Il governo Renzi e il Partito democratico dicono sì al Trattato transatlantico: «Un’occasione per triplicare il mercato del made in Italy», spiega a Left Filippo Taddei, responsabile Economia dei democratici. Ma è un sì condizionato, assicura, «alla completa trasparenza e al mantenimento degli standard sociali». Lo abbiamo incontrato nella sede bolognese della Johns Hopkins, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti, dove Taddei è docente di Economia.
Qual è la posizione del Partito democratico rispetto al Ttip?
È un’occasione per lo scambio commerciale, tenendo fermo un punto: non si può parlare di commercio internazionale senza parlare di investimenti. Quello del Ttip è un salto culturale sano: scambio commerciale e flussi di investimenti, collegati e regolati insieme. Però attenzione, ci sono alcuni aspetti che per noi italiani, ancor più che europei, rimangono irrinunciabili: trasparenza, chiarezza nelle informazioni sui prodotti che commerciamo. Va bene facilitare il commercio, ma nella pienezza dell’informazione. Per questo si fanno le trattative tra gli interessi opposti.
Quali sono gli interessi degli italiani?
Per l’Italia, come per qualunque sistema produttivo forte in alcune e definite nicchie, l’effetto di allargamento del mercato è straordinariamente importante. Se il nostro mercato di riferimento diventa non solo l’Eurozona ma anche il Nord America, significa che è triplicata la possibilità di fare profitti. È un’opportunità che può risolvere il nostro ben noto “nanismo” imprenditoriale. Inoltre, siamo anche quelli che hanno un naturale brand, il Made in Italy. Che già oggi è minacciato senza Ttip: il più grande produttore di mortadella nel mondo non è a Bologna ma in Canada e anche il più grande produttore di pasta, dopo Barila, si trova in Nord America. Il Ttip è l’occasione per chiedere agli americani che ci sia trasparenza.
Sia negli Stati Uniti che in Canada, però, esistono già alcuni marchi Made in Italy registrati da originari italiani. Toccherà competere anche con questo Made in Italy.
Questo non sarà mai permesso. È esattamente il punto sul quale non ci sarà nessun tipo di flessibilità o disponibilità da parte non solo del governo ma anche del Pd. Il concetto di commercio è legato al fatto che io so cosa tu mi vendi e viceversa. Altrimenti non è commercio internazionale, ma trucco internazionale. E non va bene.
Si riuscirà a evitarlo?
Non lo so. Perciò dico che è molto incerto e capisco la preoccupazione di molti. È una fase di grande incertezza.
Gli americani chiedono pure l’accesso al nostro mercato, ma i loro prodotti hanno standard di controllo molto più bassi dei nostri. Perciò si abbasserebbero in automatico anche da noi, no?
Sì, ma decidiamo bene cosa è una minaccia alla salute e cosa può essere risolto con un passaggio di trasparenza. Sappiamo che la carne con gli ormoni è probabile che non faccia bene, non sappiamo quanto può essere dannosa. In molti Paesi c’è, e c’è anche da noi, se non è biologica. Il criterio della tracciabilità che indica la provenienza, piena informazione, piena diffusione e poi scelta consapevole dei consumatori. Se una merce è ritenuta accettabile dagli istituti sanitari non è il caso di fare una campagna di terrorismo sanitario. Se l’Iss dà l’ok, basta indicare che gli ormoni superano una soglia e via.
Però l’accordo prevede anche un arbitrato privato. E le multinazionali potrebbero far causa agli Stati che ostacolano il loro libero commercio…
Un conto è prevedere una procedura arbitrale un altro è che poi questa abbia valenza per il diritto nazionale: nessuno può pensare che l’Italia o un Paese sovrano, di fronte a una scelta che ne minacci la salute pubblica o l’ambiente o qualunque cosa attenga al diritto nazionale, possa ammettere un arbitrato privato in deroga alle sue leggi. Nei Paesi di civil law, come il nostro, è impossibile. È più delicato nei Paesi di comon law, dove le sentenze hanno valore di legge verso tutti. Lì è più problematico. Pensare che ci sia una rinuncia alla sovranità a favore del Ttip la vedo un’ipotesi molto difficile.
A bocce ferme, perché agli americani dovrebbe convenire?
Quello che a loro interessa è la possibilità di fare investimenti da noi. Per gli americani, che sono un’economia molto più orientata all’innovazione della nostra, l’importante è il trasferimento di tecnologia. Investendo succhiano anche tecnologia, know how e competenze. Ed è bello e giusto che sia così.



«Quando The Messenger è uscito ho continuato a scrivere», spiega Marr. «Mi è piaciuto che la band sia andata in tour e abbia avuto un’interazione con il pubblico. Penso che quell’energia sia stata catturata nel nuovo album». La formazione di Marr è essenziale: con lui il coproduttore Doviak alle tastiere, il bassista Iwan Gronow e il batterista Jack Mitchell. Il lavoro su Playland è iniziato a Londra nella scorsa primavera, non appena è terminato il tour di un anno a sostegno di The Messenger.

I Dardenne, come già accaduto in passato, dipingono con rapidi tratti sicuri l’immagine di una donna, colta in una situazione estrema, che tuttavia ci tocca tutti da vicino: il rischio del licenziamento. Della sua “malattia” ignoriamo le cause, ma poco ci importa del quadro clinico, il film è l’inquietudine che serpeggia sin dalle prime inquadrature e si acuisce nel momento della scelta; è il malessere di una realtà sociale che, puntando sull’individualismo e il liberismo sfrenato, ha provocato l’atomizzazione dei rapporti umani e la polverizzazione della solidarietà di classe; è il disagio che si percepisce nelle reazioni altrui e suscita in chi guarda l’inevitabile domanda: cosa farei io al posto loro?
Soffermiamoci su quest’ultimo. Tutto comincia in Grecia nel V secolo quando Senofonte codifica l’oikonomia, intesa come spazio caratterizzato dal potere tirannico, da rapporti di dominio, a partire dalla famiglia e poi via via fino alla polis. L’intero pensiero occidentale non farà che rielaborare e riformulare il testo di Senofonte (perfino i padri della Chiesa) fino alle celebri pagine di Hegel sulla dialettica servo-padrone.

