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L’Europa sconfitta dal Kosovo

Magistrati e poliziotti di tutta Europa hanno fallito. Di più: sono stati sconfitti da un sistema corrotto che dovevano sanzionare e correggere. È successo in Kosovo, il luogo dove l’Unione europea ha concentrato il 90 per cento dei suoi sforzi in politica estera.

La missione Eulex, partita sei anni fa per Pristina col compito di reprimere crimini gravi e migliorare il sistema giudiziario kosovaro, è stata travolta da uno scandalo che distrugge la sua già fragilissima reputazione. Il procuratore Maria Bamieh, in forze nella missione dal 2008, ha denunciato due gravi casi di corruzione interni a Eulex che coinvolgerebbero il giudice italiano Francesco Florit. Le sue accuse sono apparse sul giornale albanese Koha Ditore e nonostante una serie di incongruenze sono state prese molto sul serio dalla nuova Rappresentante della politica estera Federica Mogherini, che ha già ordinato un’indagine sul caso a Jean Paul Jacqué, noto professore francese di diritto, già consigliere speciale al Consiglio della Ue.

Dimostrare l’innocenza dei magistrati internazionali è vitale per la Unione, altrimenti cadrebbe l’ultimo stecchino che tiene in piedi una missione già svuotata da una clamorosa assenza di risultati. L’Europa, che ci ha investito un miliardo di euro, con quest’ultima pugnalata dovrebbe riconoscere la sua totale incapacità di fare politica estera.

Maria Bamieh sostiene di essere stata allontanata da Eulex perché voleva indagare su casi di corruzione interni alla missione. I casi di cui parla sono due: Francesco Florit si sarebbe piegato a pressioni esterne per la scarcerazione di un funzionario del ministero della Salute di nome Ilja Tolaj e – caso ancor più grave – avrebbe accettato una mazzetta di 300mila euro per scagionare tre poliziotti kosovari accusati di cinque omicidi. Le accuse di Bamieh hanno avuto ampia eco sui giornali britannici, soprattutto perché lei afferma di essere in possesso di intercettazioni e testimonianze dirette e di essere vittima di un sistema che condanna tutti i whistleblower, una parola che nel mondo anglosassone va tanto di moda e che indica coloro che hanno il coraggio di denunciare le mele marce all’interno del proprio habitat.

Ma Francesco Florit, oggi in forza al Tribunale di Udine, ha tutta un’altra versione dei fatti: «Maria Bamieh non è nuova a questi comportamenti. Quindici anni fa ha chiuso il suo rapporto con la Procura generale britannica lanciando le stesse accuse: di essere stata discriminata e mobbizzata. Sostanzialmente è una persona priva di equilibrio». E sulle accuse contro di lui cosa ha da dire Florit? «Sono entrambe assurde. Nel primo caso la Bamieh dice di essere in possesso di un’intercettazione tra l’indagato Ilja Tolaj e un certo Ejup Kamberi che assicurava al detenuto (in possesso di un cellulare grazie all’“elasticità” del sistema carcerario kosovaro) di poterlo aiutare in virtù della sua amicizia con me. Ma quale amicizia? Kamberi è venuto a trovarmi nel mio ufficio presentandosi come professore universitario e dicendo che mi voleva come docente per un suo corso. Al quinto incontro mi disse che sua moglie era amica della moglie di Tolaj, e che quest’ultima si chiedeva perché il marito fosse ancora in cella nonostante lei avesse pagato 50mila euro di cauzione. Appena citò il caso lo cacciai dalla stanza. Fortunatamente avevo con me un testimone e redassi lo stesso giorno la relazione sui fatti avvenuti che mandai alla Bamieh, titolare dell’inchiesta». Florit ci mostra la sua relazione, datata 28 giugno 2012 e controfirmata dal suo assistente. «Le dirò di più», aggiunge, «la stessa Bamieh a quei tempi chiese il rinvio a giudizio di Kamberi per “millantato credito” ai miei danni! Come fa oggi ad accusare me di aver complottato con lui?».

 

Il secondo caso in cui sarebbe coinvolto il magistrato, però, è quello più grave. «Si trattava di 6 poliziotti deviati in guerra contro una banda di criminali. I 6 hanno messo 4 chili di tritolo nel ristorante del boss avversario uccidendo due passanti. In più hanno ucciso 3 persone che minacciavano di testimoniare contro di loro. Siamo riusciti a incriminarne 3 e io ne ho condannati due a 63 anni in due distinti processi. Tanto per far capire il livello di tensione che si respira in Kosovo, le dico che il capo del penitenziario dove erano custoditi si rifiutò di inviarli in tribunale sostenendo che gli altri 3 poliziotti della banda li avrebbero probabilmente scortati, uccidendo loro o il giudice stesso. Per 25 udienze la Corte si è recata nel loro carcere e se uno dei tre non è stato condannato è perché non eravamo in possesso di prove, come riconobbe la stessa Bamieh suggerendo di cambiare l’imputazione. Ora lei mi accusa di aver chiesto una mazzetta di 300mila euro da riscuotere in “comode rate” da 10mila euro l’anno! Quale garanzia avrei avuto del loro pagamento? Tralasciando il banale fatto che, di quei tre, la Corte ne ha condannati due».

Sulle accuse di Bamieh non è solo il giudice Florit a dimostrarsi perplesso. Gli esperti di affari kosovari preferiscono concentrarsi sul completo fallimento di Eulex piuttosto che su singole accuse di corruzione, che pure ritengono sintomatiche di come (non) funziona la missione europea. «Non credo molto alle accuse della procuratrice, ma la cosa grave è che sono plausibili», commenta Andrea Lorenzo Capussela, che sta scrivendo un libro sulla sue esperienza in Kosovo, dove ha lavorato per anni nell’Agenzia per le privatizzazioni. «È plausibile, cioè, che in una missione con controlli così deboli come Eulex si siano verificati casi di corruzione. Il comportamento della Bamieh però mi lascia perplesso. In 6 anni di lavoro nell’unità di crimini finanziari ha trovato solo due casi sui quali vale la pena indagare? La sua selezione mi pare interessata e non escludo che li abbia denunciati per distogliere l’attenzione dal suo operato. In particolare c’è un gravissimo caso di privatizzazione su cui io stesso le avevo fornito materiale e sul quale lei ha deciso di colpire solo i pesci piccoli. Si trattava di un terreno pubblico che doveva essere venduto a privati, invece il governo è arrivato ad autoespropriarselo per poterlo trasferire – non so a che termini – alla American University, un’istituzione dove studiano i figli dell’élite. In quest’operazione il governo ha violato numerose leggi e io a quei tempi ho mandato le carte a Eulex. Ma nessun giudice ha dato seguito alle indagini. La Bamieh se ne è interessata solo 3 anni dopo, nel marzo del 2014, chiedendomi di visionare i documenti. L’operazione coinvolgeva due ministri, il presidente dell’università americana e alcuni dirigenti dell’Agenzia di privatizzazione. Lei che fa? Se la prende solo con i funzionari dell’agenzia.

Tornando alle accuse a Florit, mi sembra poco credibile che l’italiano abbia preso tangenti “a rate” per assolvere un poliziotto e condannare due dei suoi compari. Condannare Florit per corruzione servirebbe proprio per chiedere la revisione del processo. La Bamieh sostiene che Eulex abbia svolto un’indagine interna e abbia archiviato il caso per insabbiarlo, ma questo sembrerebbe uno dei pochi casi in cui la missione ha fatto bene a chiudere subito l’indagine interna». È la portavoce di Eulex Dragana Nikolic Solomon a chiarirci lo stato dell’opera: «Abbiamo istituito una task force per condurre quest’inchiesta mesi prima che fossero pubblicate queste accuse. La materia è stata presa in carico e la task force sta continuando a lavorare. Finché l’inchiesta sarà in corso vale la presunzione di innocenza, che è la pietra miliare di qualsiasi sistema di diritto».

 

«Più dell’operato di questa task force bisogna guardare all’operato di Eulex nel suo complesso», insiste Capussela, «perché si tratta di un vero disastro: 6 anni di lavoro, un miliardo di euro spesi, 3.000 persone che hanno prestato la loro esperienza in Kosovo e cioè circa il triplo di quelle impiegate in tutte le altre 11 missioni esterne della Ue messe insieme. Eppure i reati gravi che Eulex avrebbe dovuto perseguire sono rimasti impuniti. L’élite politica ed economica del Kosovo continua largamente a coincidere con quella criminale». L’immane sforzo dell’Europa è servito solo ad agevolare la trasformazione del Kosovo in uno Stato mafia. E questo spiegherebbe perché Eulex non gode di buona fama a Pristina, dove Bamieh viene trattata come un nuovo eroe nazionale. Le accuse del procuratore sono viste come il grimaldello per scardinare la missione Ue, che molti kosovari ritengono complice dei criminali al potere.

E Bamieh non esita a infiammare i cuori dichiarando ai giornali che «i nostri soldi stanno andando in questa missione e la maggior parte del personale, nonostante lavori part time, si prende lo stipendio da impiegato a tempo pieno. Scompaiono il giovedì o il venerdì mattina, volano a casa e ritornano il martedì». Ma mentre Bamieh gioca a fare la grillina, Capussela sottolinea il fallimento più grande di Eulex: «Doveva reprimere i crimini di guerra o contro l’umanità, e invece ha processato solo i ladri di polli. I veri corrotti sono rimasti al loro posto». Gli studiosi dei Balcani confermano: gli uomini al potere sono spesso gli stessi che si sono macchiati delle peggiori nefandezze. Gianfranco Gallo, un altro magistrato che ha lavorato in Kosovo, ha dichiarato ad esempio che «esistono fortissimi sospetti che il primo ministro Hashim Thaçi sia stato coinvolto nel traffico d’organi di prigionieri serbi uccisi durante la guerra. Eulex ha istituito una task force per investigare, ma al suo vertice è stato nominato un americano. Le indagini sono state condotte con molta calma e rilassatezza».

E Capussela ci racconta un caso di asservimento di cui lui è stato testimone. «Eulex è complice del sistema politico kosovaro e lo dimostra la vicenda del governatore della Banca centrale Hashim Rexhepi. I giudici Ue lo hanno arrestato sulla base di lettere anonime, roba che neanche l’inquisizione! Le missive furono verosimilmente inviate dall’entourage di qualche dirigente politico che voleva fare fuori un governatore indesiderato. Rexhepi è stato assolto ma ha passato 4 mesi in prigione e il Parlamento l’ha rimosso dal suo incarico».

 

Di fronte alle accuse di accondiscendenza, però, Eulex insorge. Dragana Nikolic Solomon rivendica risultati significativi: «Dal 2008 abbiamo emesso 500 verdetti, di cui 375 coinvolgono il crimine organizzato, crimini di guerra e corruzione». Ma su 500 verdetti, sostiene Capussela, solo 270 sono penali e nella maggior parte dei casi si tratta di assoluzioni. La portavoce Ue invece sostiene che «i verdetti coinvolgono anche personaggi di alto livello: giudici, funzionari di polizia, parlamentari. Eulex ha incrinato la cultura di impunità che regnava in Kosovo. E ha condotto 438 operazioni per trovare persone scomparse indentificando i resti di 359 individui».

Purtroppo, però, sono pochi i commentatori disposti a difendere l’operato di Eulex. La missione tornerà a casa tra un anno e mezzo e ha già visto una forte riduzione di budget e organico. Difficile che riesca a raggiungere ora quegli obiettivi che non ha raggiunto in 6 anni. «Difendere la missione sostenendo che le difficoltà ambientali erano enormi», conclude Capussela, «ha poco senso: è proprio perché era difficile perseguire i delinquenti in Kosovo che l’Europa ha mandato una sua missione e ha investito così tanti soldi». In Kosovo è mancata la determinazione politica ad agire, forse perché colpire il crimine significa colpire un establishment su cui si regge un’indipendenza appesa con gli spilli, in uno Stato che non è nemmeno riconosciuto da tutti i membri della Ue. Ora i vertici dell’Unione sono cambiati e a capo della diplomazia europea c’è un’italiana – Federica Mogherini – che ha deciso di affidare l’ingrato compito di guidare Eulex a un altro italiano, Gabriele Meucci, già ambasciatore in Montenegro. La sua è una missione kamikaze: pochissime le possibilità di ottenere risultati, altissima la probabilità di caricarsi sulle spalle un bilancio fallimentare. Viva l’Italia.

La vertigine è Interstellar

Ha sbancato i botteghini negli Usa film sci-fiction di Christopher Nolan, Interstellar, e già si profila tra i possibili vincitori della Academy Award. La vicenda è ambientata in un futuro incerto, vicino all’iconografia, che Steinbeck in letteratura e Ford al cinema, ci offrono della grande depressione degli anni 30.

Locandina Interstellar, leftIl pianeta, avvolto da tempeste di sabbia, è in una crisi senza scampo. Un ingegnere, vedovo, ex pilota – a cui Matthew McConaughey tra molte, forse troppe, lacrime, dà grinta western e solidità – vive in questo mondo senza speranza con i suoi due figli, lavorando la terra, e quando la Nasa rediviva gli offre l’incarico di cercare un pianeta abitabile fuori dalla galassia, non può sottrarsi e parte per la salvezza dell’umanità. Si separa dagli affetti familiari con la morte nel cuore e promette alla figlia di tornare. L’obiettivo, in cui sono coinvolte altre spedizioni analoghe, è fuggire dalla terra, reinsediare la specie umana altrove, reinventare un ecosistema sostenibile.

Il nobile traguardo presenta non poche difficoltà: condizioni di volo nella intergalassia, velocità cosmiche, problemi gravitazionali, superamento di un fluttuante pertugio vicino al pianeta Saturno, chiamato wormhole, per entrare nella quarta dimensione, sconfinamenti spazio-temporali, diversità di intenti tra i membri della mission, comunicazione ricezione tra diverse sfere del conoscibile e dell’inconoscibile.

C’è tutta la grammatica della sci-fiction nel film di Nolan e ci sono i temi che gli sono cari dai tempi di Memento: il tempo, come condizione esistenziale e relativismo siderale; la curvatura dello spazio, orizzonte alternativo nella quarta dimensione; l’amore padri figli; gli affetti e le memorie, che compongono la nostra vita; i rapporti umani, che resistono al di là delle barriere del tempo e dello spazio; le emozioni, essenze nodali del nostro essere umani, e ancora i sogni, l’energia che vibra al di là di soglie e delle distanze, lo sprofondamento nell’ignoto.

Interstellar è un coinvolgente spettacolo di entertainment, a cui l’astrofisico Kip Thorne ha dato il suo contributo. E’ sontuoso nelle immagini, elegantemente pop nel mix di riferimenti, incomprensibile nella sceneggiatura, logorroico nei ragionamenti, raffinato nel sound design. Se si riescono a mettere da parte la storia, le derive metafisiche e pseudoscientifiche, il sentimentalismo ricattatorio che vi trapela, e ci si lascia andare al gioco, più si va avanti, più si intravedono le tessere del mosaico: le navicelle spaziali di Star Wars spinte dentro la Morte nera, le intelligenze saettanti di Incontri ravvicinati del terzo tipo, il cyberspazio della fantascienza new age, gli smarrimenti e la fragilità degli eroi di Blade Runner, l’ignoto spazio profondo di Herzog, il terrore della notte senza fine, da cui si staccano limpidi i versi di Dylan Thomas.

Non ci sono i contrappunti visionari di Kubrick, ma gli innamoramenti adolescenziali per i segreti del cosmo. Non c’è l’avventura dell’eroe destinato a una fine tragica e necessaria, ma il nostos, la nostalgia della casa, della famiglia, di un’ America più serena e riconciliata con il mondo, ed estensivamente il rimpianto per una Terra meno incline all’autodistruzione.

Il gigante ungherese

Frenç Platko era nato il 2 dicembre del 1898 a Budapest, seconda città di un impero come l’austro ungarico, secondo soltanto all’immensa Russia degli Zar. Eppure Austria e Ungheria mantenevano ben separati i sovrani, i governi, i parlamenti, gli eserciti e gli stessi nascenti campionati nazionali.

Ferenç Platko esordì nella massima serie magiara nel 1916 tra i pali del Vasas. Aveva 17 anni, capelli biondi, mascella quadrata, collo da pugile e mani che facevano paura. E la paura intanto era passata insieme alla Grande Guerra che aveva segnato la fine dell’unione tra l’impero Asburgico e la Corona di Santo Stefano e determinato un’enorme riduzione territoriale dell’Ungheria la quale, in veste di Paese scatenante il primo conflitto mondiale, non venne ammessa alle Olimpiadi di Anversa del 1920. E fu proprio nel breve periodo della guerra civile, tra terrore rosso prima e terrore bianco poi, che Platko giocò le sue pochissime gare con una Nazionale tenuta ai margini dei palcoscenici di rilievo fino ai successivi Giochi del ’24 di Parigi dove i compagni di etnia ebraica seppero tuttavia ammutinarsi contro una Federazione piena di funzionari incompetenti e fedeli alla politica di discriminazione razziale di Miklòs Horthy, reggente di un Regno fantasma.

Peccato perché il gioco migliore, insieme a quello dell’Uruguay medaglia d’Oro, si vedeva proprio lì nella Mitteleuropa. E non a caso Platko aveva lasciato Budapest nel ’20 soltanto per andare a giocare nella vicina Vienna, dove tutti lo chiamavano Franz, così come accadeva a Praga nell’anno di militanza tra i ranghi dello Sparta. Prima di tornare a casa con l’Mtk, aveva anche passato un’estate in Serbia a fare l’allenatore dei portieri. E tra i portieri d’Europa il più forte era Ricardo Zamora, divenuto celebre proprio alle Olimpiadi di Anversa e messo fuori rosa dal Barcellona per aver osato chiedere l’aumento dell’ingaggio.

E il Barcellona volle sostituire uno come Zamora proprio con il venticinquenne Francisco Platko, la cui fama era giunta fino alla Primera Divisiòn: il circo dorato necessario per tenere in piedi l’agonizzante monarchia di Spagna. Platko vi rimase dal ’23 al ’30 vincendo sette titoli di Catalogna, la prima Liga spagnola della storia del club e tre coppe del Re. L’ultima, quella del ’28, richiese tre gare di finale contro i baschi della Real Sociedad sull’erba dello stadio Sardinero, davanti al mare neutro di Santander.

Durante la prima partita (dopo che il Barcellona subì il pareggio a sette minuti dalla fine) il gigante ungherese evitò il gol della sconfitta strappando la palla dai piedi del centravanti avversario lanciato a rete. Rimediò un calcio sulla fronte e sei punti di sutura, applicati secondo le regole poco estetiche della chirurgia di guerra. La ferita sanguinava ugualmente e il sangue filtrava copioso dalle bende. Eppure Platko tornò in campo a parare colpo su colpo, tiro su tiro e a lottare senza paura con la testa al livello dei piedi nemici ed esposta al fuoco amico dei propri difensori. Finì 1-1, così come la ripetizione giocata sette giorni dopo. Era maggio. A giugno, finalmente, il Barça vinse 3-1 e alzò la coppa.

Il poeta Rafael Alberti alzò la penna e compose un’ode, “Ode a Platko”: un grazie a Carlo Martinelli per averlo ricordato nel suo libro Campo per destinazione. 70 storie dell’altro calcio.

Riccardo Muti al Quirinale? Pazza idea

Metti che una sera mentre viaggi in macchina ascoltando la radio incappi in Giuseppe Cruciani e siccome la serata è delle peggiori, a peggiorare la situazione ci metti Vittorio Sgarbi, ospite de la Zanzara che tra le molte che spara, ne dice una che ti rimane in testa.

Il prossimo presidente della Repubblica? “Io ce l’avrei, Riccardo Muti. Chi meglio di lui? Se Berlusconi fosse intelligente abbastanza, lo capirebbe e si metterebbe d’accordo con Renzi. Ma siccome non lo è – rincara la dose Sgarbi – non lo farà”. Che stupidaggine penso, la solita sparata. Che c’entra Muti con la presidenza della Repubblica? Lui, mitico direttore d’orchestra. Uno dei migliori certamente, ma che ne sa di politica e soprattutto che c’entra con la politica? Siamo alla solita follia.

Poi però una sera a cena ti siedi a tavola, in una di quelle tavole importanti delle cene importanti, dove si parla di quello che gira “in alto” nel Paese. Si passa da Matteo Renzi alla Rai e ad un certo punto uguale. Tutto uguale. Il prossimo presidente della Repubblica? “Vi stupirà, Matteo vi stupirà, ha avuto un vero colpo di fantasia”. E tace. A parlare, convinto e felice, è il più importante a quella tavola, il più dentro, il più “aderente” al potere, quello sempre a fianco di chi vince. L’effetto è voluto: Beh dai, ci lasci così, non ce lo dici? “Ve lo dico ma non ditelo. Riccardo Muti!”. E per la seconda volta penso e, questa volta, dico: Muti? Ma che c’entra? è un magnifico direttore d’orchestra ma con la presidenza della Repubblica… gli riderebbero tutti dietro a Renzi, chi lo accetterebbe mai? “è stupida”, lo ha pensato ne sono certa, ma non lo ha detto. La risposta però è immediata. “Che c’entra??? Chi avrebbe il coraggio di opporsi a tanto orgoglio nazionale? Lui è il vero made in Italy, il meglio che l’Italia ha nel mondo. Suo segretario generale? Gianni Letta”.

La bottiglia di vino è ancora piena, gli occhi sono lucidi, l’espressione galvanizzata. Sicuro? “È fatta, Renzi e Berlusconi hanno già parlato e trovato l’accordo. Muti presidente, Gianni Letta segretario generale. Colpo di genio. Voglio vedere chi dirà no a Riccardo Muti!”.

E Muti ha accettato? “Renzi lo deve incontrare a Firenze tra qualche giorno, ma accetterà vedrai”. Per la seconda volta, nel giro di due giorni, sento la stessa cosa. Uno che la spara alla radio, l’altro che la spara nel salotto buono. “Renzi? – si diverte a tavola – è cattivissimo, di una cattiveria innata. Non gliene frega niente della sinistra, proprio niente. Vuole fare la Democrazia cristiana”. Il partito della Nazione? “Chiamala come ti pare, ma è la Democrazia cristiana! Un bel partitone al centro che ingloba tutto con due piccole appendici a destra e a sinistra. La Pira, Fanfani questo è il suo pantheon. Per il resto, non sa niente di niente”.

La bottiglia si svuota, l’enfasi aumenta. Come non sa niente di niente? “Niente di niente. Ma è un animale politico come non ne vedevo da tempo e questo serve all’Italia”. Che voglia dire non lo so, ma la moraletta a queste cene è d’obbligo, non scappi né controbatti, non sta nel copione della serata. Al massimo puoi annuire con occhio rapito e intuire che la politica è marketing, bellezza! Mi rimane una sola domanda: ma il governo dura? “No. Va alle elezioni tra marzo e maggio. Non la regge questa crisi economica, lo vedi che cominciano a contestarlo?”. Sì, lo vedo. E come le vince le politiche in mezzo al disastro? “Con Maastricht. Il suo cavallo sarà: questa non è l’Europa di Maastricht, questa è l’Europa della Germania. Facciamo la vera Europa. Quella del trattato di Maastricht. E vince”. Già, vince. È contento lui, gli brillano gli occhi. La politica è vincere.

La bottiglia è finita. Sono le serate in cui torni a casa pensando che non torna niente ma poi pensandoci bene, torna tutto. Nell’era della politica leggera e della Moncler, non c’è niente di meglio che la “pazza idea” di fare Riccardo Muti presidente della Repubblica. Pensateci bene, è perfetto. Uno dei migliori brand, forse il migliore, che abbiamo: Cavaliere di Gran croce della Repubblica Italiana, grand’ufficiale della Repubblica federale tedesca, ambasciatore onorario dell’Onu, Ufficiale della Legion d’Onore in Francia, Cavaliere dell’impero britannico e non solo. Tutti, ma proprio tutti, da Putin a Israele fino a Benedetto XVI lo hanno insignito di premi e molte, moltissime università italiane e straniere gli hanno conferito la laurea honoris causa.

Senza contare che Riccardo Muti, italiano di Napoli, ha diretto le più prestigiose orchestre del mondo: dai Berliner Philharmoniker fino ai Wiener Philharmoniker. Ed è un imponente e riconosciuto studioso di Giuseppe Verdi -il più patriota dei patrioti -. Nel 2011, il suo Nabucco – ospite d’onore proprio Napolitano – fu il fiore all’occhiello delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Già imperatore di Ravenna con i suoi concerti “Le vie dell’Amicizia”… voi capite? Altro che Oscar Farinetti e la sua robiolina made in Italy. Qui siamo al top del colpo di genio, quello del “ce lo invidiano tutti”! E la pazza idea non è poi più tanto pazza.

Roma e la sfida del contemporaneo

Con la sua storia millenaria, Roma, diversamente da altre città storiche come Firenze, ha avuto il coraggio di avviare un interessante confronto con l’arte e architettura contemporanea. Sono nati così negli anni scorsi l’Auditorium di Renzo Piano, spazi futuribili come il MAXXI a cui Zaha Hadid ha regalato linee sinuose e seducenti, ma anche il museo Macro ricreato in fiammeggiante chiave post punk da Odile Decq (e oggi tristemente ridotto a location per feste private).

Mentre altri progetti blasonati come la “nuvola” di Fuksas e la città dello sport di Calatrava sono rimasti a metà del guado. Di tutte queste tracce lasciate nella Capitale da archistar internazionali si è detto moltissimo su giornali e pubblicazioni di settore. Molto meno si è parlato invece di progetti di grande qualità architettonica, realizzati da studi forse meno famosi di quelli appena citati, ma veri protagonisti di una lotta silenziosa e quotidiana contro il degrado della Capitale.

Diversamente dai soliti nomi di grido che puntano a lasciare il loro segno inconfondibile qualunque sia il contesto, non inseguono il “sogno prometeico” dell’architetto demiurgo che impone la propria visione. Il loro obiettivo è creare ambienti per il vivere umano, basati su esigenze reali e di bellezza. Così a poco a poco stanno ridisegnando il volto di quartieri trascurati e di luoghi di transito come, ad esempio, quello intorno alla stazione Tiburtina dove sta nascendo La città del sole, con complessi abitativi che evocano palafitte integrate agli spazi pubblici.

Architetti di talento hanno dato una nuova identità a spazi prima anonimi come piazza Rolli e piazza dei Cavalieri in zona Portuense. Hanno recuperato splendide biblioteche nel centro storico come la Hertziana e la Lateranense e hanno valorizzato uno straordinario complesso di epoca romana: i Mercati Traianei. Ma hanno anche costruito scuole innovative, asili in periferia e strutture come il centro culturale Elsa Morante al Laurentino 38.

Certo, si tratta di interventi numericamente limitati. Del resto «gli edifici progettati da architetti sono non più del 2 per cento dell’edilizia globale» annota Carlo Ratti nel suo nuovo libro Architettura open source (Einaudi). Ma come racconta il teorico delle cosiddette “città sensibili” possono essere cellule vitali che aiutano a curare la città dal degrado. Assumendo il valore di progetti pilota, aggiungiamo noi, nella Capitale percorsa oggi da forti tensioni sociali, mentre la politica stenta a trovare risposte adeguate (vedi il pezzo di Paolo Berdini più avanti).

Intorno alla metà degli anni Novanta «Roma è stata per la prima volta oggetto di una serie di interventi riguardanti la progettazione e la riqualificazione di spazi aperti con il Programma Cento Piazze» ricorda l’architetto Paola Del Gallo curatrice di un convegno che si terrà il 5 dicembre alla Casa dell’architettura proprio per discutere della sfida del contemporaneo a Roma.

«Il programma prevedeva interventi che interessavano gli spazi pubblici di tutti i municipi e intendeva recuperare la qualità della vita. La maggior parte di quei luoghi sono stati abbandonati o manomessi», denuncia l’architetto. «Qualcuno dice perché mancano i fondi per la manutenzione, ma questa spiegazione non è convincente». Dove sono finite quelle intenzioni viene oggi da chiedersi non solo vedendo la “trascuratezza” delle piazze ma anche e soprattutto andando in quartieri come Tor Sapienza o Corviale.

«La storia di Tor Sapienza, ora teatro di scontri e proteste, è molto significativa – risponde Del Gallo-. Progettato ex novo negli anni 70 fa parte dei 64 quartieri di Piani di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), interventi di grande impegno finanziario e tecnico per la città. Ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbandono, inefficienza dei servizi, mancanza di veri spazi collettivi, disagio di chi vi abita e che si sente cittadino di terza categoria. Quando invece avrebbe potuto essere un’occasione per disegnare la forma della città moderna. Luoghi così sono drammaticamente insicuri e ostili alla libera e armoniosa espressione della vita di una comunità».

Anche per questo oggi è più che mai urgente riflettere sulle cause di questo fallimento.«Sono pezzi di città nati astrattamente sulla carta – suggerisce Del Gallo -, sono quartieri dormitorio nati con l’idea di soddisfare i soli bisogni primari ma in essi non troviamo alcuna bellezza e qualità urbana. Se vogliamo tornare ad essere una città di accoglienza dobbiamo pensare a come rigenerare tante parti di Roma. Non è presunzione dire che senza una buona architettura ciò non è possibile».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Il jihadista della porta accanto

La ricerca di una ragione di vita. E di morte. Un bisogno di identificazione forte in cui non esistono chiaroscuri ma una netta linea di demarcazione: quella che ti separa dal nemico da annientare. In questa chiave, il credo religioso è un pretesto, uno strumento che serve per creare una unità d’intenti. Ciò che importa davvero è far parte del gruppo. Essere tra i “giustizieri”. Sono i foreign fighters europei, arruolatisi nell’esercito di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato “califfo” dello Stato islamico. La “foto di gruppo” che meglio dà conto di questo percorso di una Jihad 2.0 è quella che immortale i “giustizieri” dell’Isis in piedi con le loro vittime sacrificali, 18 prigionieri siriani, in ginocchio, inebetiti, alla totale mercé dei loro carnefici. Immobili, forse drogati, come lo è stato Peter Kassig, l’operatore umanitario americano decapitato e mostrato in un video agghiacciante.

Tra quei tagliatori di teste c’era, secondo la Procura di Parigi, Michael Dos Santos, un 22enne originario della località di Champigny-sur-Marne, alle porte della capitale francese. Dos Santos (rinominatosi Abou Othman) era noto alla polizia da qualche tempo: il giovane aveva l’abitudine di rivendicare attacchi vari o inneggiare sui social network ad atti di violenza, ma nei suoi post il ribellismo contro l’“ordine costituito” non assumeva i caratteri tradizionali del fondamentalismo, segnalava piuttosto il bisogno di condividere una “missione” che lasciasse il segno. Come quella di realizzare non una “comune” ma una “comunità” superiore.

IL BRIVIDO DEL PERICOLO

Tra quei giustizieri c’è anche un altro francese, con una storia per certi versi ancora più illuminante, e inquietante, di quella di Dos Santos. È Maxime Hauchard, anch’egli 22enne e originario di Rouen. Figlio di normanni, con un’educazione cattolica, Maxime si è convertito a 17 anni all’islam e poi si è radicalizzato, compiendo un primo viaggio in Mauritania, tra l’ottobre 2012 e il maggio 2013, per entrare in contatto con gruppi islamisti locali. Ma ne era tornato deluso per non averli trovati sufficientemente estremisti, hanno spiegato gli inquirenti francesi. Nell’agosto di quest’anno è partito alla volta della Siria, via Istanbul, con sedicenti obiettivi umanitari, ma in realtà per unirsi ai jihadisti dello Stato Islamico.

Casi isolati? Non proprio, visto che il governo socialista di Francois Hollande ha rivelato che, tra i 1.132 francesi coinvolti nella jihad, il 23 per cento non è cresciuto in ambienti musulmani. Riflette in proposito Renzo Guolo, tra i più autorevoli studiosi dell’islam radicale: «Va considerata la storia personale di questi ragazzi. Ciascuno cerca in ideologie totalizzanti, in questo caso l’islam radicale, una sorta di bussola che offre certezze e chiavi di comprensione di un mondo sempre più complesso e che quindi disorienta.

L’islam radicale è una sorta di religione politica che come tutte è in grado di dare agli individui risposte certe, magari anche manichee, alle grandi questioni del mondo e anche ai fatti della vita di tutti i giorni»: Questa dimensione “ribellistica” non è solo un connotato dei foreign fighters made in France. Ciò che emerge dalle storie dei singoli e dai social media che amplificano le gesta dei “combattenti di Allah” venuti dall’Europa, è il tratto comune rappresentato dalla percezione di essere impegnati in un’avventura trascinante, è la convinzione di sapere di essere dalla parte giusta del mondo, di essere tra i “puri”.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Buona parte dei voti perduti dal Pd era in piazza il 25 ottobre

Alla manifestazione della Cgil il 25 ottobre a Roma il pezzo del corteo dell’Emilia era il più numeroso . A migliaia dietro gli striscioni dei metalmeccanici, della funzione pubblica, delle Camere del Lavoro, e tanti giovani e tanti pensionati. E tante belle facce, di quell’Italia che è scomparsa dalle televisioni e dalle sedi dei partiti, ma fa bene al cuore rincontrare nelle piazze, perché è quella che fa andare avanti il Paese, tutti i giorni.

Molti di quelli che vedevi in piazza erano gli stessi che facevano le feste dell’Unità e le campagne elettorali della sinistra. I primi voti che il Partito democratico non ha più ritrovato nelle urne – voti che invece erano arrivati alle Europee – erano probabilmente in quella piazza. Voti di cittadini che non avevano voglia di abbandonare il Pd. Semplicemente hanno preso atto che il Pd, o per lo meno chi lo dirige, ha abbandonato loro. Declassando addirittura, con termini berlusconiani, la loro voglia di partecipare e di lottare per le proprie idee e i propri interessi a una questione di paura del nuovo e di “invidia”. Mettendoli, addirittura, sullo stesso piano della destra, nel vasto fronte che ormai accomuna quanti che non credono alle “magnifiche sorti e progressive” annunciate ogni giorno dal premier.

Parliamo di donne e uomini che rappresentano l’unica speranza che la rabbia sociale – per il lavoro che manca, per lo stipendio che non basta più, per il Paese che va a pezzi – non abbia come unico interlocutore il populismo reazionario di Matteo Salvini. Il loro non voto pone da subito al Pd un problema serio, direi quasi un problema esistenziale. Riaprire seriamente il confronto coi sindacati, prendere sul serio le ragioni di chi manifesta e di chi sciopera, prendere atto che non è riducendo i diritti che aumenta il lavoro. Sono queste le condizioni perché il Pd possa essere ancora pensato e vissuto da quei lavoratori come il loro partito. D’altra parte è proprio la capacità di essere interlocutore credibile del conflitto sociale a distinguere un governo di sinistra da un governo di destra.

Su questa questione di fondo Renzi e i suoi hanno, più o meno elegantemente, glissato. «Ma quanti voti hanno preso quelli che sostenevano la Cgil?», detto di un sindacato che da tanto tempo in Italia ha deciso di non contarsi nelle urne, rompendo le cinghie di trasmissione con i partiti, ricorda un po’ la vecchia domanda di Stalin su quante divisioni ha il Papa, e rivela un’idea delle democrazia maggioritaria che fa un po’ orrore. Ma ancora più irresponsabile è la gioia trionfalistica per la vittoria, «2 a 0 e palla al centro», e quella di mettere tutto l’astensionismo in un calderone: «L’astensionismo riguarda tutti». In una Regione come l’Emilia a dire il vero l’astensionismo riguarda soprattutto chi governa, nella Regione e a Roma. E infatti proprio chi governa cede al non voto, in numeri assoluti, più voti di tutti.

C’è poi chi depotenzia il significato politico di quanto è successo attribuendo tutto alla perdita di credibilità delle Regioni, e agli scandali che hanno colpito gran parte del personale politico regionale, quello del Pd compreso. C’è molta verità in questa affermazione. Ma questo certamente non basta per assolvere chi, nel Pd, ha avuto o ha un ruolo dirigente. E che non ha avviato, né sta avviando, una seria riflessione sul costo enorme delle Regioni, sulla necessità di ridurne il numero, e di moralizzare i comportamenti di un ceto politico che dissipa risorse pubbliche solo per perpetuare se stesso. A volte oltre ogni limite di decenza. Anzi a questo personale politico, sempre più delegittimato, dall’astensionismo e dalla magistratura, viene affidato il compito di formare (senza il voto dei cittadini) il nuovo Senato.

Certo che ha pesato sul non voto la questione morale. Rispetto alla quale non basta riaffermare la fiducia nella magistratura, perché i cittadini si accorgeranno che si sta facendo qualcosa su questo terreno quando i partiti cominceranno ad arrivare prima. E denunceranno gli abusi ed espelleranno i corrotti. È incredibile che un personaggio come Marco Di Stefano, indipendentemente dalla sua responsabilità penale da accertare, abbia potuto fare quanto sta emergendo senza che nessuno nel Pd se ne sia accorto. Del resto Di Stefano, per il suo passato politico, è un esempio significativo di cosa può significare lo sfondamento a destra del Pd, che tipo di personale politico si imbarca.

Ai reati è giusto ci pensi la magistratura, ma alle pratiche clientelari in politica, all’opacità nella pratica amministrativa, devono pensarci i partiti. Soprattutto quelli di sinistra devono esserne capaci. Anche rinunciando a quel qualche migliaio di voti. Voti che, portati da personaggi di questo tipo, hanno determinato, nell’ultima tornata congressuale, il cambiamento di verso del Pd.

Partito della nazione, ma la nazione dov’è?

«Il signor Renzi vuole fare il partito della nazione? Prima pensi a unirla, la nazione, perché adesso è spaccata». Parla della frattura tra Nord e Sud dell’Italia, Ermanno Rea, e parla anche del presidente del Consiglio e del suo programma di «unanimismo elettorale» che però, avverte lo scrittore, non serve al Paese. Anzi, potrebbe renderlo ancora più immobile: un’altra occasione persa dopo 150 anni di unità rimasta sulla carta. E le ricette del presidente del Consiglio, a proposito di integrazione nazionale, continua Rea, non portano nulla di nuovo rispetto ai suoi predecessori Berlusconi, Monti e Letta.

Abbiamo incontrato lo scrittore napoletano nei giorni in cui lo scontro tra sindacati e premier aveva raggiunto una durezza mai vista finora a sinistra. Anche se già in precedenza Renzi non aveva risparmiato – talvolta con uscite non propriamente tenere – chi all’interno del Pd aveva mostrato di avere un pensiero diverso dal suo. Insomma, quella del premier – per iperbole, certo – potrebbe sembrare una gestione del potere che richiama la «polverizzazione di ogni forma di dissenso» come scrive Ermanno Rea in Mistero napoletano (Einaudi) la storia di una donna comunista, allo stesso tempo utopista e ribelle, schiacciata dall’ortodossia comunista nella Napoli degli anni Cinquanta.

Durante l’incontro con Rea nella sua bella casa romana popolata di libri e fotografie («scattate con la Leica») verrebbe quasi da azzardare una domanda su un eventuale, ipotetico parallelismo tra i due partiti e i due leader. «Ma quelli di Togliatti e Renzi sono due mondi diversi!» esclama sorridendo questo elegante signore di 87 anni dalla barba candida e dagli occhi chiarissimi. Giornalista de l’Unità negli anni Cinquanta – quando dominava la figura di Giorgio Amendola, il “maestro” del presidente Napolitano – Rea ha vissuto in prima persona quel clima politico di controllo e di sospetto che si insinuava lentamente nelle vite delle persone, fino a distruggerle. Accadde alla Francesca di Mistero napoletano, così come al personaggio dell’ultimo libro Il caso Piegari (Feltrinelli) fatto impazzire dal comunismo allora imperante sotto il Vesuvio.

Ritorna poi lo scrittore sul confronto tra passato e presente: «Io non sono un difensore a oltranza di Togliatti ma devo dire che era di una cultura sterminata, di una raffinatezza… Renzi, invece, nella sua aggressività rivela una rozzezza di fondo, percepisce come un primitivo che il proprio successo sta lì e cerca di cavalcarlo nel modo più spregiudicato». Ma un parallelismo tra la politica di ieri e quella di oggi, utile a comprendere la crisi attuale, invece è evidente e drammatico allo stesso tempo. «La questione meridionale», afferma convinto lo scrittore.

Ermanno Rea, nel suo ultimo libro Il caso Piegari quando parla di «attualità di una sconfitta» si riferisce alla questione meridionale?

Sì, è proprio la questione meridionale che può essere affrontata solo come questione nazionale. È questa l’attualità della storia che racconto nel libro. A Napoli negli anni Cinquanta c’era un medico di grandissimo talento, Guido Piegari, uno scienziato che aveva una cultura storica gigantesca e che gestiva il gruppo Gramsci, molto importante in città in quegli anni. Lui dissente da Giorgio Amendola (responsabile della Commissione meridionale del Pci, ndr), critica la sua visione del meridionalismo e giudica il dirigente comunista uno che non promuove una politica a favore dell’integrazione nazionale, gramscianamente intesa nell’incontro della classe operaia del Nord con i contadini del Sud. Piegari viene espulso dal Pci. Come sempre, mettendo in moto una macchina del fango – si dice che è mezzo pazzo – e provocando in lui anche un disastro psicologico. Come il mio amico Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici, che faceva parte del gruppo Gramsci, io opto per la visione proposta da Guido Piegari che affermava la necessità dell’integrazione nazionale.

Veniamo all’oggi: quali sono le conseguenze della mancata integrazione tra Nord e Sud?

I dati dell’ultimo rapporto Svimez parlano chiaro, addirittura si denuncia il rischio di desertificazione per il Sud. Io sono convinto che l’Italia non sarà in grado di uscire dal suo baratro fino a quando non realizzerà una unità nazionale. Se uno oggi mi dovesse chiedere qual è la malattia del Paese, la mia risposta convinta sarebbe questa: un’infezione profonda e lontana mai sanata che si è sempre più aggravata, la frattura tra Nord e Sud. Adesso perdiamo tutti: anche il ricco Nord è in crisi, e le periferie scoppiano là non meno che a Roma o Napoli. Com’è possibile che l’Italia, in una situazione di questo genere, possa riuscire a trovare una sua credibilità anche internazionale e una sua capacità di rigenerarsi? Tornando a ciò che racconto nel libro, esiste una responsabilità comunista? Su questo sono cauto, il Pci ha avuto tanti torti ma anche tanti meriti. Io sostengo solo che non si è mai voluto rivedere autocriticamente la vicenda della questione meridionale e riuscire a separare, come si suol dire, il bambino dall’acqua sporca.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Carlo Lucarelli e l’elettore scomparso

Chi ha rapito gli elettori? Sembra il titolo di un romanzo giallo. Invece è la domanda su cui da giorni si arrovellano politologi e commentatori. L’astensionismo record registrato alle Regionali ha spiazzato tutti. Mentre gli analisti tradizionali annaspano, noi proviamo a “risolvere il caso” con l’aiuto di un esperto del noir: Carlo Lucarelli, scrittore, conduttore televisivo e giornalista.

Lucarelli, visto che lei è emiliano la prima domanda è d’obbligo: il 23 novembre è andato al seggio?

Sì, ma all’ultimo momento, me ne stavo dimenticando.

Scherza?

No, è vero. Mi era passato di mente. Finché non è venuto a casa mio fratello a dirmi: “Io sto andando a votare”. Eppure mi ritengo un elettore di fascia media, medio-alta, per quanto riguarda la sensibilità civile: abbastanza informato e impegnato. Ho sempre votato centrosinistra – più di sinistra che di centro – ma credo di appartenere “culturalmente” a quella fascia di persone che non sono andate alle urne.

Scusi, ma come è possibile che uno come lei si dimentichi delle elezioni?

Per tanti motivi. Innanzi tutto perché credo di subire la stessa stanchezza – che chiede una risposta – di gran parte dei votanti italiani, soprattutto del centrosinistra. E poi perché si è parlato poco di elezioni in questi mesi, soprattutto a causa degli scandali sulle spese pazze con tanto di indagini e avvisi di garanzia che hanno coinvolto la Regione. In questo clima nessuno ha avuto il coraggio di dire: “Abbiamo un grande progetto, eccolo qua”. Non c’era. E questo rende l’elettore tiepido. Tanto che me ne stavo dimenticando. Credo sia un fenomeno simile a ciò che è successo nel calcio: si son persi un sacco di tifosi stufi di sentir parlare di doping, scommesse e violenze. Che palle!

Quindi abbiamo già trovato il colpevole del rapimento, gli scandali regionali?

No. Altrimenti non saremmo andati a votare in così pochi. Perché qui le elezioni locali non si disertano mai. L’astensionismo è figlio di una stanchezza più generale, che non riguarda neanche semplicemente il governo o Matteo Renzi. Riguarda il Pd, che non ha un progetto da molto tempo. Non c’è una narrazione, per citare Vendola, in cui si manifesta un sogno collettivo.

Lei è un elettore di sinistra, posso chiederle per chi ha votato?

Per il Pd.

Nonostante tutto?

Sì, non avrei potuto votare per nessuno degli altri candidati. Forse neanche per quelli di sinistra, visto che ci troviamo ancora incastrati nella logica del voto utile, di fronte alla Lega che cresce grazie a ciò che noi non facciamo.

Matteo Renzi invece si presenta come uomo del fare, dice di voler portare il Paese verso il futuro. La convince?

Sono abbastanza ambivalente da questo punto di vista. La prospettiva non mi piace. Però non saprei come altro fare.

Anche lei crede che il presidente del Consiglio sia l’ultima spiaggia per l’Italia?

Sì, un po’ sì. Però – a parte le urgenze e le falle da coprire subito – mi aspetto una persona che venga dirmi qual è il suo sogno per il Paese. Magari sono io che me lo sono perso, o me l’hanno detto e non l’ho capito. Intanto mi stavo scordando di andare a votare…

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014

Ttip: multinazionali contro Stati

Robert Reich, ministro del lavoro di Clinton, nel suo libro Supercapitalismo sostiene che le Corporations non dovrebbero avere maggiore libertà di parola o maggiori diritti di qualsiasi altro pezzo di carta su cui sono scritti dei contratti: la politica deve dunque limitarne il potere e non farsi portatrice dei loro interessi.

Il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) tra Europa e Usa costituisce la massima espressione del principio opposto: sia per la segretezza con cui finora è stato discusso, sia per la presenza nel processo negoziale dei rappresentanti delle grandi imprese, sia infine per i contenuti proposti. Il Trattato, infatti, non intende ridurre barriere tariffarie ormai insignificanti, ma attacca quelle che sono definite “barriere non tariffarie”, cioè le norme che regolano settori quali l’alimentazione e la tutela dei consumatori in genere, i servizi, la cultura, l’energia, l’ambiente, la finanza, gli investimenti, ecc.

Queste norme dovrebbero essere “armonizzate” al fine di evitare la formazione di vantaggi competitivi per questa o quell’impresa: la loro definizione sarebbe così sottratta ai parlamenti nazionali e allo stesso parlamento europeo.

Due questioni di fondo vanno sottolineate. La prima è il carattere irreversibile del Ttip; una volta approvato, infatti, può essere modificato solo all’unanimità dei contraenti. Il secondo è la possibilità che il Ttip offre alle imprese di citare in giudizio Stati o organizzazioni territoriali che non dovessero rispettarlo. In realtà già oggi l’Organizzazione mondiale per il commercio può condannare uno Stato che vìoli le regole danneggiando un altro Stato. Domani potrebbe essere una multinazionale a citare in giudizio uno Stato europeo o un qualsiasi ente territoriale che legiferi in contrasto con i suoi interessi.

Le Compagnie delle Indie nel ’600, grazie al commercio, alla pirateria e alla tratta degli schiavi avevano maturato una potenza economica e militare superiore a quella di molti Stati. La Compagnia Olandese vinse una guerra contro il Portogallo per il controllo delle coste del Brasile. La stucchevole retorica del mercato nasconde che, per certi versi, siamo tornati a quei tempi: i grandi interessi economici e finanziari stanno conducendo la loro guerra contro la sovranità statale in quanto fonte del diritto e dei principi della democrazia. Privatizzazioni, finanziarizzazione dell’economia, riduzione delle tutele sui luoghi di lavoro, Ttip, costituiscono i diversi fronti di uno scontro il cui esito sarà decisivo per la sorte di alcune conquiste basilari del nostro vivere civile.