzato e sdoganato da un clima culturale che favorisce l’uso e l’abuso di “consumo” del corpo della donna. Non viene più considerato qualcosa di scandaloso, tanto è vero che la platea degli uomini si allarga ed è in aumento anche la prostituzione minorile. Viviamo in un’Italia dove consumare il corpo di una donna è diventato come andare al supermercato a scegliere un pezzo di carne. è lecito, è senso comune. Tutta la lunga stagione dei bunga bunga di Berlusconi ha sdoganato quello che milioni di uomini italiani fanno. Fuori non si vede, ma quando ci entri dentro con una sonda, come abbiamo fatto noi, ti accorgi che è un meccanismo fortissimo e l’Italia che ne esce è quella di un Paese dove l’abuso del corpo della donna fa parte della vita quotidiana.

Di questi uomini, cacciatori seriali o “utilizzatori finali”, che sezionano e trasformano l’atto sessuale in un certo numero di pratiche legate alle diverse parti del corpo della donna, inventando sigle ad hoc per valutare le prestazioni scrivi che sono «uomini nella norma, spesso sposati e con figli. La maggior parte dei clienti vengono definiti dalle prostitute come “uomini normali” e c’è un tratto che li accomuna tutti: l’oggetto del desiderio non ha nulla a che vedere con una persona in carne e ossa». La presunta “normalità” dei clienti fa riferimento al loro comportamento sociale? Pensi sia il caso di rivedere questo concetto di normalità?

Non sarà normale ma è diventato un comportamento di massa. Ci sono due milioni e mezzo di uomini che vanno a prostitute abitualmente e poi c’è tutto lo sconosciuto, probabilmente molto più grande del conosciuto, che ha a che fare con gli incontri che si fanno su internet, pensa alle baby squillo dei Parioli. è un comportamento di massa che noi nascondiamo o peggio facciamo finta che non sia importante, per cui tutto il dibattito da noi sulla questione si limita alla più o meno necessaria legalizzazione della prostituzione. Nessuno si interroga come mai in un Paese che in media è sessualmente libero così tanti uomini sentono il bisogno di andare a prostitute. Cioè di fare cosa? Questo si capisce molto bene dal linguaggio che usano, da come sezionano le prestazioni sessuali che vanno ad acquistare. L’incontro tra due persone diventa l’incontro tra un compratore e un oggetto da comprare. Ecco perché non è importante la donna nella sua interezza ma è importante quello che fa con la bocca, con il lato A, con il lato B, con le mani. Distruggono la donna tanto che la sezionano nelle prestazioni che vengono richieste. Questo poi porta anche alle minorenni, guarda il caso delle baby squillo dei Parioli a Roma. Nello spazio di poco più di un mese, più di mille romani adulti le hanno contattate e un centinaio le ha incontrate e nessuno di questi si è sentito in imbarazzo a stare in un appartamento con una che poteva essere la loro figlia. Perché secondo te? Perché davanti non hanno la loro figlia ma un oggetto da consumare. In questo caso l’oggetto non è la bocca o le mani… ma è la minore età, che diventa un valore aggiunto. E il fatto che gli uomini non si fermino neanche di fronte alla possibilità di incorrere in gravi provvedimenti legali, te la dice lunga su quanto quest’onda sia potente. Ora per me ovviamente non è normale, io penso che tra la descrizione molto cruda, lo ammetto, che facciamo noi e quello che si potrebbe fare però c’è una bella prateria. Guarda l’Olanda.

Che succede in Olanda?

Si insegna educazione sessuale e sentimentale nelle scuole da anni e lo fa il ministero della Salute. Quindi son d’accordo che non è normale ma non è neanche normale che nelle scuole italiane non si faccia nulla per educare, non tanto al sesso, ma alla relazione. Bisogna insomma che facciamo i conti laicamente a 360 gradi sulla situazione che attraversa l’Italia intera e che investe la condizione della donna. Questo è un Paese di puttanieri e lo dimostra il fatto che ai nostri confini è pieno di bordelli alimentati da ragazzi, uomini italiani che vanno a consumare il sesso in questa maniera. E non è che siamo in Afghanistan. Puoi tranquillamente avere una relazione estemporanea in Italia, anche di una sola notte, ma è sempre frutto di un incontro tra due persone. Ma qui è tutta un’altra storia, qui stai esercitando un potere.

Accenni più volte a uno specifico italiano, allora ti chiedo che peso ha, secondo te, la nostra cultura? Una struttura culturale arcaica di cui non riusciamo a liberarci e che ha costruito un “presunto” ordine naturale: un maschio adatto al comando, razionale; una femmina debole, predisposta alla cura del maschio e dei figli.

In Italia il peso è enorme, anche in questo periodo è uscito sui giornali la classifica dello gender gap, la donna italiana è sottomessa oggettivamente, ha una condizione inferiore nella nostra società, nei posti dove si comanda, per quello che guadagna, per la fatica che fa e perché è oggetto di una violenza endemica che non accenna a diminuire. Dall’altra parte assistiamo a una vittoria di questo modello dal punto di vista culturale: guarda i dati in crescita sullo scambio di sesso tra gli adolescenti dove il corpo diventa merce di scambio. Ha vinto l’idea che puoi utilizzare il tuo corpo come un oggetto tra i tanti. Questo forse è il segnale più grave del nulla che si sta facendo. Mi rendo sempre più conto, da quando mi occupo di questi argomenti, quanto sia importante la prevenzione. Di questo stiamo parlando, di mancanza totale di prevenzione. Pensate al liceo dei Parioli, invece di cogliere l’occasione per discuterne e capire, per aprire un dibattito, sono state chiuse le porte. Dove siamo noi? Dove sono i consultori? I dati che sono in mio possesso sono terribili.

D’accordo con tutto ma insisto: hai avuto la sensazione che, nonostante i diritti civili conquistati dalle donne siano ormai molti, non si sia ancora raggiunta una parità chiamiamola “umana” tra uomo e donna? E cioè, non ti sembra che si continui ad assegnare alle donne un minor valore umano? E quanto peso ha la religione cattolica su tutto questo? Quanto pesa l’idea di donna che ha: o moglie/madre immacolata dedita alla riproduzione o origine del male/alleata del diavolo nella ricerca del piacere?

Tutto il peso che merita, enorme. È anche vero che siamo il Paese che ha avuto il coraggio di votare i referendum su aborto e divorzio, la nostra è chiaramente una situazione complicata ma a maggior ragione richiederebbe delle politiche, e come vedi non c’è politico che si affacci sulla scena senza ribadire l’importanza del ruolo delle donne, questo vuol dire senz’altro che l’argomento è in circolo. Ma da questo a mettere in campo delle politiche attive di sostegno, ce ne passa. Se tu vai a leggere molte delle storie dei femminicidi dietro c’è sempre, a un certo punto, un gesto di libertà da parte della donna, in cui lei esce dalla sottomissione (che è anche sessuale) e questo l’uomo non lo sopporta e la punisce brutalmente.

Possiamo dire che la “cosificazione” della donna – così la chiami – che questi rapporti sottintendono, non è sessualità “umana”?

No. è uno scambio. Cos’è che cerca l’uomo con la prostituta? Apparentemente la prestazione. Un rapporto sessuale è un incontro a 360 gradi in cui ti confronti con una persona vera, intera… dai capelli agli occhi, dal naso alle parole che dice a quello che ti scambi prima durante e dopo. In questi scambi invece è come se avessero tolto tutto il bello della relazione e rimanesse solo lo scambio di potere, questo è quello che li eccita di più. Non la prestazione, tanto più che spesso se fatta sui bordi della strada, non dura che qualche minuto. Ma il fatto che uno decida di andare a caccia, scelga già col pensiero quello che vuole fare e paga per quello che vuole fare. Questo secondo me è lo scambio. Che alimenta un mercato fatto di violenza, di stupri e di illegalità.

Secondo te un papa che ancora oggi alle giovani coppie dice: «Il matrimonio sia una scelta definitiva e un figlio solo non basta» fa danni? Mi spiego, incanalare la sessualità nel matrimonio e nella sola riproduzione, fa danni? Concorre, per esempio, a riprodurre nel tempo quella partizione tra mogli che fanno figli e prostitute che danno il piacere?

Sì certo, fa danni. L’ho scritto molte volte. È palese. Ma il passaggio ulteriore secondo me è che oramai accettiamo tutto questo come fosse una cosa normale del nostro quotidiano. La mattina accompagni tuo figlio a scuola e incontri già dalle otto queste ragazze nude sulla strada, esposte come carne sul bancone pubblico, e a furia di vederle pensi che in fondo il mondo va così. Cioè quello che voglio dire e che mi interessava capire è la dimensione che ha preso questo fenomeno. E penso che è arrivato alle ragazze di 14 anni. La possibilità di mettersi sul mercato e fare un po’ di soldi con il proprio corpo, è diventata “attraente” anche per ragazzi che non sono scemi. Attenzione, non stiamo pescando dentro la periferia romana o del mondo, non stiamo parlando di favelas brasiliane o di Thailandia, siamo nella media società romana. Parliamo di ragazzine che hanno studiato, che sanno parlare, tanto che si mettono a fare una cosa anche complicata. E il fatto che alla prima idea di una delle due, l’altra non le abbia detto “ma che sei pazza”, ti fa capire quanto sia passata la costruzione del “perché no”. Perché non vendere il proprio corpo. E su questo “perché no” si dovrebbe lavorare con i ragazzi per fargli capire che non si tratta di limitare la loro libertà sessuale, si tratta di conoscere il proprio corpo, di capire cosa si può fare col proprio corpo…

Forse anche di capire cos’è la libertà.

Certo, perché se una ragazzina di 15 anni entra in un rapporto commerciale con un adulto quella certo non è libertà.

Ancora una domanda, questo libro lo dedichi a «tutte le ragazze e i ragazzi che stanno per entrare nel mondo del sesso e dei sentimenti…», allora immagina questa scena: vieni invitato in una scuola per parlare a degli adolescenti di sessualità. Inizi certamente dicendo loro che non è né possesso né “cosificazione”, e poi? Come glielo spieghi cos’è la sessualità “umana”?

è l’incontro tra persone diverse, è un percorso lungo. Da bambini si diventa adolescenti, a 14-15 anni, ed è tutto un percorso di apprendimento in cui tu diventi quello che sarai… in cui c’è rispetto, in cui cresci tu e anche la persona che sta con te. Il punto non è che tu stia insieme con lei per tutta la vita, il punto è non buttare le occasioni di incontro e non fare quello che non ti senti di fare perché te lo chiede la società, per cui oggi, lo dico in modo brutale, se una ragazza non sa fare sesso orale non è nessuno nelle classi trovi le classifiche. Educazione ed apprendimento, perché se il modello diventa quello delirante della pornografia si entra in un mondo di prestazioni dove il giovane non sarà mai all’altezza e soprattutto perderà la possibilità di unire eros e storia emotiva. Ecco, serve qualcuno che con competenza gli racconti anche questa parte della loro vita, altrimenti tutto rimane nascosto e viene vissuto solo sui social. E poi accade che un giorno scopriamo che per un anno due ragazzine si sono prostituite al centro di Roma e nessuno se ne è accorto.

Un programma a 10 anni, come quello olandese, Long live love, voluto e finanziato dal ministero della Salute che si occupi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, ti sembra possibile in Italia?

Bello il nome vero? Lunga vita all’amore.

Bellissimo.

Diciamo che, tristemente, sembra di no. Nel Decreto antiviolenza sono stati messi pochissimi soldi, vuol dire che sulla prevenzione non si investe praticamente nulla. Ma così su molti altri aspetti che hanno a che fare con la cura delle persone in questo Paese. Sono tutti sordi e ciechi salvo poi rendersene conto quando per esempio va a fuoco un quartiere come Tor Sapienza.

Che ci vuoi fare con questo libro?

Sai cosa vorrei? Io lo so che questo libro è tosto, ma vorrei che fosse uno dei libri di testo dei corsi di educazione sentimentale e sessuale, perché di quelle cose che noi scriviamo i ragazzi ne parlano tutti i giorni. Solo che non esiste un luogo in cui questo parlare dei ragazzi si incontri con la formazione. Ma di foto vendute, di incontri a pagamento, di violenza verbale, di pressione fatte nei bagni delle scuole ce ne sono tutti i giorni. Allora se questo libro potesse diventare un manuale i ragazzi potrebbero sapere con che cosa hanno a che fare.

Vent’anni di moltitudine per la Carovana antimafie

«Amiamo viaggiare, vedere, scoprire. Per questo abbiamo iniziato un viaggio appassionante e pericoloso, difficile ma entusiasmante. Un viaggio verso ipotesi nuove di esistenza, un viaggio che possa dare alle idee, alle parole, ai gesti, libertà». Con questo slogan, nel 1994, associazioni come Arci e Libera lanciavano la prima Carovana antimafie. Erano passati due anni dalle stragi in cui avevano trovato la morte i giudici Falcone e Borsellino. E accadeva in Sicilia, terra di mafie e antimafie.

Da allora questa frase è stata stampata sui quaderni, pubblicata sul web, è diventata l’incipit con cui anno dopo anno la Carovana ha intrapreso il suo viaggio nelle regioni di tutta Italia e poi in Europa. A distanza di vent’anni è arrivato anche il riconoscimento internazionale: a Strasburgo il progetto – promosso, oltre che da Arci e Libera, da Avviso pubblico, Cgil Cisl e Uil – riceve il Premio Falcone, assegnato dall’associazione francese Justice et democratie in collaborazione con il Consiglio d’Europa.

Il premio è stato consegnato ad Alessandro Cobianchi, coordinatore della Carovana, in occasione del Forum mondiale della democrazia. I promotori se lo sono meritato, recita la motivazione, per l’impegno nel «riportare le voci di coloro che lavorano per lo Stato democratico di diritto e della giustizia sociale, ma anche per promuovere progetti concreti, incontrare le famiglie delle vittime di mafia e raccontare le modalità di riutilizzo dei beni confiscati». Strasburgo, una delle due “capitali” dell’Unione, è una tappa speciale per la Carovana che in questi giorni – assieme ai partner europei Ligue de l’enseignement, Parada e Inizjamed – gira per le strade di Francia per ricordare il tema della tratta degli esseri umani, un’«emergenza da non sottovalutare», dice Cobianchi.

«Il procuratore di Catania, Giovanni Salvi, spiegava che ogni viaggio frutta ai trafficanti un milione di euro. Ciascuno di questi viaggi è l’indotto di altri fenomeni criminali dai drammatici risvolti sociali: pensiamo al caporalato, allo sfruttamento delle badanti, della prostituzione, dei mendicanti. Siamo di fronte ad un vero e proprio dominio mafioso che l’Italia, il Sud e l’Europa rischiano di leggere invece a compartimenti stagni come questioni di sicurezza, immigrazione, economia».

A chi, come il giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Gianluigi De Vito, si chiede se il premio sia «ossigeno ma poi finisce», Alessandro Cobianchi risponde: «È vero, il premio passa e le mafie restano. Un po’ come le manifestazioni contro le mafie, caricano e fanno sentire meno soli. Ma serve qualcosa in più. Proprio da Contromafie, qualche giorno fa, è giunto il grido d’allarme del fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, che ha messo in guardia dal rilassamento che si avverte alla fine di un ventennio importante, dal 1992 a oggi.

Un ventennio che ora ci impone di chiederci se sia esaurita la “carica propulsiva” di tante modalità nate proprio in quegli anni. Dobbiamo rafforzare i nostri strumenti, in particolar modo a livello europeo. Credo che l’Italia abbia una normativa in tema di contrasto alle mafie, certamente migliorabile, ma che resta un faro nel Continente, in particolare per quanto concerne la confisca dei beni e l’individuazione del reato di stampo mafioso.

Abbiamo un compito epocale che è quello di chiudere i conti con l’eredità del ventennio precedente, valorizzandola. Gli oltre 800 caduti innocenti per mano di mafia, nella sola Italia, ci impongono di costruire, senza superficialità e ipocrisie, una società realmente alternativa alle mafie. Un cambio di prospettiva, in primis culturale, che deve partire dalla società per arrivare alla politica e non viceversa. La cittadinanza organizzata ha un ruolo decisivo ma rischia di perdere un treno importante se non trasforma le buone intenzioni in fatti concreti».

* Marzia Papagna è responsabile Comunicazione Arci Puglia

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 22 novembre 2014

Draghi alla prova

Tra il 2011 e il luglio del 2012 il mondo era convinto che l’euro sarebbe crollato. Poi, a sorpresa, Mario Draghi pronunciò da Londra alcune fatidiche parole: «La Bce farà tutto ciò che è necessario per preservare la moneta unica». I mercati non capirono immediatamente, ma pochi giorni dopo Draghi presentò il programma Omt, che consiste nell’acquisto “illimitato” dei titoli di Stato dei Paesi colpiti dalla speculazione, sia pure sotto determinate condizioni.

Da allora gli spread dei Paesi periferici si sono notevolmente ridotti. Eppure, Draghi non ha mai attivato gli Omt, sui quali, peraltro, si attende il giudizio della Corte di Giustizia europea in merito al ricorso della Bundesbank. Gli è bastato dire che la Bce si comporterà come un prestatore di ultima istanza per tranquillizzare i mercati.

Non è il primo caso in cui accade qualcosa del genere. Nel 1964 la lira rischiava di uscire dal sistema di Bretton Woods, ma l’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli ottenne un ingente prestito dagli Stati Uniti e la speculazione si fermò in pochi giorni. Al contrario, nel 1992 la Bundesbank negò l’assistenza monetaria all’Italia e la lira dovette uscire dallo Sme. Questi episodi sono utili a capire cosa avverrà in futuro.

L’euro resta in pericolo, soprattutto a causa della deflazione, che rischia di mandare a gambe all’aria il sistema bancario. Se questa tendenza non verrà invertita, il rischio che i mercati testino le parole di Draghi è molto alto. Ormai lo scontro tra il presidente della Bce e la Bundesbank è arrivato al limite e lo stesso Draghi ha fatto intendere, nell’ultima audizione al Parlamento Europeo, che potrebbe iniziare a comprare titoli di Stato nell’ambito del Quantitative Easing, al fine di preservare l’Unione monetaria e ripristinare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria.

Un intervento al limite dei trattati, ma il primo dovere assegnato alla Bce è proprio quello di tenere in piedi la moneta unica. Draghi potrebbe quindi trovarsi davanti alla scelta tra rischiare di violare la lettera dei trattati o lasciare che l’euro crolli. Ma così violerebbe comunque i suoi doveri di banchiere centrale. È su questo filo di rasoio, con una Bundesbank per ora isolata ma combattiva, che si giocherà il futuro dell’euro.

Purtroppo salvare la moneta unica non basta a salvare l’economia, il lavoro e il benessere degli europei. Per quello la politica monetaria può far poco. Sono i governi che devono decidere di violare anche essi la lettera dei trattati, o modificarli, per salvare l’Unione europea.

Professione ceceno

Sono i combattenti più spregiudicati del mondo. Nelle cronache sulla guerra in Siria e in Iraq appaiono come guerrieri capaci delle torture più feroci, abilissimi con le armi e totalmente privi di scrupoli. Sono i ceceni, una categoria che nell’accezione attuale non corrisponde più ai cittadini provenienti dall’omonima Repubblica.

Oggi in Medio Oriente i “ceceni” sono miliziani stranieri provenienti dal Caucaso del nord, che parlano russo e professano l’islam e che al termine delle tante guerre e operazioni anti terrorismo sferrate da Mosca in quest’area si sono trovati poveri in canna e con una grande esperienza nel campo delle munizioni e dei lanciarazzi. I predicatori wahabiti (corrente fondamentalista dell’islam) hanno fatto il resto, dando alla loro voglia di vendetta una legittimazione religiosa.

Ma i ceceni non vengono dalla Cecenia, reclama Ramzan Kadyrov, il presidente-dittatore della suddetta Repubblica. Secondo lui, se davvero i suoi concittadini combattono in Medio Oriente, è perché fanno parte di quella minoranza di “reietti” che si oppongono al suo regime e vivono in esilio in Europa. Sarebbe la diaspora, dunque, a partire coi kalasnikov in pugno per combattere il jihad. Una tesi opinabile, dal momento che i ceceni fuggiti in Europa in seguito alle guerre che hanno condotto Grozny sotto l’orbita di Putin non ce l’hanno contro gli infedeli, ma contro il Cremlino.

E se è vero che oggi molti di loro sono partiti dall’Austria, dalla Danimarca e da altri Paesi europei per combattere, è falso che la loro destinazione principale sia la Siria o l’Iraq: la maggioranza è andata in Donbass, per lottare al fianco dell’esercito ucraino contro i russi. Pur di fronteggiare le truppe di Mosca, da Copenhagen sarebbe arrivato addirittura il comandante Isa Munaev, che guidava la difesa di Grozny nel 2000 quando la capitale cecena cadde in mano al Cremlino. Munaev in Ucraina avrebbe creato il battaglione internazionale di “peacekeeping” Jokhar Dudayev, dal nome del presidente ceceno che nel 1991 autoproclamò l’indipendenza della sua Repubblica. E anche Hussein Ishkanov, membro del Parlamento ceceno in esilio, invita la gioventù cecena a schierarsi al fianco di Kiev, pregandoli di non andare a combattere in Siria «che non ci interessa», ma in Ucraina. A Ishkanov, infatti, non interessa il jihad, ma l’ideale nazionalista di un popolo che non ha un luogo dove combattere per la causa.

In Ucraina, però, i volontari ceceni della diaspora si trovano a sparare contro altri ceceni, quelli provenienti proprio dai ranghi del presidente Kadirov, fedelissimo di Putin. Ci sarebbero anche loro tra i mercenari arrivati nell’Ucraina orientale per combattere al fianco dei separatisti filorussi contro il governo di Kiev, sebbene in numero abbastanza ridotto rispetto alle cifre denunciate dai loro nemici. La maggior parte dei “ceceni” che combattono per Mosca, infatti, sarebbero originari di altre Repubbliche caucasiche. Daghestan e Ossezia ad esempio, Repubbliche più povere e abbandonate di quella di Kadyrov, che con la sua fedeltà al Cremlino si becca sempre la fetta più grossa dei sussidi federali. Secondo un rapporto di Memorial – l’organizzazione per i diritti umani con cui collaborava Anna Politovskaya – le reclute inviate in Ucraina proverrebbero dalle guarnigioni russe di stanza in Cecenia ma sarebbero soprattutto osseti e daghestani, gli stessi – sempre secondo Memorial – che invasero la Georgia per conto del Cremlino nel 2008.

I “ceceni” sono stati avvistati per la prima volta a marzo in Crimea, dove cittadini locali riportavano la presenza di unità “dall’aspetto caucasico”, dotati di equipaggiamento e uniformi tipiche dei kadyrovisti. Con il diffondersi della guerra in Ucraina orientale le stesse segnalazioni sono arrivate da Donetsk, mentre in Daghestan e Cecenia tornavano salme di soldati uccisi durante esercitazioni in luoghi imprecisati. Kadyrov anche in questo caso nega la presenza dei suoi soldati in Ucraina, ostentando la solita bellicistica vanagloria: se fossimo andati a combattere, «avremmo già conquistato Kiev». Ma nello stesso tempo il presidente ha dichiarato più volte che i suoi uomini erano pronti a sconfiggere i fascisti ucraini e anche che avrebbe inviato volentieri una missione di “peace keeping” in Crimea.

Tra tutti i caucasici accorsi in Ucraina, molti hanno sperato che il loro impegno servisse anche a dirigere altrove i sentimenti xenofobi della maggior parte dei russi, ma il fatto che i “ceceni” combattano per una causa “giusta” non sembra stroncare i pregiudizi dei concittadini di Putin, che continuano a considerarli pericolosi criminali e potenziali terroristi.

D’altronde i “ceceni” che combattono al fianco di Kiev non godrebbero di grande sostegno da parte della propria comunità. In Caucaso del Nord, infatti, i sondaggi di organizzazioni indipendenti rivelano che la maggior parte della popolazione non vede quella ucraina come una causa per cui vale la pena combattere. E gli stessi kadyrovisti “preferiscono” restare in Cecenia per mantenere forte la pressione contro i terroristi, ovvero i ribelli del cosiddetto emirato islamico del Caucaso.

È contro i fondamentalisti, infatti, che più veementemente si scaglia Kadyrov, soprattutto contro quelli che combattono al fianco dello Stato islamico. Secondo lui i sanguinosi miliziani del Califfato sarebbero sul libro paga degli occidentali, creati in funzione anti russa e guidati direttamente da un agente della Cia quale al Bagdadi. Dove prenderebbero sennò il loro prezioso equipaggiamento?

Il presidente ceceno sfodera una delle sue migliori teorie del complotto per screditare il più possibile i jihadisti di fronte alla popolazione e prepararsi a combattere una nuova guerra contro i “ritornati”. Sono tanti, infatti, gli indizi che inducono a ipotizzare una recrudescenza di violenze legato al rientro di miliziani da Siria e Iraq. Alcuni di loro, ad esempio, potrebbero essere costretti a tornare per via di una tensione crescente con i militanti islamisti siriani. I caucasici denunciano di essere sempre loro in prima linea e sempre loro a subire le maggiori perdite. E nel frattempo anche nella “pacificata” Cecenia sono tornati gli attentati suicidi: all’inizio di ottobre un kamikaze si è fatto esplodere in mezzo a Grozny, uccidendo cinque persone e ferendone 12.

Per ora, però, è in Siria che i jihadisti ceceni stanno dando il loro “meglio”. Tra i militanti dello Stato islamico sono considerati tra i più abili con le armi e tra i più spietati coi nemici. La loro ferocia deriva in molti casi da una totale assenza di prospettive. Molti di loro, infatti, non hanno nessuna casa in cui tornare, perché la loro origine non è né la Cecenia né l’Europa della diaspora, ma quel buco nero geopolitico che si chiama valle di Pankisi. Ufficialmente sotto la sovranità di Tbilisi, in realtà la valle è una terra di nessuno incuneata tra le montagne di Georgia, Cecenia e l’autoproclamata repubblica indipendente d’Abkhazia. Abitata dai poverissimi kisti, una sottoetnia cecena di religione musulmana. È da sempre crocevia di armi, traffici, e combattenti ripudiati dagli eserciti e disconosciuti dalle famiglie.

Nel 2002 Pankisi balzò agli onori delle cronache proprio per i suoi campi di addestramento per jihadisti e anche oggi sembra che la maggior parte dei “ceceni” arrivati in Siria siano partiti proprio da qui. Sicuramente viene dalla valla di Pankisi il rosso Abu Omar Al Shishani, l’uomo che avrebbe preso il comando delle operazioni a Kobane dopo aver guidato l’assalto a Mosul, in Iraq. Il temuto al Shishani gode di un inedito primato: è l’uomo più ucciso del mondo. Per almeno quattro volte, infatti, è stato dichiarato morto da diversi tipi di nemici. L’ultimo è proprio Kadyrov, che a metà novembre ha dichiarato: «Tarkhan Batirashvili, il nemico dell’islam conosciuto come Omar al-Shishani, è stato ucciso. La stessa cosa succederà a chiunque osi minacciare la russia e il popolo ceceno». Il presidente l’ha scritto su Istagram, il suo social network preferito, che lui usa come vero e proprio ufficio stampa. Ma la foto allegata, secondo Radio Free Europe, non sarebbe affatto quella del cadavere di al Shishani, sebbene sia stata già usata altre tre volte da varie fazioni curde per rivendicare l’uccisione sempre dello stesso comandante.

Ma Kadyrov non ama le smentite e pur di evitare di essere contraddetto potrebbe anche rinunciare al suo grande amore per Instagram, optando per una soluzione drastica: chiudere internet in tutta la Repubblica. «C’è stato un giorno in cui sognavo che tutta la Cecenia avesse Internet», ha dichiarato a ottobre, «Ma ora sono favorevole a chiuderla. Anche se in termini politici, economici e sociali sarebbe un grande passo indietro, smetterremo di ucciderci l’uno con l’altro. Tutte le case oggi hanno accesso alla Rete e tutte le persone sono libere di ascoltare i sermoni dei fondamentalisti wahabiti. È questa la ragione per cui i nostri preti sono così attivi sui social network».

L’Intifada dei lupi solitari

Non ha la dimensione popolare della prima Intifada, la “rivolta delle pietre” del 1987, né la tragica dimensione della seconda Intifada, quella dei kamikaze. La “terza Intifada” è l’Intifada «dei coltelli, delle asce, delle auto». Intifada dei cani sciolti, dei lupi solitari palestinesi che Hamas cerca di cavalcare, esaltando i nuovi shahid (martiri).

È l’Intifada che assomiglia sempre più a una faida, fatta di rapimenti finiti nel sangue, di ragazzi bruciati vivi per ritorsione; una faida che tende ad avere l’inquietante dimensione di una guerra di religione con moschee e sinagoghe trasformate in campi di battaglia. È anche l’Intifada dei social network, l’Intifada che veicola se stessa con la musica o le vignette. «Investi un bimbo di 2 mesi, investi i coloni, trasforma la strada in una trappola, per Al Aqsa, investili, investili», ritma in una canzone il duo pop palestinese Anas Garadat e Abu Khaya.

Si moltiplicano vignette sui media e sui siti palestinesi. Una, ad esempio, ritrae la scritta araba “Das” (investire) mentre attraversa una strada di Gerusalemme ad alta velocità, evocando la similitudine con la parola “Daish”, acronimo di Isis. È l’Intifada di una generazione cresciuta accerchiata da un Muro che si dipana per oltre 752 chilometri, il cui tracciato corre per l’85 per cento all’interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15 per cento a ridosso della linea di frontiera. Filo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati.

La speranza non cresce, e come potrebbe, sotto l’ombra del Muro dell’apartheid. È l’Intifada di quanti sono immersi in una quotidianità fatta di umiliazioni e imposizioni e che sanno, perché lo vivono sulla loro pelle, che la colonizzazione incessante dei Territori da parte di Israele rende improponibile la tanto declamata pace fondata sulla soluzione a “due Stati”. Perché nella Cisgiordania colonizzata non c’è spazio per uno Stato palestinese degno di questo nome.

I “lupi solitari” non sono conosciuti dai servizi di sicurezza israeliani, Shin Bet (interno) e Mossad (estero). Nel loro passato non c’è traccia di azioni “esemplari”.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 22 novembre 2014

Il saldo in pareggio? left l’aveva detto

Left è stato l’unico organo di stampa a dare risalto a quanto denunciato dal Centro Europa ricerche (Cer) a marzo. E cioè che, quasi non bastasse essere ingabbiati dal vincolo europeo del pareggio di bilancio, per un inghippo tecnico tale vincolo veniva applicato all’Italia in un modo particolarmente penalizzante.

Il numero 14 di Left del 19 aprile ne fece la notizia di copertina, riproducendo una strana formula matematica, una funzione di produzione per il calcolo del “Pil potenziale”. Il tema è oggi alla ribalta, se ne parla molto e ha trovato spazio nei documenti ufficiali che il governo italiano ha inviato a Bruxelles nella trattativa sul bilancio.

Di cosa si tratta? L’impegno al pareggio di bilancio, che abbiamo sottoscritto nei vari patti fiscali europei e ci siamo portati in Costituzione, va inteso in termini strutturali. Non si deve cioè guardare alla differenza tra entrate e spese come si leggono nel bilancio, ma il saldo va corretto per l’effetto del ciclo economico. In una situazione di crisi, quando il Pil cresce poco o niente, o addirittura diminuisce, il bilancio pubblico peggiora in modo automatico, perché si incassa meno dalle imposte, mentre aumentano alcune spese, come i sussidi di disoccupazione. Il saldo strutturale si ottiene detraendo dal saldo nominale questo effetto automatico. Quanto maggiore è la correzione, tanto meno viene richiesto in termini di ulteriore aggiustamento fiscale per raggiungere il pareggio.

Ebbene, noi non traiamo praticamente alcun beneficio da questa correzione. Perché? Perché secondo Bruxelles la nostra disoccupazione non è, se non in minima parte, attribuibile alla crisi, ma è un fatto strutturale del nostro sistema economico, vale a dire rimarrebbe più o meno dove sta, attorno al 12 per cento, anche se uscissimo dalla recessione.

C’è comunque chi sta peggio: alla Spagna viene attribuita una disoccupazione “naturale” del 21 per cento, mentre negli Usa la Federal reserve la pone sotto il 6. Questi numeri derivano da stime econometriche che poggiano su un insieme di ipotesi e di scelte di natura discrezionale. I ricercatori del Cer dimostrarono, come ora fanno anche i tecnici del governo, che con aggiustamenti dei calcoli, anche modesti, il saldo strutturale in Italia risulterebbe già in pareggio: non ci dovrebbe essere richiesta dunque alcuna ulteriore manovra sui conti pubblici. Si può, come vuole la Commissione Ue, tenere queste scelte distanti dalla politica, come un fatto esclusivamente tecnico, quando influiscono sulla vita di milioni di persone?

Emilia la grigia

«Ah si? Ma davvero ci sono le elezioni?». Al mercato delle Erbe di Bologna non sono poche le donne intente a fare la spesa – spesso ex militanti comuniste – che cadono dalle nuvole davanti ai cronisti di Radio Città del Capo.

A pochi giorni dalle Regionali in Emilia Romagna domina l’indifferenza. Un centinaio di chilometri più a Sud, in Romagna, i sondaggi tra i cittadini che i quotidiani locali pubblicano per vivacizzare le cronache elettorali, danno lo stesso, identico risultato: le elezioni del 23 novembre ai più non risultano, così come sono semisconosciuti i sei candidati. Ma la scadenza elettorale anticipata dell’Emilia Romagna – causata dalle dimissioni a luglio del presidente Vasco Errani dopo la condanna in appello per falso ideologico – non è un fatto da prendere sotto gamba. Anzi, rischia di diventare un vero banco di prova per Matteo Renzi e il “suo” Pd, che l’ultimo sondaggio Demos dà in netto calo (almeno cinque punti in un mese, dal 41,2 per cento al 36,3), mentre il premier scivola di dieci punti nel gradimento degli italiani.

Uno scenario da cui potrebbe risultare vincitore in assoluto il partito dell’astensione; il che, nella regione “rossa” per antonomasia, potrebbe rappresentare uno schiaffo sonoro al renzismo. In più, è proprio qui, dove è nato il “modello emiliano” di buona amministrazione che si sta consumando l’ennesima vicenda giudiziaria che coinvolge amministratori pubblici. A pochi giorni dalle votazioni, 41 consiglieri regionali su 50, appartenenti a tutti i partiti (dal Pd alla Lega, passando per Sel e M5s), hanno ricevuto un avviso di garanzia per peculato. Certo, non sono ancora condannati e le loro posizioni non sono tutte uguali, ma l’indagine delle “spese pazze” – oltre due milioni di euro usati come rimborsi (dai ristoranti ai regali di Natale, dai viaggi ai sex toy) – ha dato un ulteriore colpo alla fiducia dei cittadini.

«Le regioni in questi ultimi 3-5 anni attraverso i loro dirigenti hanno dato una pessima prova di sé, il ricambio del personale politico è molto limitato e quindi io mi aspetto una crescita dell’astensione», conferma Gianfranco Pasquino, docente di Scienza politica a Bologna, che nel 2009 si presentò alle Comunali alla guida di una lista civica. Sulle elezioni del 23 novembre è tranchant: «Qui la politica conta, i cittadini hanno senso civico e di solito partecipano, ma proprio perché hanno senso civico e partecipano, possono essere infastiditi da quello che è successo. Non è un bello spettacolo», aggiunge riferendosi ai 41 consiglieri regionali inquisiti. E lui, da sempre spirito libero e controcorrente, annuncia: «Andrò a votare, certamente. Vado e annullo la scheda con una scritta rivoluzionaria».

Ma forse lo scollamento così forte avvertito tra la politica e i cittadini viene da più lontano. Per esempio la Romagna, «negli ultimi 10-15 anni sembra vivere ai margini delle scelte politiche forti», afferma Pietro Caricato, direttore del Corriere Romagna. «Sul fronte dei servizi pubblici come la gestione dei rifiuti o la sanità, il centro decisionale è a Bologna. I comuni contano poco. E non è un caso che in questo momento siano chiusi gli aeroporti di Forlì e Rimini», continua. È un certo tipo di amministrazione centralistica a finire sotto accusa. «Venti anni fa gli assessori regionali partecipavano al dibattito dei giornali locali ogni giorno, ora non è più così, la Regione è lontana e la stessa comunicazione con Bologna è difficile».

Ce la faranno i sei candidati a ridare fiducia ai 3 milioni e 400mila elettori? A una settimana dal voto, ognuno coltiva il proprio orticello. Stefano Bonaccini, segretario regionale Pd, bersaniano di ferro e poi diventato, da un giorno all’altro, renziano, è il favorito, naturalmente, ma non è un trascinatore di folle. Dopo la vittoria alle primarie (con scarsissima affluenza) sull’outsider Roberto Balzani, aveva dichiarato: «Faremo una grande campagna elettorale», ma poi si è limitato soprattutto ai circoli. Così come la grillina Giulia Gibertoni ha preferito frequentare i meet up del Movimento. Pur avendo ottenuto un certo successo, come a Parma con l’elezione a sindaco di Federico Pizzarotti, anche il M5s procede a rilento in Emilia Romagna. Secondo il professor Pasquino, «il Movimento non ha dato prova di sé in Parlamento e quindi una parte di quelli che hanno votato Grillo adesso non lo rifaranno».

Delusione a livello nazionale e fuga verso la Lega delle frange “destrorse” pentastellate. Ma a inguaiare il M5s ci si è messa anche una lista civica nata dalle costole dei fuoriusciti. Tra questi c’è Giovanni Favia, consigliere regionale, protagonista di un aspro conflitto con quello che è diventato, dice, «un partito personale». Favia si è adoperato per far nascere la prima lista civica regionale, i Liberi cittadini per l’Emilia Romagna, che punta su Maurizio Mazzanti, un esperto di comunicazione digitale di Budrio. «È una componente dei cittadini che deriva dalla prima ondata del movimento, quello delle liste civiche, della democrazia ateniese. La parte più sana», sottolinea Favia. Anche per l’ex M5s il nemico è l’astensionismo. Se in Emilia Romagna si presenterà alle urne meno del 60 per cento degli elettori «sarà una catastrofe», dice. Ma il trend del voto è già da anni in discesa: nel 2005 aveva votato il 77 per cento degli elettori, nel 2010 il 68.

Anche a sinistra del Pd il fronte è spaccato. Sel, forza d’opposizione al governo delle larghe intese, in Emilia Romagna appoggia Bonaccini. E la Lista Tsipras, con l’Altra Emilia Romagna, candida Maria Cristina Quintavalla, insegnante di Parma, protagonista negli anni Settanta di dure lotte per la casa e contro gli scandali edilizi. Nel 2011 ha partecipato alle battaglie che a Parma hanno portato alle dimissioni del sindaco Pietro Vignali. A fianco di Quintavalla, che si spende soprattutto sui temi dell’ambiente, dei beni comuni e dell’istruzione pubblica, sono in lista personaggi noti a sinistra come il giuslavorista Piergiorgio Alleva, fortemente critico sul decreto Poletti.

E dà una mano all’Altra Emilia Romagna, girando in lungo e in largo per la Romagna, anche l’attore Ivano Marescotti. Candidato a suo tempo per le Europee nella Lista Tsipras, ammette di essere uno dei fondatori del Pd. «Io sono quello che ha fatto la prima tessera a Romano Prodi, conservo ancora la fotografia», dice l’attore romagnolo. «Non sono l’estremista che dicono, ci ho creduto nel Pd. Sono uscito nel 2009 quando elessero alla commissione etica Dorina Bianchi che di lì a poco sarebbe passata con Berlusconi». Dopo di allora è avvenuto «un cambiamento generale nel Dna del Pd. Il risultato è stato un governo in cui il segretario del partito è anche il presidente del Consiglio che governa con la destra in maniera esplicita e stringe un patto segreto con un condannato», conclude Marescotti.

Mentre Renzi in Emilia Romagna non si è quasi fatto vedere, eccetto che al traforo dell’autostrada di valico ai primi di novembre, chi ha corso invece per tutta la regione, è l’altro Matteo. Salvini ha scelto un giovane sindaco leghista, Alan Fabbri di Bondeno (Ferrara) sostenuto anche da Forza Italia e Fratelli d’Italia, mentre la destra di governo (Ncd e Udc) si è orientata verso il giornalista forlivese Alessandro Rondoni. La strategia d’attacco di Salvini compreso il blitz – senza avvertire la scorta – nel campo rom di Bologna con tanto di auto danneggiata esibita come un trofeo, ha procurato al segretario leghista un bel po’ di notorietà a destra, come dimostra lo stesso sondaggio Demos che dà la Lega nazionale al 10,8 per cento.

Ma in Emilia Romagna forse il terreno di scontro più acceso e sotterraneo è quello all’interno delle varie anime del Pd. Tra i bersaniani, i democratici della Cgil, la sinistra dem da una parte e il “nuovo” renziano dall’altra. Il modello emiliano basato sulla concertazione e sulla presenza contemporanea sulla scena di sindacati, imprese e istituzioni, verrà rottamato? «Non sappiamo ancora se quel modello sopravviverà a ciò che viene avanti a livello nazionale» afferma Gaetano Sateriale, ex sindaco di Ferrara e responsabile del piano del lavoro Cgil. «Quello che vorrebbe Renzi è dialogare con le lobby e non incontrare alla luce del sole i corpi intermedi come i sindacati». Che il premier sia “allergico” ai sindacati e alla Cgil in particolare è ormai un segreto di Pulcinella. Rimane da comprendere come questa frattura venga vissuta nel voto regionale. Intanto, con tessera di fondatore del Pd e sindacalista Cgil, Sateriale a sette giorni dal voto dichiara: «Sono ancora incerto se andare a votare e per chi votare».

Non è razzismo, ma esasperazione

Non si è trattato di razzismo ma di esasperazione. È così che il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha sintetizzato quanto accaduto durante la settimana scorsa nel quartiere di Tor Sapienza. È stata definita una periferia che nell’immaginario collettivo faceva pensare a un luogo sperduto fuori dal Grande raccordo anulare, ma non è così.

Tor Sapienza è ancora dentro quella linea di confine, solo che fa parte dell’area cittadina trascurata e dimenticata dagli amministratori locali. Ecco perché i suoi residenti, estenuati da uno stile di vita ai margini, per mettere in luce le loro difficoltà, hanno trovato un capro espiatorio: i richiedenti asilo accolti nel centro di viale Giorgio Morandi. La decisione di colpire quel bersaglio al motto di “rubano e stuprano le donne”, è stata presa da poche persone e supportata, ben presto, da molte altre, dando inizio a una manifestazione, durata cinque giorni, al termine della quale l’obiettivo è stato raggiunto: l’arrivo del sindaco e l’avvio di una discussione sulle questioni cruciali per il miglioramento di Tor Sapienza.

Ma la trattativa tra il primo cittadino e tutti gli altri, avvenuta all’interno di un bar del quartiere, non poteva tenersi già nelle ore seguenti l’inizio delle manifestazioni (la notte tra domenica 9 e lunedì 10 novembre)? Perché, il fatto di aver atteso sino al venerdì ha provocato molti danni, e non solo alla struttura colpita dalle bombe carta e dalle pietre. Ha fatto sì che la rabbia iniziale montasse al punto da intimidire i 72 ospiti a uscire dal centro di accoglienza. I più audaci, che in quei giorni hanno tentato di recarsi a prendere un caffè fuori dalla struttura, sono stati aggrediti e insultati con parole davvero offensive. Gli altri guardavano dalle finestre con aria sbalordita e impaurita e alcuni filmavano le scene di guerriglia urbana di cui, in quel momento, erano la causa.

Le immagini di quei giorni sono state rappresentative del degrado che in questo caso non si limita certo alle cartacce per terra, alle aiuole sporche o ai cassonetti sempre colmi. È un degrado culturale e morale che progressivamente, negli ultimi anni, ha investito l’intera città. E lo dimostrano anche la collocazione e la capienza stesse di quella struttura di accoglienza, così lontane da quanto previsto dalle linee guida europee per cui il sistema da adottare è quello dei piccoli gruppi di migranti in piccoli centri urbani. È solo a queste condizioni che si può pensare a un piano davvero efficace che esprima il senso dell’accoglienza. Il resto genera isolamento, paure, emarginazione e desolazione. Conseguenze dannose per tutti, non solo per gli immigrati.

Tor Sapienza, chi specula sul degrado

«Bumbamstick!». «Eh?». «Bumbamstick! Stavamo dormendo e abbiamo sentito queste botte sul centro. Bum! Bum!». Il suono che mima questo ragazzino è quello delle bombe carta e delle molotov lanciate sul centro d’accoglienza di via Giorgio Morandi. Sedici anni, un viaggio dal Bangladesh durato mesi per raggiungere l’Italia, mamma e papà lontani, condizioni disastrate nel Paese di provenienza e, soprattutto, una paura che sta diventando sempre più difficile da gestire.

Questi sono i minori che sono stati aggrediti nei giorni scorsi a Tor Sapienza, Roma. Generalmente, durante l’adolescenza, le scene più hardcore che un ragazzo si trova a vivere sono: 1) la bocciatura scolastica; 2) gli scappellotti dei genitori; 3) il divieto di usare il motorino. Situazioni diverse si trovano invece a vivere oggi i ragazzi stranieri, i “negri di merda”: «Erano centinaia di persone lì sotto, che ci dicevano di scendere e ci urlavano che ci volevano bruciare. Noi avevamo paura che volessero entrare e che ci avrebbero ammazzato. Tanti si sono sentiti male e si sono messi a piangere», raccontano. «Alcuni li abbiamo recuperati da dentro gli armadi – dice un’operatrice del centro – erano sconvolti e terrorizzati».

Nonostante siano poco più che bambini, oltre a essere precocemente oggetto di odio, questi ragazzi già lavorano. «Io ho la bancarella, lui lavora all’alimentari e lui al mercato. Usciamo la mattina presto e torniamo la sera tardi». «Molti di loro hanno un debito di viaggio – ci spiega l’operatrice – che sono costretti a ripagare.

Sono inglobati in un meccanismo di sfruttamento per cui sono costretti a lavorare anche quindici ore al giorno per pochi soldi, neanche il necessario per vivere dignitosamente». «Non sappiamo perché ce l’hanno con noi», dicono i ragazzi. «Noi usciamo la mattina presto e torniamo la sera. Dormiamo e il giorno dopo riandiamo a lavorare. Non abbiamo fatto male a nessuno».

Come quel signore congolese che neanche era ospite del centro, pestato a sangue davanti all’entrata del mercato. O come il sedicenne bengalese, picchiato alla fermata dell’autobus da un gruppo di ragazzi della zona e ancora oggi ricoverato in ospedale. Neanche loro avevano torto un capello ad anima viva. «Erano giorni che nei bar vicino a via Giorgio Morandi programmavano l’assalto al centro», continua l’operatrice. «Ed erano giorni che i minori erano picchiati da persone del quartiere. Chiaramente ce l’avevano anche con noi. “Brutte zecche, comunisti di merda, ce n’è anche per voi, ve bruciamo con loro”. Fortunatamente con noi si sono fermati alle parole, a differenza di quello che è successo con i minori».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 22 novembre 2014