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Filippo Taddei: il Ttip è un’occasione per il made in Italy

Il governo Renzi e il Partito democratico dicono sì al Trattato transatlantico: «Un’occasione per triplicare il mercato del made in Italy», spiega a Left Filippo Taddei, responsabile Economia dei democratici. Ma è un sì condizionato, assicura, «alla completa trasparenza e al mantenimento degli standard sociali». Lo abbiamo incontrato nella sede bolognese della Johns Hopkins, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti, dove Taddei è docente di Economia.

Qual è la posizione del Partito democratico rispetto al Ttip?

È un’occasione per lo scambio commerciale, tenendo fermo un punto: non si può parlare di commercio internazionale senza parlare di investimenti. Quello del Ttip è un salto culturale sano: scambio commerciale e flussi di investimenti, collegati e regolati insieme. Però attenzione, ci sono alcuni aspetti che per noi italiani, ancor più che europei, rimangono irrinunciabili: trasparenza, chiarezza nelle informazioni sui prodotti che commerciamo. Va bene facilitare il commercio, ma nella pienezza dell’informazione. Per questo si fanno le trattative tra gli interessi opposti.

Quali sono gli interessi degli italiani?

Per l’Italia, come per qualunque sistema produttivo forte in alcune e definite nicchie, l’effetto di allargamento del mercato è straordinariamente importante. Se il nostro mercato di riferimento diventa non solo l’Eurozona ma anche il Nord America, significa che è triplicata la possibilità di fare profitti. È un’opportunità che può risolvere il nostro ben noto “nanismo” imprenditoriale. Inoltre, siamo anche quelli che hanno un naturale brand, il Made in Italy. Che già oggi è minacciato senza Ttip: il più grande produttore di mortadella nel mondo non è a Bologna ma in Canada e anche il più grande produttore di pasta, dopo Barila, si trova in Nord America. Il Ttip è l’occasione per chiedere agli americani che ci sia trasparenza.

Sia negli Stati Uniti che in Canada, però, esistono già alcuni marchi Made in Italy registrati da originari italiani. Toccherà competere anche con questo Made in Italy.

Questo non sarà mai permesso. È esattamente il punto sul quale non ci sarà nessun tipo di flessibilità o disponibilità da parte non solo del governo ma anche del Pd. Il concetto di commercio è legato al fatto che io so cosa tu mi vendi e viceversa. Altrimenti non è commercio internazionale, ma trucco internazionale. E non va bene.

Si riuscirà a evitarlo?

Non lo so. Perciò dico che è molto incerto e capisco la preoccupazione di molti. È una fase di grande incertezza.

Gli americani chiedono pure l’accesso al nostro mercato, ma i loro prodotti hanno standard di controllo molto più bassi dei nostri. Perciò si abbasserebbero in automatico anche da noi, no?

Sì, ma decidiamo bene cosa è una minaccia alla salute e cosa può essere risolto con un passaggio di trasparenza. Sappiamo che la carne con gli ormoni è probabile che non faccia bene, non sappiamo quanto può essere dannosa. In molti Paesi c’è, e c’è anche da noi, se non è biologica. Il criterio della tracciabilità che indica la provenienza, piena informazione, piena diffusione e poi scelta consapevole dei consumatori. Se una merce è ritenuta accettabile dagli istituti sanitari non è il caso di fare una campagna di terrorismo sanitario. Se l’Iss dà l’ok, basta indicare che gli ormoni superano una soglia e via.

Però l’accordo prevede anche un arbitrato privato. E le multinazionali potrebbero far causa agli Stati che ostacolano il loro libero commercio…

Un conto è prevedere una procedura arbitrale un altro è che poi questa abbia valenza per il diritto nazionale: nessuno può pensare che l’Italia o un Paese sovrano, di fronte a una scelta che ne minacci la salute pubblica o l’ambiente o qualunque cosa attenga al diritto nazionale, possa ammettere un arbitrato privato in deroga alle sue leggi. Nei Paesi di civil law, come il nostro, è impossibile. È più delicato nei Paesi di comon law, dove le sentenze hanno valore di legge verso tutti. Lì è più problematico. Pensare che ci sia una rinuncia alla sovranità a favore del Ttip la vedo un’ipotesi molto difficile.

A bocce ferme, perché agli americani dovrebbe convenire?

Quello che a loro interessa è la possibilità di fare investimenti da noi. Per gli americani, che sono un’economia molto più orientata all’innovazione della nostra, l’importante è il trasferimento di tecnologia. Investendo succhiano anche tecnologia, know how e competenze. Ed è bello e giusto che sia così.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Ttip, al mercato dei diritti

«L’opinione pubblica è troppo allarmata, il trattato Ttip non comporterà alcuna riduzione delle tutele per i cittadini in favore dell’arricchimento delle multinazionali». Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, audito recentemente in Parlamento sull’impatto del Trattato transatlantico di liberalizzazione di commercio e investimenti (Transatlantic trade and investment partnership o Ttip) che l’Unione europea sta negoziando con gli Stati Uniti, prova a gettare acqua sul fuoco.

Ma pochi giorni prima, a Bruxelles, era stato il parlamentare europeo Massimo D’Alema, in un seminario dell’European foundation for progressive studies a spiegare che «i negoziati, fino a oggi, non si sono concentrati sulla creazione di un nuovo regime commerciale che metta l’interesse pubblico al primo posto. Anzi, usando le parole del premio Nobel Joseph Stiglitz, si sono concentrate nel creare “un sistema che metta gli interessi corporativi al primo posto”». Ma c’è di più. D’Alema ha ben chiarito che «una delle ragioni per cui l’opinione pubblica non si fida di questo tipo di accordi, e anche dello stallo dei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio, è che a oggi molti dei trattati in vigore hanno tipicamente trascurato le dimensioni sociali e ambientali e anteposto molto spesso gli interessi commerciali ad altri valori quali il diritto a una vita sana e alla protezione dell’ambiente».

E, infatti, stando agli scenari più ottimistici – ipotizzati dagli studi d’impatto che la Commissione europea ha commissionato all’illustre Cepr sui potenziali effetti positivi del trattato – potremmo al massimo creare in Italia 30mila posti di lavoro, e metterci in tasca 2,60 euro a settimana, l’equivalente di un cappuccino al bar. Stando, invece, a quelli più realistici, si potrebbe arrivare all’azzeramento progressivo della sovranità democratica su produzione, consumo e diritti e a una polverizzazione delle piccole e medie imprese, innanzitutto in agricoltura. Oltre a una perdita, in tutta Europa, di oltre 600mila posti di lavoro, come ha di recente quantificato la statunitense Tufts university.

Alla nuova fratellanza tra Europa e Stati Uniti il premier Renzi ha quasi dedicato l’intero Semestre italiano di presidenza dell’Ue perché, ha spiegato, «non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’Unione». Lo stesso presidente Obama, nella sua visita d’autunno a Roma, l’ha definito, «il premio per un’intera generazione». Il Ttip è la più ambiziosa e mai tentata svendita di diritti, servizi pubblici, beni comuni, regole di sicurezza sociale e ambientale, e di quel che resta dei sistemi produttivi nazionali, sacrificati sull’altare della creazione del più grande mercato comune globale tra Stati Uniti ed Europa, che varrà oltre la metà del Pil globale. E col quale si vorrebbe tenere saldo il timone del mondo, contrastando l’ascesa di Cina, India e Russia.

Non sono le dogane ad allontanare i mercati Ue e Usa: in media, a parte pochi settori come il cibo, il tessile, la moda e la meccanica dove ci siamo sempre fatti la guerra, le tasse sulle importazioni caricano i prezzi finali di un 2,5-3 per cento: poco o niente rispetto alla media del commercio globale. Intanto, però, il Ttip si propone di buttarli giù tutti, lanciando proprio i settori a oggi più protetti – i pochi che ancora galleggiano nel Pil nazionale – nella concorrenza faccia a faccia con i loro grandi competitori statunitensi ed europei: moda e calzature, meccanica, allevamento degli animali per la produzione di carni rosse e bianche, derivati del latte e del cibo trasformato.

Con il Ttip l’Unione mette, inoltre, a disposizione della concorrenza transatlantica tutti i livelli degli appalti pubblici – europei, nazionali e locali – dei servizi privati pubblici, innanzitutto quelli già partecipati dalle imprese private, in particolare le multiutility, ma anche la finanza, le banche, le assicurazioni, tutti gli investimenti, compresi quei derivati che gli Usa, dopo le rovinose crisi del 2005 e del 2009 erano riusciti più di noi a limitare. Anzi: un’innovazione di livello para-istituzionale che il trattato andrà a introdurre è un Investor-to state dispute settlement body (Isds): un arbitrato commerciale in cui imprese e investitori – senza prendersi il disturbo di passare dai tribunali ordinari come già è possibile oggi e di rispettare, dunque, le legislazioni nazionali – potranno citare in giudizio gli Stati se trovassero che una legittima normativa nazionale abbia leso i loro interessi presenti, passati e futuri.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Così la democrazia muore

I fatti hanno la testa dura. Le parole possono ingannare ma non li scalfiscono. Quando si perde il sessanta per cento del proprio elettorato la vittoria è quella di Pirro. Dopo le elezioni regionali dell’Emilia Romagna e della Calabria, prima che la valanga delle astensioni si manifesti presto in Toscana, davanti al Pd e a chi lo governa ci sono due alternative: correre alle elezioni anticipate per raccogliere gli ultimi residui di un entusiasmo in gran parte volatilizzato o governare sul serio e mostrare i risultati concreti di un’opera di governo finora fatta di parole. Vedremo.

La questione, com’è evidente, riguarda tutti i cittadini e investe la natura e le prospettive della democrazia nel nostro Paese. A questo bisogna tenere fisso lo sguardo in una fase di liquefazione delle fedeltà e delle certezze politiche più radicate. Chi ricorda più i raccolti elettorali garantiti in anticipo alle sinistre nei comuni delle regioni rosse? Erano raccolti in numeri assoluti, quelli: non si giocava allora con le carte false delle percentuali. Oggi il mondo è cambiato: e la gente traduce immediatamente in sede elettorale la dura realtà dell’esperienza quotidiana. Si è rotto il patto con gli amministratori locali, dove la corruzione ha corroso l’antico patto di fiducia. Anche perché al di là dell’onestà personale dei singoli i segnali più allarmanti del malgoverno del Paese arrivano proprio attraverso gli organismi di autogoverno più delicati e sensibili della democrazia italiana. Trasformate le province in pensioni per amministratori locali a fine corsa, il Comune è diventato un esattore occhiuto e avido che ricorre a tutti i pretesti per ottenere dai cittadini quei soldi che non arrivano più dallo Stato. è anche così che muore una democrazia.

Quella che avanza è una versione maggioritaria della democrazia; qualcosa che sta agli antipodi della democrazia partecipativa. Se si vuole incrementare la partecipazione bisogna che le decisioni di chi governa siano prese avendo in vista l’interesse generale e la protezione dei più deboli, alla luce di quella che Dworkin ha chiamato una “visione globale della moralità politica”. La democrazia non è un dato immobile ma un processo: solo camminando in direzione di un pieno sviluppo delle facoltà umane, allargando la gamma di diritti, libertà e risorse, aiutando i cittadini a inserirsi attivamente nella vita della società, eliminando la povertà, si potrà favorire la crescita della partecipazione politica.

In Italia i dati elettorali mostrano che, se la fase calante della marea non è cominciata oggi, solo di recente la velocità della marea in ritirata ha conosciuto una forte accelerazione. La curva dei dati è eloquente: la fase dell’alta marea cominciò nel 1948 e si mantenne per trent’anni sopra il 90%. Nel 1979 il mare della democrazia cominciò a ritirarsi, il popolo già fedele più di ogni altro al diritto-dovere del voto imparò a voltarsi dall’altra parte. Dal 2008 la fase calante è diventata più veloce. Oggi sei cittadini su dieci non votano. Col gioco ingannevole delle percentuali la maggioranza si calcola su di una minoranza di votanti.

E allora proviamo a prendere sul serio il problema di un fenomeno che si può definire con molte parole – disincanto, stanchezza, sfiducia, perdita di speranza nella politica – ma che ha cause profonde. Si leggano le proposte di un libro appena uscito, frutto di una riflessione non di breve respiro sulla questione che tutti ci riguarda: quello di Marina Lalatta Costerbosa, La democrazia assediata. Saggio sui principi e sulla loro violazione (Deriveapprodi 2014 ). Come osserva l’autrice, la decadenza della democrazia nella società capitalistica è il frutto di un impoverimento del valore dell’individuo. Lo sguardo che si posa sugli esseri umani è sempre più deformante e riduttivo: conta solo l’“homo oeconomicus”, l’oggetto delle tecnologie e delle biotecnologie, contano i mezzi per dirigerne i comportamenti e ridurne lo spirito critico: il principio kantiano è rovesciato, l’essere umano è sempre più un mezzo e non un fine.

Ma è sulla premessa generale dedicata al lettore italiano che bisogna specialmente soffermarsi: vi si osserva che la democrazia ha il suo principale nemico nella corruzione. Ogni tentativo di affermazione del principio democratico deve partire dalla lotta contro questo mostro. Ma qui il pensiero va al patto costitutivo dell’attuale maggioranza di governo, quello detto “del Nazareno”. Chi l’ha sottoscritto sapeva in anticipo che non ci poteva essere posto per una vera giustizia, per introdurre il reato di falso in bilancio o quello di autoriciclaggio, per misure realmente inclusive di lotta alla povertà, di potenziamento della scuola pubblica, di riforma del diritto di cittadinanza. E il futuro che si apre oggi è molto buio: finora è mancata la volontà, da ora in avanti non ce ne sarà nemmeno il tempo. Per Renzi la strada obbligata è quella delle elezioni anticipate. La crisi italiana si avvita senza fine.

Johnny Marr distilla il suono di Manchester

L’epopea degli Smiths è in gran parte identificata con la figura di Morrissey. Dotato di voce, carisma, capacità intellettuali e presenza scenica, il frontman della formazione che ha caratterizzato il rock inglese degli anni 80 è assurto da tempo al ruolo di icona.

Accanto a lui però c’era un personaggio che ha sempre fatto il proprio dovere musicale restando un passo indietro. È Johnny Marr, chitarrista di talento, con una ritmica precisa e capacità anche da solista. Aveva stupito pubblico e addetti ai lavori facendo finalmente un disco a suo nome nel 2013 (The Messenger) dopo anni di collaborazioni importanti. Poi Marr ci ha preso gusto e, un anno dopo, ha dato alle stampe Playland.

Johnny Marr, Playland, left«Quando The Messenger è uscito ho continuato a scrivere», spiega Marr. «Mi è piaciuto che la band sia andata in tour e abbia avuto un’interazione con il pubblico. Penso che quell’energia sia stata catturata nel nuovo album». La formazione di Marr è essenziale: con lui il coproduttore Doviak alle tastiere, il bassista Iwan Gronow e il batterista Jack Mitchell. Il lavoro su Playland è iniziato a Londra nella scorsa primavera, non appena è terminato il tour di un anno a sostegno di The Messenger.

«In questo disco c’è il suono di Londra e Manchester – aggiunge il chitarrista -; la sensazione che danno le due città e le persone che vi abitano sono entrate a far parte della musica». Se infatti ascoltiamo il disco traccia per traccia troviamo costantemente l’atmosfera “da club” che unisce le due città. Un mood fatto di birra e di persone che ascoltano in piedi allegre, ma ordinate.

La Manchester che ha dato i natali a Marr è arrabbiata e creativa, mentre Londra ha il potere di sintetizzare le idee. Così nascono brani come l’iniziale “Back in the Box”, dove il rock’n’roll graffia ancora, o “Dynamo” che forse è il momento di maggiore ispirazione del disco fatto di melodia e cura strumentale, per arrivare a “Playland” dove la velocità non è un effetto sonoro ma quasi un manifesto ideologico. Non stupisce ascoltando questi brani come il suono degli Smiths abbia condizionato il rock britannico negli anni successivi. E che forse, più di Morrisey, sia stato Johnny Marr a incarnarne l’anima.

Il canto per Lampedusa di Massimo Carlotto

Un ragazzo con la testa piena di sogni se ne sta seduto a prua, su una carretta piena di migranti, gestita da un mafioso libico. Ha 19 anni, si chiama Amal, «che in arabo vuol dire speranza». «Lo avevano sistemato sulla punta proprio per il suo nome » scrive Massimo Carlotto. «E per quei cinque grani di pepe che stringeva nel pugno». Semi preziosi che gli erano stati regalati dal nonno Boubacar Dembélé, guaritore, saggio, poeta, «narratore delle storie della settima via del pepe e custode dei segreti del foggara, l’arte di scavare i pozzi nel deserto». Amal è il protagonista del nuovo libro di Carlotto, La via del pepe ( Edizioni e/o) che racconta l’ odissea dei migranti nel Mediterraneo con linguaggio icastico e poetico. Complici le suggestive tavole dell’illustratore Alessandro Sanna.

Ricorrere alla fiaba, Carlotto, è anche un modo per restituire identità e dignità a quei migranti dall’Africa che le cronache trattano in termini di emergenza sicuritaria?

Sì, questa era la mia intenzione. Da tempo volevo scrivere su Lampedusa e su questi viaggi per mare che si trasformano in tragedia. Ma mi rendevo conto che non riuscivo a rendere la crudezza della realtà. Allora ho scelto di ricorrere ad un mondo fantastico per rendere la realtà più “ lucida”. Poi ho avuto la fortuna di incontrare un autore come Alessandro Sanna che ha fatto un lavoro straordinario, creando queste immagini pazzesche, così violente…

Immagini di grande impatto e insieme poetiche, perché le definisce violente?

Mi riferisco alla forza espressiva che hanno nel rappresentare la verità. In questo progetto il mio obiettivo era parlare degli annegati. Restituire loro una fisicità. Un po’ come avevo fatto a suo tempo con i desaparecidos dell’Argentina. Mi sono chiesto quale fosse il modo migliore per ridare una presenza a queste persone che non esistono.

La tridimensionalità che assume il racconto nel rapporto fra parola e immagine si amplifica a teatro, come si è potuto vedere con il suon reading a Bookcity.

Lo riproporrò a Roma, il 6 dicembre, nell’ambito di “Più libri più liberi”. Il teatro mi permette di stabilire con il pubblico un rapporto più diretto. A dare respiro al racconto contribuiscono le musiche originali scritte da Maurizio Camardi e Mauro Palmas, due musicisti con cui collaboro da tempo.

Il teatro, il noir, il romanzo classico, la fiaba, Carlotto sta diventando un autore sempre più poliedrico per cercare di “bucare” l’indifferenza e l’assuefazione degli italiani rispetto a tragedie come questa?

Mi chiedo quale sia la forma migliore. Essendo un autore di genere forse posso muovermi con più facilità all’interno di forme creative diverse. Ma è sempre la realtà a guidarmi. Io vivo a Padova e in queste piccole città del Nord approdano quelli che non annegano a Lampedusa. Arrivano con una fatica enorme, finiscono i soldi e diventano mendicanti. Il loro sogno è superare la frontiera. Qui, tra Verona e Padova, operano bande che li aiutano a passare dall’altra parte ma vogliono soldi. I migranti vengono continuamente derubati. Le donne scompaiono. Non se ne vedono in città. E questo è un grande mistero. Scrivendo le Vendicatrici (una serie di romanzi pubblicati da Einaudi ndr) ho dedicato molta attenzione a questo traffico di persone. I siriani hanno una loro organizzazione, in qualche modo se la cavano, gli africani no. Diventano dei disperati che, senza parlare italiano, vagano per questa città diventata leghista e che, di fatto, li odia. Di questa situazione non si può non scrivere, mi sono detto. Anche questa mattina, uscendo di casa per venire allo studio, ne ho incontrati due davanti al supermarket che chiedono l’elemosina, perché la gente li rifiuta. Si sta costruendo giorno dopo giorno una cultura dell’odio che ci fa pensare che loro vengono qua per rubarci tutto; quando, in realtà, non ci rubano proprio niente.

Qualche anno fa lei ha denunciato la schizofrenia del Nord Est che ha avuto un gran bisogno dei migranti come mano d’opera, però non li ha mai riconosciuti. E mentre li chiamava a lavorare progettava già di dislocare le imprese e di rispedirli al loro Paese. Ora siamo passati ad una fase ulteriore?

Sì, siamo già oltre. I finanziamenti alla Lega sono stati dati perché volevano una forza politica xenofoba che avesse la legittimità politica per mandare via le persone. Come li hanno scacciati dal territorio? Mettendo la polizia e i vigili urbani davanti agli ambulatori medici. I migranti non ha avuto più nessuna forma di aiuto sanitario. Sono dovuti andare via anche quei pochi medici che davano assistenza. Così siamo entrati in una nuova fase: dare la colpa della crisi a chi ha la pelle di un colore diverso. La Lega con Salvini ha un nuovo corso, in alleanza con la nuova destra e sta rilanciando il discorso razzista. Ma al di là di questo c’è proprio una cultura del territorio che fa sì che la gente pensi “va bene così” quando affonda un barcone, e poi ” che se ne stiano a casa loro”, “non abbiamo bisogno di loro”… Padova è una città dove la gente beve lo spritz in piazza e arrivano loro, ti prendono per la manica e ti dicono: “ho fame”. Sono insistenti, e la gente dice : danno fastidio. Dall’altra parte c’è il Comune, purtroppo ora abbiamo un’amministrazione leghista, che sta facendo una guerra neanche troppo sotterranea alle associazioni che hanno sempre dato una mano agli immigrati.

Per contrasto in questo libro lei evoca una cultura africana ricchissima. Colpisce quel passaggio, bello e terribile, in cui Amal, approdato in una al di là che somiglia molto all’al di qua viene accolto da esorcisti e da una raffica di pregiudizi. Siamo orgogliosi di essere così ignoranti?

Di fatto la cultura africana non esiste quasi più in Europa, basta dare uno sguardo al mondo editoriale, è crollata la richiesta di letteratura africana. è difficilissimo vedere il cinema africano nelle nostre sale… Così ti trovi di fronte persone che sono completamente sconosciute e la strada è quella del pregiudizio. Ne La via del pepe ho utilizzato espressamente tutta una serie di luoghi comuni.

«Finta fiaba africana per europei benpensanti» recita, non a caso, il sottotitolo del libro.

Perché è sui luoghi comuni che dobbiamo confrontarci, per far partire un dialogo in nuova forma.

Lo scienziato David Quammen dice che temiamo l’ebola, più di altri virus anche più pericolosi perché si trasmettono per via aerea, perché viene dall’Africa. Così è nato il mito della pandemia.

La traduzione pratica di tutto questo sono le ordinanze comunali che avvertono “attenti all’ebola”, “attenti a chi viene dall’Africa”. Per cui adesso, ogni tanto, beccano un migrante e lo portano in ospedale per fare controlli riguardo all’ebola.

Da ultimo, tornando alla questione argentina, a cui lei accenava all’inizio: Bergoglio non ha mai detto una parola sui desaparecidos e suoi loro bambini dati in adozione in modo illegale. Alcuni giorni fa il Papa ha incontrato Estela Carlotto, una copertura?

In Argentina si dice “La Chiesa è l’unica madre che ha tradito i propri figli”. Io continuo ad esserne convinto. Un cambiamento vero ci sarà il giorno in cui la Chiesa renderà pubblica la lista dei bambini scomparsi dicendo dove si trovano quei “nipoti che ora sono adulti. La gerarchia ecclesiastica ha sempre gestito questa vicenda, per cui sanno e bisogna che anche loro aprano gli archivi, altrimenti è impossibile raggiungere un livello di libertà e giustizia e ricomporre culturalmente il Paese.

Bergoglio è accusato di aver consegnato alla dittatura alcuni gesuiti dissidenti. Certamente li espulse dalla comunità. E questo bastava per segnalarli e renderli “aggredibili”…

Sì infatti. Ma ci sono anche responsabilità di Bergoglio nella questione dei nipoti “rubati”. Il Papa è stato chiamato a testimoniare ad un processo, ora bisogna vedere se lo farà o meno. Ma la richiesta è stata avanzata. Lui ha negato l’esistenza di questa pratica di adozioni illegali e clandestine con cui, durante la dittatura, si facevano sparire i bambini degli oppositori. Ma è venuto fuori che in realtà sapeva. è una questione controversa che deve essere sciolta.

La lotta dell’operaia Sandra. Nel film dei Dardenne

Tre aggettivi per il film Deux jours, une nuit dei Dardenne: bello, rigoroso, toccante. La storia: una giovane donna, Sandra, ha 48 ore di tempo, un week end, per convincere i suoi colleghi a votare, affinché conservi il suo posto di lavoro. Tale decisione comporta la perdita di un bonus di mille euro per ciascuno di loro. La donna, per chiedere se siano d’accordo o meno, gira di casa in casa, da un quartiere all’altro, giorno e sera, sola o in compagnia del marito. Vacilla, si ferma, riparte, sente di non valere niente, ha paura di suscitare pietà, prova rimorso per ciò che sta togliendo agli altri. La concorrenza asiatica sui pannelli fotovoltaici impone all’imprenditore di ridurre il numero degli operai. Nulla di personale, ma lui deve agire coerentemente con le regole del profitto. Gli operai, alcuni con sincero rammarico, altri senza remora, devono fare i conti con rate, bollette, spese, e il bonus, 80 euro in più al mese, fa loro comodo. Nessuna slealtà, ma è il prezzo della vita, che impone la scelta. Il caporeparto disprezza Sandra, perché è caduta in depressione. Nessuna titubanza, ma in fabbrica non è permessa alcuna fragilità, sinonimo di inefficienza e incapacità.

Deux jours, une nuit, Dardenne, leftI Dardenne, come già accaduto in passato, dipingono con rapidi tratti sicuri l’immagine di una donna, colta in una situazione estrema, che tuttavia ci tocca tutti da vicino: il rischio del licenziamento. Della sua “malattia” ignoriamo le cause, ma poco ci importa del quadro clinico, il film è l’inquietudine che serpeggia sin dalle prime inquadrature e si acuisce nel momento della scelta; è il malessere di una realtà sociale che, puntando sull’individualismo e il liberismo sfrenato, ha provocato l’atomizzazione dei rapporti umani e la polverizzazione della solidarietà di classe; è il disagio che si percepisce nelle reazioni altrui e suscita in chi guarda l’inevitabile domanda: cosa farei io al posto loro?

Ma soprattutto è l’emozione di un percorso, intessuto di rapidi incontri, battute che si ripetono, lacrime ricacciate indietro, gesti meccanici, che non riescono a lenire il dolore. Sandra, a cui Marion Cotillard, dona pudore e credibilità, pedinata dalla macchina a mano, tra inquadrature lunghe e fotografia sgranata, va incontro al suo Ok Corral, la temuta votazione in fabbrica, con il volto struccato, segnato dalle occhiaie, i capelli stretti da un elastico, le spalle curvate da un peso invisibile, che le lavora dentro,costringendola a fare i conti con un senso di disistima tragico, che, per esigenze di sintesi, finisce per mitigarsi sotto finale, lasciando intravedere una tenue speranza.

I Dardenne, che per questo lavoro si sono ispirati a un testo di Pierre Bordieu, sono tra i pochi registi europei, che riescono a raccontare, senza retorica e fini consolatori, gli offesi, i perdenti,gli outsiders in cerca di riscatto. Qui rappresentano la “guerra dei poveri” in atto nel mondo del lavoro. Lo fanno con estremo rigore e ormai pluriennale convinzione.

Lo fanno perché questo è il loro mondo poetico: film low budget, storie apparentemente semplici, realismo lavorato da finezze introspettive, generose prove attoriali, grande senso della contemporaneità e della violenza dei conflitti sociali. Un occhio rivolto all’Europa, in cui si sta disintegrando il welfare, l’altro all’unico riscatto possibile: l’umanità degli individui.

Il ritorno dell’anarchia

Alcuni titoli recenti configurano un felice rilancio del pensiero anarchico: Homo comfort di Stefano Boni (Eleuthera), ritratto puntuale del nuovo tipo umano (e delle facoltà sensoriali che ha perso con il “progresso”), Cristiani e anarchici di Lucilio Santoni (Infinito), sulle molte analogie tra due filoni di pensiero radicali e spesso fraintesi (un diario morale che ha pagine di grande forza poetica) e Dall’economia all’euteléleia di Alessandro Pertosa (Edizioni per la decrescita felice, pref. di M.Pallante), in cui l’anarchia diventa «proposta culturale, spirituale e politica libertaria che invita il singolo io a rifiutarsi di esercitare un qualsiasi potere dispotico».

Homo Comfort, Stefano Boni, leftSoffermiamoci su quest’ultimo. Tutto comincia in Grecia nel V secolo quando Senofonte codifica l’oikonomia, intesa come spazio caratterizzato dal potere tirannico, da rapporti di dominio, a partire dalla famiglia e poi via via fino alla polis. L’intero pensiero occidentale non farà che rielaborare e riformulare il testo di Senofonte (perfino i padri della Chiesa) fino alle celebri pagine di Hegel sulla dialettica servo-padrone.

Ma a questo si contrappone un’altra corrente filosofica (minoritaria però agguerrita: Cusano, Duns Scoto, il monachesimo, e fino a Gramsci e a Illich…) che nega qualsiasi naturalità dell’oikonomia e intende invece costruire la eutéleia, uno spazio conviviale fatto di relazioni non-violente, fra uguali.

La riflessione di Pertosa, filosofo freelance 34enne, si avvale di uno stile logico-argomentativo serrato e di una conoscenza di prima mano delle opere filosofiche. Unisce rigore intellettuale e passione etica, concedendosi anche un piglio spavaldo con cui stronca in poche pagine Marx o Emanuele Severino (che pure considera un suo maestro). La sua proposta evita poi certo pedagogismo autoritario alla Latouche che assume la decrescita come obiettivo e non come mezzo per uscire dall’oikonomia.

Insomma, se l’essere umano ogni tanto desidera legittimamente il lusso, il gadget di moda (spesso sono belli!), la dissipazione, etc. (Woody Allen parlava di come garantirsi il «caviale quotidiano») non bisogna imporgli uno stile di vita ascetico-monastico, ma solo ricordargli l’utilità dell’inutile, il piacere di perdere tempo, la bellezza di tutto ciò che non si compra né si vende.

Allarme diplomificio

Paolo Latella è un insegnante ed è segretario del sindacato Unicobas in Lombardia. Un anno e mezzo fa ha inviato al ministro dell’Istruzione Carrozza un dossier sulle pratiche irregolari di molte scuole paritarie. Per questo ha ricevuto anche minacce anonime. Ma lui ha diffuso il dossier tra i parlamentari della Commissione Cultura e Istruzione, denunciando cosa accadeva in molte scuole paritarie: l’impiego di docenti che non hanno titoli; lo sfruttamento da schiavi di insegnanti che, pur di ottenere l’agognato punteggio per scalare le graduatorie provinciali, sono costretti a lavorare per 4-5 euro l’ora o gratis, pagando di tasca propria i contributi; la formazione di classi fantasma che si materializzano in prossimità degli esami, da svolgere in sedi accomodanti. Ha denunciato la facilità con cui si ottiene la parificazione, realtà anomale come Caserta, dove ci sono 413 scuole paritarie e 217 scuole statali, e la finzione dei controlli, rari e con preavviso.

I politici, con l’eccezione di due esponenti del M5s, sono rimasti in silenzio. Anzi, nell’ottobre del 2013 è scomparso misteriosamente dal “decreto Istruzione” proprio l’articolo che riguardava i diplomifici. Sull’argomento tace anche l’attuale ministro Giannini, nonostante l’operazione di ascolto sulla “buona scuola”.

20141122_Libro_NeroCosì Latella ha messo la sua denuncia sulla rete: il Libro nero della scuola italiana mettendo i fatti uno dietro l’altro, emerge che il centrosinistra non ha contrastato affatto la politica del centrodestra volta a indebolire la scuola pubblica, dalla legge 62 di Luigi Berlinguer e Massimo D’Alema, grazie alla quale le scuole private (in grandissima parte cattoliche) sono state inserite nel sistema pubblico. Anzi il centrosinistra ha fornito una copertura più convincente per far passare cambiamenti retrivi sotto l’apparenza di riforme per ammodernare la scuola.

Berlinguer rese più confusa l’opposizione al bliz che aprì il finanziamento pubblico alle scuole private, presentando la legge 62 come un colpo ferale ai diplomifici, che hanno continuato a prosperare, e alle violazioni dei contratti nazionali negli istituti privati, che sono diventati contratti a progetto nelle paritarie.

Il ministro Foroni, nel 2006, presentò un piano per assimilare le scuole alle fondazioni, con la scusa che avrebbero goduto di un regime fiscale più favorevole per acquisti e donazioni, in realtà per trasformare le scuole in enti di natura privatistica.

Dal dossier di Latella viene a galla anche la strategia della lobby delle paritarie cattoliche: lamentarsi con il ministro di turno, benché compiacente, per apparire come vittime di un sistema illiberale e ottenere ogni volta di più. Letizia Moratti, come riporta il libro di Latella, fu contestata per scarso impegno nel compito di modificare gli articoli 33 e 34 della Costituzione, Mariastella Gelmini per non essere riuscita a favorire abbastanza i docenti delle paritarie.

Tuttavia, il Libro nero della scuola italiana colpisce soprattutto per le parole di amaro disincanto di chi sperava di fare l’insegnante e ha scoperto che in un istituto privato, benché paritario, è tutt’altra faccenda.

 

Violenza di Stato contro le donne

«Ho paura, ma almeno devo provarci, per me e i miei bambini che non possono diventare come lui o un giorno sostituirsi a me. Non ne posso più di soffocare le lacrime per evitare che le botte si sostituiscano alle minacce. Cosa ho da perdere che non abbia già perso? Voglio provare, mi aiuti?». Anna aveva 25 anni, aveva seguito l’uomo che amava, abbandonando la famiglia che, contraria, aveva visto oltre. Erano nati due bambini. Lui aveva smesso di picchiarla solo durante le gravidanze.

Anna mi scrisse una lunga lettera. La conoscevo bene, giocavamo insieme da bambine. Denunciò il marito il giorno in cui lui iniziò a spegnere le sigarette su di lei ordinandole di non lamentarsi altrimenti sarebbe passato ai bambini. Anna è morta uccisa a colpi di pistola davanti ai suoi figli. Lui è di nuovo libero, dopo aver scontato 18 anni di carcere, grazie alle attenuanti. I suoi figli, insieme ai nonni, hanno preferito andare all’estero per non incontrarlo più.

Sono passati 26 anni dalla morte di Anna, nulla è cambiato. Quanti tipi di violenza nei confronti delle donne esistono? Troppi. Ho scelto di impegnarmi affinché fossero cancellati più soprusi possibili ma ho capito che la battaglia non sarà mai vinta finché anche i legislatori ne consentono e ne favoriscono la sopravvivenza. Con la nascita della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, prevista per domani, 25 novembre, e voluta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999, sono stati invitati i governi, le organizzazioni internazionali e non governative a organizzare attività per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema così trascurato.

L’art. 1 della Risoluzione 54/134 International Day for the Elimination of violence against women prevede che qualsiasi atto di violenza di genere che provoca, o potrebbe provocare, danni fisici, sessuali o psicologici alle donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, in pubblico e nella vita privata, sono “violenza contro le donne”. L’Assemblea dell’Onu usa termini che pesano come macigni sulle spalle delle donne: «Danno psicologico», «sofferenza», «privazione della libertà». Tutti purtroppo oggi frequenti.

Possibili anche a causa dei proibizionismi contenuti nella legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, contro la quale mi sono più volte battuta. Sono violenza verso le donne, infatti, le norme coercitive di questa legge, molte fortunatamente cancellate da 32 decisioni dei tribunali. Divieti che hanno costretto 10mila coppie all’anno, per 10 anni, a dover affrontare il desiderio di diventare genitori tra mille ostacoli. O a rinunciarci.

La legge ha permesso, con l’uso proibizionista del diritto, la lesione della sfera privata di tante donne, costrette ad intraprendere percorsi procreativi non grazie ai migliori consigli dei medici ma con i peggiori limiti ideologici del legislatore. Il Parlamento si è arrogato il potere di sindacare sulla legittimità o meno delle scelte procreative di uomini e donne, in piena violazione del diritto al rispetto della vita familiare e privata. Ha gettato in grave angoscia, fisica e mentale, migliaia di coppie che si sono recate in Paesi stranieri per effettuare tecniche di procreazione vietate in Italia.

E’ violenza di Stato anche quella che permette di abbandonare le coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili al loro destino: piuttosto viene concesso loro di concepire un figlio gravemente malato e destinato a non sopravvivere. Meglio abortire, per lo Stato, invece che farlo nascere sano grazie alle indagini cliniche diagnostiche. È violenza di Stato, ancora, quella che nega alle donne il diritto di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza. Le offende a causa del fenomeno pandemico dell’obiezione di coscienza. Lo Stato abbandona le donne e le costringe ad abortire in un bagno di ospedale, circondate da medici obiettori, come è accaduto a Valentina e a tante altre.

Il diritto a ricevere assistenza non può e non deve essere annientato dall’incidenza paralizzante degli obiettori di coscienza tra ginecologi, ostetriche e infermieri. Abbiamo raggiunto una media nazionale del 70% e il diritto all’obiezione di coscienza si è trasformato in “imposizione di coscienza”. Lo Stato, laico e liberale, il Servizio sanitario nazionale e le Regioni devono invece garantire entrambi i diritti: all’obiezione di coscienza e all’aborto. è, di nuovo, violenza contro le donne quella che le marchia come assassine quando chiedono la prescrizione della ricetta per la pillola del giorno dopo.

Ci si meraviglia per le parole del papa, meravigliamoci piuttosto dell’assenza dello Stato che maltratta le donne e le mette in pericolo di vita. Dov’è il capo del governo, Matteo Renzi, quando occorre cancellare gli ultimi divieti della legge 40? Dov’è lo Stato quando occorre togliere i lucchetti alla ricerca scientifica sugli embrioni? Dov’è quando una donna deve peregrinare di ospedale in ospedale prima di trovarne uno disposto a praticarle un’interruzione di gravidanza in sicurezza? La violenza sulle donne è un macigno che non si nasconde col perbenismo politico nelle giornate di rito. Lo Stato deve farsene carico.

*Filomena Gallo è avvocato e segretario dell’Ass. Coscioni

Un’altra sinistra è possibile

Viene prima o poi il momento in cui le narrazioni, anche le più accattivanti, devono fare i conti con la realtà. È quello che ci segnalano i sondaggi un po’ in tutta Europa, dalla Spagna all’Inghilterra all’Italia, in cui le forze di governo vedono arretrare i consensi di fronte al degradare delle condizioni sociali reali della popolazione, sia dove la crescita è ancora auspicata, sia, e questo è ancora più significativo, dove il Pil si è mosso verso l’alto, ma la maggioranza delle popolazione tocca con mano che questo non migliora le proprie condizioni di vita e di lavoro.

Ed è significativo lo stesso risultato delle elezioni a medio termine degli Stati Uniti, dove Obama, che pure si è mosso in funzione della crescita in maniera ben più incisiva dell’Europa, ha visto diminuire il suo consenso, non riuscendo a rimotivare proprio quell’elettorato di sinistra che aveva creduto che con la sua presidenza sarebbero diminuite le disuguaglianze e ci sarebbe stata una svolta radicale nelle politiche ambientali.

Il mantra della crescita non sembra riscaldare più i cuori. Perché il popolo ha cominciato a toccare con mano che se non si mettono in discussione i fondamentali del modello di sviluppo che ha dominato il mondo in questi anni, se non si tagliano le unghie alla grande finanza, se non si prende atto dei fallimenti del mercato a creare nuovo lavoro e a rendere migliore la vita della gente, le disuguaglianze e la povertà cresceranno. Nella crisi e nella crescita i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri precipitano nella miseria.

In Italia la crescita non c’è e per un po’ non ci sarà. Ma Renzi continua a prometterla, spostando sempre più in là i tempi del decollo. Gli italiani sono invitati ad aspettare che ingolositi dalla deregolazione del mercato del lavoro i capitali esteri comincino ad arrivare in Italia, mentre nel frattempo gran parte dei padroni esteri già presenti chiudono, ristrutturano, licenziano. O che le grandi opere previste dallo Sblocca Italia, i favori fatti ai grandi concessionari della Autostrade, l’allentarsi dei controlli pubblici sul territorio, rimettano in moto il meccanismo dell’edilizia. Col nuovo e insensato consumo di suolo che ciò comporterebbe.

Ma intanto gran parte degli italiani vivono un oggi sempre più drammatico. Sott’acqua in gran parte d’Italia, per fenomeni atmosferici che qualcuno continua a definire eccezionali, ma sempre più palesemente portato strutturale di una crescita che ha consumato suolo e provocato quel cambiamento climatico che riversa su di noi le sue bombe d’acqua. E intanto Renzi fa gli esercizi consueti di prevenzione postuma, prendendo impegni solenni post-disastro.

Nelle periferie urbane la deprivazione sociale e culturale si riversa nelle strade, individuando come nemici i più poveri di tutti, i ragazzi, le donne, che sono fuggiti dalle guerre e dall’impoverimento crescente dei tanti Sud del mondo. È sacrosanto opporsi all’intolleranza che cova dentro certe rivolte, ma occorre sapere che non basteranno le prediche se non si affronta la miseria crescente che alberga nelle nostre periferie, se non se ne rompe l’isolamento fisico e culturale, e se non si assume la lotta al degrado urbano come una priorità dell’oggi. Senza aspettare le risorse derivanti da una improbabile crescita, ma anzi facendo di queste priorità – la salvaguardia del territorio, il contrasto alla povertà, le politiche di accoglienza – gli elementi fondamentali di una nuova idea di sviluppo.

Ma sarebbe vano ricercare queste priorità nell’azione attuale del governo. Nel decreto Sblocca Italia ci sono tante autostrade, un po’ di ferrovie- tutte ad Alta Velocità, niente per i pendolari – briciole per il trasporto pubblico locale. L’Italia “sbloccata” avrà più asfalto e più cemento, e meno terra che respira. Le periferie continueranno ad essere marginali e isolate. Non c’è da stupirsi che la gente impoverita e sott’acqua non si accontenti più di promesse, oltre tutto quando le promesse sono di questo tipo. Crescerà la rabbia, e il pericolo che la rabbia sia cavalcata dal populismo di destra. Dove Renzi non arriva più, sempre più spesso arriva Salvini.

Ma fortunatamente in Italia è in campo anche la sinistra sociale dei lavoratori dipendenti e autonomi, dei disoccupati, degli studenti. La manifestazione della Cgil del 25 ottobre, lo sciopero sociale e quello della Fiom del 14 novembre, lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 5 novembre, mettono in primo piano la questione del lavoro: quello che manca, quello che sparisce, quello che perde dignità e diritti.

Le speranze che il declino del renzismo apra una nuova stagione per la sinistra sta nella capacità di questo mondo di trasformare in proposta politica la rabbia delle nostre periferie e dell’Italia sott’acqua. Zero cemento e zero rifiuti, recupero delle aree interne e della vocazione agricola di gran parte del nostro territorio, rottura dell’isolamento fisico e culturale delle periferie, manutenzione e la cura del territorio come la vera “grande opera” di cui il nostro Paese ha bisogno, possono essere al centro dello stesso movimento sociale. Per far nascere nuovo lavoro, nuova ricerca, nuovo sapere. Nuova speranza di un presente e di un futuro diverso.