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Quando l’amore non è amore. Analisi e proposte contro la violenza sulle donne

La Convenzione di Istanbul è entrata in vigore dal 1° agosto ma il Parlamento per il momento non riesce a varare provvedimenti che ne recepiscano i principi. Che riguardano, ricordiamo, piani di azione per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne. Da un anno e mezzo infatti giace a Montecitorio un disegno di legge firmato dalla deputata di Sel Celeste Costantino (come si può leggere su left da oggi in edicola). Intanto, i centri antiviolenza – creati nella stragrande maggioranza dei casi da reti di donne sui territori – lamentano scarsità di risorse, mentre il ministero delle Pari Opportunità ormai è un ricordo, visto che la delega è della Presidenza del Consiglio dei ministri (solo a ottobre Renzi l’ha affidata alla deputata Giovanna Martelli).

Se sulla prevenzione nei confronti dei pregiudizi e della violenza contro le donne le istituzioni arrancano, dal mondo delle associazioni invece arrivano proposte e analisi approfondite, come a segnalare, ancora una volta, quanto la società sia molto più avanti della politica nel comprendere l’urgenza di problemi che minano il tessuto stesso della convivenza sociale.

Una prova di questa attenzione “dal basso” lo si è visto nell’incontro “Quando l’amore… non è amore”  promosso venerdì 5 dicembre a Roma presso l’Università degli Studi Roma Tre dall’Associazione culturale Amore e psiche (in collaborazione con daSud, “La scuola che verrà” e reteCinEst). Psichiatri, insegnanti, ginecologi, antropologi, operatori culturali, giornalisti e anche amministratori pubblici si sono confrontati  per fare il punto su quanto si può fare per contrastare una pseudocultura alimentata da una storia secolare. Tremila anni di negazione della donna, a partire da Platone passando per Paolo di Tarso fino ad arrivare ai media e al dilagare dell’ informazione “fai da te” sulla rete. Anche la stessa Rivoluzione Francese, come ha ricordato nella sua introduzione la psichiatra Irene Calesini, ha escluso le donne dal concetto di uguaglianza, mandando perfino al patibolo anche l’eroina dei diritti paritari, Olimpia De Gouges.

E’ sulle basi culturali, sulle false informazioni, sulle credenze che bisogna lavorare per tutelare l’immagine e l’identità della donna. Che significa anche e soprattutto favorire rapporti “sani” tra i sessi e quindi benefici per tutti i cittadini. Come amava sostenere Teresa Mattei, tra gli autori della Costituzione, la parità tra uomini e donne fa bene a tutta la società.

“La prevenzione migliore è la conoscenza”, ha detto durante l’incontro la ginecologa Anna Pompili, impegnata da anni in una battaglia per l’informazione sulla contraccezione e contro l’obiezione di coscienza. Nel Lazio il 90 per cento dei ginecologi sono obiettori e le liste d’attesa per l’interruzione volontaria di gravidanza sono lunghissime. Salute psichica e fisica delle donne bistrattata, quindi, come ha raccontato Oria Gargano presidente della cooperativa Be Free che ha uno sportello aperto “donna aiuta donna” 24 ore su 24 all’ospedale San Camillo. Facendo notare come in questi ultimi vent’anni  sia peggiorata la percezione della donna, Gargano ha anche fornito dei numeri significativi: “Il costo sociale della violenza sulle donne ammonta a 17 milioni di euro. I finanziamenti dello Stato a 6 milioni”.

Ma se la proposta di legge di Celeste Costantino, presente anche lei al convegno, è ancora in alto mare, una buona notizia comunque arriva dalle istituzioni. Il Lazio, dal marzo scorso, è l’unica regione in Italia ad avere una legge per contrastare la discriminazione di genere. Ne ha parlato Marta Bonafoni (“Lista per il Lazio”) che ha spiegato come l’iniziativa sia nata da un contatto diretto con i cittadini: “in nove mesi, 100 audizioni”. Adesso la speranza è che sia “uno strumento di formazione culturale”, ha detto la consigliera regionale. Formazione che passa anche attraverso i media, anche se nelle redazioni gli ostacoli sono sempre dietro l’angolo, come ha raccontato Adriana Pannitteri, giornalista del Tg 1 che cura anche dei corsi di aggiornamento sul linguaggio giornalistico.

Per intaccare il pensiero distorto sulla donna – ma anche della donna stessa quando non “vede” la violenza dell’altro –  occorre analizzare e approfondire l’idea stessa di sessualità. E’ questo il primo passo per portare quei “cambiamenti socio-culturali” di cui parla l’articolo 14 della Convenzione di Istanbul.

E’ quello che hanno proposto gli psichiatri intervenuti al convegno. Come, tra gli altri, Francesca Fagioli, della Uoc Roma E, un servizio che prevede la  prevenzione del disagio nelle scuole. Nel momento in cui i media, la pubblicità, e ahimé anche la politica (basti ricordare le vicende di Berlusconi, le olgettine e il caso Ruby), fanno passare un concetto di sessualità intesa come “scarica” o pura prestazione fisica – con tutto quel che ne consegue per l’immaginario degli adolescenti -, la psicoterapeuta ne ha messo in evidenza invece il legame con la realtà non cosciente che affonda le sue origini nel primo anno di vita del bambino. E in questo senso il rapporto con l’altro diverso da sé, nutrendosi di fantasia,  è ben lungi dall’essere violento.

“Propongo di considerare la sessualità come conoscenza”, ha poi concluso Giovanni Del Missier della Cooperativa sociale di Psicoterapia medica dopo un intervento in cui ha toccato il rapporto tra cultura e malattia che sta alla base dei femminicidi. Un termine, femminicidio, introdotto nel linguaggio corrente spazzando via termini fuorvianti come “delitto passionale” o “raptus di gelosia”, ma che però, secondo lo psichiatra, è riduttivo. Perché si limiterebbe a considerare la donna come “femmina” e quindi solo dal punto di vista della natura fisica, ricreando quindi una nuova “gabbia” culturale.

Margherita Vicario e la musica in mezzo

I suoi amici la chiamano Gaberina (piccola Gaber), lei è un fenomeno. Compone, suona, canta, racconta, recita. Guardarla è uno spettacolo. è forte, ironica, a tratti anche buffa. Ma soprattutto è brava. Margherita Vicario, attrice e cantautrice ha una voce decisa, bella, passa dal rock allo swing, dal pop orchestrale al folk con grande leggerezza. E finalmente esce il suo concept album, Minimal musical. Nove storie e una protagonista, una giovane donna e le sue vicende socialsentimentali.

Minimal musical è un concept album di 9 canzoni scritte da te. Cos’è un “concept album”?

È un susseguirsi di canzoni che però sono legate tra loro da qualcosa. Sono riconducibili a un unico tema. Nel mio caso c’è una ragazza e le cose che le accadono, dall’inizio alla fine, in senso cronologico. Questo lo rende un concept album.

E cos’è un Minimal musical? Tu dici: nove canzoni, nove stanze, nove storie. Ci spieghi come è nata l’idea?

In realtà è un neologismo. A me piacciono molto i musical ma in Italia non ne abbiamo molti, nel senso che li importiamo, li copiamo. e allora mi piaceva l’idea di riuscire a “mettere in scena” queste canzoni, in modo così “minimal”, senza grandi allestimenti. Le stesse canzoni sono arrangiate bene ma al minimo, non c’è un’orchestra. è un po’ una mia dichiarazione d’intenti.

Chi sono i tuoi compagni di viaggio? Come li hai incontrati?

Dopo due anni in cui ho scritto canzoni, tentando di fare un disco e incontrando molte persone dalle quali però mi sono sempre separata, nel 2011 mi sono imbattuta in Roberto Angelini che è un professionista, un musicista, un cantautore. Dal punto di vista musicale è una delle persone più complete che ci sia in Italia. Lui mi ha portato al Valle occupato dove mi sono esibita per la prima volta dal vivo proprio nel 2011. Da allora mi segue dal punto di vista produttivo e mi consiglia. Mi disse subito, fai tante date live. E io l’ho fatto.

Ognuna delle nove canzoni racchiude dentro di sé una piccola sceneggiatura, brevi storie, episodi che rappresenti. Un po’ le canti e un po’ le racconti, quanta fusione c’è tra i tuoi due mestieri, quello di attrice e quello di cantautrice?

Tanta, ed è un’esigenza. Nei miei tre anni di Accademia d’arte drammatica , ricordo che ogni volta che mi chiedevano di produrre qualcosa, non so… mi dicevano “per domani portami quella scena di Macbeth”, io ci mettevo sempre in mezzo la musica perché mi sembrava che musicandola con la chitarra, la scena acquisisse valore. Costruivo sempre una colonna sonora. In effetti, sono le due cose fuse insieme, è bello fare l’attrice ed è bello fare la cantautrice. Non riuscirei ad abbandonare nessuna delle due.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Polvere di stelle

«La democrazia può partire solo dal basso. Il nuovo Rinascimento avrà origine nei Comuni». È il 10 febbraio 2008 e con queste parole Beppe Grillo annuncia la “discesa in campo” del suo Movimento in occasione delle Amministrative di aprile.

Il governo Prodi è caduto da solo un mese e il comico genovese lancia sul Blog il Comunicato politico numero 1 contro un sistema elettorale che impedisce al cittadino «di scegliere i propri rappresentanti». Da allora il mondo è cambiato, soprattutto quello pentastellato: il Movimento è cresciuto, fino a diventare la prima forza politica del Paese, e il vigore di quelle parole si è perso un po’ per strada.

I Comuni non sono più al centro del progetto grilliano, anzi, gli amministratori locali come Federico Pizzarotti e Filippo Nogarin sono costantemente guardati con sospetto dallo Staff e persino le “cariche” interne del partito vengono scelte con liste bloccate. Un paradosso per chi ha fatto della battaglia contro il Porcellum un punto fermo della sua visione politica. Il Movimento orizzontale e dal basso è morto. E non solo perché Beppe Grillo ,“non leader” solo al comando ha nominato un misterioso direttorio di cinque colonnelli per gestire un esercito in rotta, ma soprattutto perché la Rete, il cuore del grillismo non ha più alcuna voce in capitolo.

Gruppi dirigenti, alleanze in Europa ed espulsioni non possono essere discussi dagli iscritti. Le decisioni già prese si votano solo a pacchetti: prendere o lasciare. Un metodo facilitato dalla nebulosità di un “non statuto” che nella pratica si trasforma in arbitrio del capo. Che può decidere persino di scavalcare i regolamenti interni del gruppo parlamentare e consultare direttamente il web. Per capire se son caduti in disgrazia, ai cittadini eletti non resta che consultare il sito della Casaleggio associati al mattino e vedere se qualcuno li prende di mira con un post anonimo. Risultato: i militanti disertano il Blog e gli elettori abbandonano il Movimento 5 stelle. Come è successo alle Regionali del 23 novembre, quando le urne hanno sentenziato: il 13,3 per cento in Emilia Romagna e un risicato 4,9 in Calabria.

Il Movimento 5 stelle è imploso. E non sarà più quello di prima. «Per questo motivo ho deciso, in maniera provocatoria, di andare in tv nonostante il divieto dello Staff», dice Sebastiano Barbanti, deputato pentastellato calabrese, finito all’improvviso nella lista dei possibili “espellendi” per la storia della mancata rendicontazione. «Credevo che, soprattutto dopo le elezioni, bisognasse farsi vedere davanti agli elettori, dare spiegazioni. Dobbiamo fare autocritica. Questi test ti fanno capire che qualcosa non va. Dobbiamo fare un’analisi della situazione, capire gli errori e risolverli». E in Calabria, secondo Barbanti, gli errori hanno un nome e un cognome: l’onorevole Nicola Morra. «Io sono stato messo da parte sulla gestione della campagna elettorale, ha gestito tutto lui insieme a Dalila Nesci», dice il deputato. «È ovvio però che dopo i risultati qualcuno dovrà assumersi un pelino le proprie responsabilità. Io non ho rapporti con lo Staff, Morra sì. Il problema è il modo in cui ha gestito la campagna: con i meet up abbandonati e con esperienze spiacevoli di diffide sul territorio».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Dario Fo: Beppe linciato dai briganti del pd

E’ amareggiato Dario Fo, ma non scarica Beppe Grillo. In un momento in cui nessuno difende più il leader Cinque stelle, e persino Marco Travaglio parla ormai di «suicidio di massa», il Premio Nobel lo assolve: «L’hanno messo in un angolo. Come si muove, lo schiacciano». E punta il dito contro il Pd di Matteo Renzi: «Non è più un partito, ma una banda al servizio dei briganti». Di fronte a un premier che «ci porta tutti in malora», Fo non intende mettersi «a far le pulci» a Grillo. Anche se ribadisce la sua contrarietà alle sbandate a destra del Movimento. L’abbiamo sentito in serata, dopo le prove di uno spettacolo. Parte stanco, con la voce bassa, ma si infervora subito: «Mi fai sgolare», si sfoga alla fine dell’intervista.

Lei è stato un sostenitore della prima ora dei 5 stelle. Li difende ancora?

Li hanno incastrati, li hanno messi in un angolo. I Cinque stelle devono inventarsi un modo legale ma molto vivace di contrastare questa situazione difficile. Di là ci sono dei gangster.

Sono entrati in Parlamento con un consenso enorme, ma non hanno cambiato niente. Tutta colpa degli altri?

Il Pd gli ha fatto terra bruciata attorno. Ha fatto credere all’opinione pubblica che Renzi volesse assolutamente avere un contatto con i Cinque stelle e che siano stati loro a dire di no. Invece il toscano li vuole adoperare. Nello stesso momento in cui intrallazza di nascosto con Berlusconi sarebbe pronto a fare un patto con i Cinque stelle? Ma chi ci crede? È un po’ il gioco delle quattro sedie: chi rimane in piedi, balla. Li hanno sempre lasciati in piedi fingendo di volerli farli sedere. Ma è una frottola. Hanno giocato bene. D’altra parte è la loro tecnica: basta vedere come si sono comportati con Enrico Letta. Renzi gli ha detto “stai tranquillo”. E tre giorni dopo lo fregava. Lui è così. Dice: vedrete, faremo. Il “faremo faremo” è peggio della canzonetta che catava Berlusconi, perché questi sono peggiori. Non hanno messo in pratica nulla del loro programma e delle loro promesse. Non hanno toccato i vantaggi di Berlusconi. Hanno lasciato tutto com’era. Anche la legge elettorale è ancora lì.

Neanche il Pd di Bersani voleva davvero allearsi con i Cinque stelle?

Era tutto falso, una danza da clown. Bersani l’ha anche detto: non ho mai pensato un attimo di unirmi con i Cinque stelle. Cosa può fare Grillo dal momento che gli altri lo vogliono soltanto vedere morto? Non vogliono che il movimento respiri, vogliono lasciarlo a bagnomaria in modo che si sciolga da solo. È il loro programma. Di tutti: della destra e di quella che si fa passare per sinistra. Invece è l’unico movimento che certe volte fa delle cose che promette.

Ad esempio?

Ad esempio prendere la propria paga e dimezzarla a vantaggio delle piccole e medie imprese. Hanno versato molti milioni di euro. Nessuno lo ricorda mai. Tanto è vero che quelli che se ne vanno si lamentano di non aver fatto in tempo a non pagare. Però dal mese successivo non devono versarli più.

Ormai è evidente che i Cinque stelle non convincono più nemmeno i loro elettori. Alle ultime regionali hanno perso migliaia di voti.

È un momento molto difficile. Bisogna sempre partire dal gioco che fanno gli altri, quelli che hanno il potere. Sono spietati. Con Berlusconi, Renzi e i suoi stanno facendo un gioco spudorato. Evidentemente sono al servizio dei banditi, dei briganti. Appena finita la buriana, sono già d’accordo per salvare Berlusconi. Anzi, l’hanno già salvato. Il Movimento oggi non può fare niente, a meno che non si inventi una forma nuova, diversa. Come si muove, lo schiacciano. Parliamo di cosa fa il toscano.

Grillo però si sta spostando sempre più a destra…

Io ho polemizzato con questa tendenza. Ho scritto anche un libro. Non sono assolutamente d’accordo con l’atteggiamento di Grillo a proposito degli stranieri che vengono in Italia. L’ho già detto due anni fa, l’anno scorso e lo continuo a dire. Tant’è che la base si è espressa: non vogliamo fare il gioco della destra. I gruppi non erano assolutamente d’accordo nello scimmiottare il movimento di Bossi sugli immigrati.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Claudio Riccio: Serve una sinistra nuova

In politica le “nuove leve” stanno invecchiando dietro le quinte. O almeno succede in Italia. La sinistra guarda all’Europa con stupore e si prepara a una nuova stagione di chiamate all’unità.

Per il momento se ne contano già tre: il soggetto unitario già lanciato da L’Altra Europa con Tsipras, la Sinistra possibile del “dissidente” democratico Pippo Civati (il 13 dicembre a Bologna) e per finire Human factor annunciata d’emblée dal segretario di Sel, Nichi Vendola (per gennaio).

Intanto le piazze si riempiono: dopo gli scioperi del 25 ottobre (Cgil) e 14 novembre (lo sciopero sociale), si attende il 12 dicembre a Roma. E il vuoto di rappresentanza cresce. Più di un Paese europeo ha imboccato la via d’uscita a sinistra: Grecia, Slovenia, anche la Spagna affida a Podemos e al 36enne Pablo Iglesias le sue speranze di cambiamento. La sinistra antiausterità incassa consensi e riconoscimenti. Da ultimo quello, inaspettato, della rivista britannica Financial Times – che non è certo la Pravda: «I partiti dell’estrema sinistra sono i soli che sostengono politiche sensate come la ristrutturazione del debito e la necessità di investimenti pubblici», ha scritto l’editorialista Wolfgang Münchau. «La crescita di Podemos mostra che c’è la richiesta di una politica alternativa». Ma, allora, perché in Italia la sinistra stenta a spiccare il volo?

Lo abbiamo chiesto a Claudio Riccio, portavoce di Act!, «il movimento di idee e azione che si pone l’obiettivo di costruire una nuova sinistra in grado di cambiare davvero il nostro Paese, l’Europa e le vite di milioni di giovani precari e disoccupati», spiega.

Sa di somigliare tanto a Pablo Iglesias? Però il suo movimento, Act! – in molte cose simile a Podemos – non ha il 27,7 per cento dei consensi…

Sai che questi discorsi mi intimidiscono. Non è la singola persona che fa la differenza, né semplicemente una rete di attivisti del movimento a farlo. È una questione di contesto politico, di capacità di attivare le energie, il tempo dei singoli salvatori della patria o delle avanguardie è finito, serve invece un processo basso e popolare. L’Italia ha avuto un contesto politico di movimento molto differente da quello spagnolo.

Cioè?

In Spagna il movimento è stato largo e popolare, attraverso l’occupazione delle piazze e le assemblee permanenti, ha portato a una politicizzazione della società. Negli ultimi anni in Italia invece c’è stata una spoliticizzazione della società. Eppure il nostro Paese è stato a lungo, fino al 2011, il più conflittuale d’Europa, qui c’era il più alto grado di conflitto sociale non solo in termini di opposizione al governo Berlusconi, ma anche in termini di capacità, in particolare, delle giovani generazioni di mobilitare migliaia di persone in tutto il Paese.

E, poi, cos’è successo?

Che mentre in Spagna l’indignazione è stata rivolta verso i banqueros, le banche e la finanza speculativa – e cioè le vere cause della crisi – in Italia questa indignazione si è rivolta verso “la casta”. Un nemico parziale: la battaglia contro la casta non porta certo alla risoluzione del problema.

Però ha portato il Movimento 5 stelle al 26 per cento e passa.

Molti sostengono che il Movimento 5 stelle abbia desertificato la sinistra. Io non credo sia così: il M5s è cresciuto nel deserto della sinistra, raccogliendo elementi, istanze, parole d’ordine e anche tanti attivisti che vengono dai movimenti sociali e di lotta. Poi, però, se si raccoglie un forte consenso intorno a una domanda di cambiamento radicale e la si cuce solo per raccogliere altro consenso, si finisce per scadere nel razzismo, nell’intolleranza. Si finisce ad assecondare ogni umore della gente. Si tradiscono una missione e una potenzialità, per ripiegare sul politicismo e sul tatticismo.

Tolto l’alibi del M5s, come si spiegano allora le débâcle finora collezionate a sinistra?

Non so se il M5s sia morto o meno, so però che ha rivelato ancora una volta l’esigenza di costruire una sinistra nuova, all’altezza delle sue sfide. Gli ostacoli sono numerosi, tra questi il fatto che il campo della sinistra è consumato da anni se non decenni di errori e rancori. Errori: perché sono state condotte scelte sbagliate sia da un punto di vista tattico che politico. Rancori: i gruppi dirigenti della sinistra, o coloro che si ritengono tali, hanno un tasso di conflittualità interna che credo costituisca una parte del problema. E soprattutto diventa un “tappo” che impedisce la partecipazione.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Muti al Quirinale, pazza idea… mica tanto

Non era poi così pazza l’idea. Ci era sembrata una cena strana, ma la bottiglia era piena e il nostro commensale ci guardava lucido. Il fatto quotidiano conferma e martedì scorso titola «Riccardo Muti al Quirinale. Renzi l’ha chiesto a mio padre», e virgoletta le dichiarazioni del figlio Domenico. Ne hanno addirittura parlato in famiglia i Muti, racconta il terzogenito. «Che dite, accetto? Mi ha chiamato Matteo…», ve lo immaginate il Maestro Muti mentre tra un passatello della domenica e un buon Sangiovese chiacchiera coi figli del suo nuovo incarico? Io sì. Sicumera, ironia, grande narcisismo. Lo merito. Avrà pensato per tutto il tempo.

E a Matteo Renzi che gli è preso? Chiama tutti in questo periodo… da Artini a Muti, si muove veloce alla ricerca di un domani. Poi la smentita. Velocissima anche quella. La prima delle molte che seguiranno. Mai sentito Muti, mai fatto questa proposta. «Non c’è nulla di vero, sono notizie strabilianti», scrive in una nota ufficiale Palazzo Chigi lo stesso giorno.

Ma #Matteostaisereno, l’idea non solo non è pazza ma è vecchia! La cosa buffa infatti è che a quel domani, con Muti presidente, aveva già pensato qualcuno. Basta googlare qua e là per scoprire che all’inizio del 2013 un corpulento avvocato catanese, Giuseppe Lipera, insieme al musicista Fabio Raciti, si mise alla testa del “Comitato promotore Riccardo Muti presidente della Repubblica italiana”, con tanto di banchetto per raccolta firme e andò in piazza a Catania più di un anno fa dichiarando: «Siamo in guerra e io penso che con una personalità come quella di Riccardo Muti, che ce la invidiano tutti, la guerra la vinciamo noi. Con la sua bravura, l’intelligenza e la sua immagine nel mondo io penso che lui sappia dirigere questa orchestra stonata che c’è in questo momento in Italia».

E già all’epoca, da Chicago, il Maestro Muti aveva inviato una lettera nella quale si dichiarava onorato e compiaciuto per l’iniziativa.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Orfani di Obama

Le strade americane sono nere, eppure il Senato di Washington non è mai stato così bianco. Con l’assassinio del 18enne afroamericano Michael Brown nella città di Ferguson da parte di un poliziotto già scagionato gli Stati Uniti hanno scoperto di non essere un Paese entrato nell’era post razziale come vorrebbe Obama. Non è bastato un presidente afroamericano per conquistare il black power e ancora oggi, nonostante i neri rappresentino il 13 per cento della popolazione, al Senato emerso dalle recenti elezioni di midterm solo 4 rappresentanti su 100 sono di colore.

«Se a Ferguson c’è stata una mobilitazione così massiccia e scontri così violenti è proprio perché la comunità afroamericana non ha fiducia nelle istituzioni», osserva Stefano Luconi, professore di Storia nordamericana all’Università di Padova. Le proteste, iniziate il 24 novembre in reazione al mancato rinvio a giudizio del poliziotto Darren Wilson, hanno portato in carcere 205 manifestanti e causato milioni di euro di danni. Una parte della comunità nera, mobilitata attraverso i social network, ha anche boicottato il black friday – il primo venerdì di shopping natalizio – rifiutandosi di fare acquisti nei negozi dei bianchi. In tutte le città americane continuano a svolgersi manifestazione di protesta e le tv statunitensi sono tornate a parlare di discriminazione e diritti calpestati, dopo due anni di silenzio: l’ultima volta era successo nel 2012 con l’omicidio di Trayvon Martin, il 17enne afroamericano ucciso per sbaglio da una guardia di ronda in un complesso residenziale di Sanford, in Florida.

Sembra ormai che i solo i morti ammazzati risveglino la coscienza nera in America. Eppure si tratta sempre della minoranza più consistente degli Usa, che cresce a un ritmo del 64 per cento più veloce rispetto al resto del Paese e che continua a registrare pessime performance socio-economiche: una disoccupazione all’11 per cento contro una media nazionale del 5,9 e una rappresentanza politica minima solo a livello federale, ma anche a quello locale. Basti pensare che a Ferguson, sobborgo di Saint Louis, nonostante la popolazione sia per due terzi nera, il sindaco e cinque dei 6 consiglieri comunali sono bianchi. E che in tutta l’America non c’è neanche un governatore nero.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Sollima vola oltremanica

Un Jimi Hendrix del violoncello qual è Giovanni Sollima, che compone irruenti pagine al di là della classica e del rock, che esegue Vivaldi, Haydn e musica contemporanea, non frequenta così spesso come meriterebbe le sale musicali italiane. A fine novembre, è vero, ha inaugurato all’auditorium della Capitale la stagione Contemporanea con l’Accademia di Santa Cecilia e Musica per Roma eseguendo composizioni proprie: una versione della Medea per una regia di Peter Stein del 2004 e Spasimo, sulla chiesa palermitana senza tetto e trasformata in centro culturale negli anni 90. A metà gennaio suonerà con l’Orchestra regionale della Toscana (il 14 è al Teatro Verdi di Firenze) e nel 2015 andrà in tour nella sua Sicilia. Eppure tiene gran parte dei concerti oltre confine e, non a caso, il prossimo anno sarà artist in residence per la Liverpool Philharmonic. Il compositore-virtuoso non se ne lamenta né accetta di farsi descrivere come un “violoncello in fuga” ma non può non rilevare un generale atteggiamento di chiusura in molte istituzioni nella terra del bel canto. Sulla vicenda dell’Opera di Roma preferisce non commentare perché, spiega, era fuori Italia.

Come vede lo stato della musica italiana intesa come istituzioni? Il fatto che lei ci suoni raramente è poco incoraggiante.

Preciso che al 90 per cento suono all’estero: ho finito ora una tournée in Inghilterra su un programma romantico, ho fatto concerti di musica barocca in Olanda dove torno con il Giardino armonico… Non di me bisogna parlare, però, ma dei tanti talenti in attività mentre girano gli stessi direttori e le stesse persone. Forse ci vorrebbero idee più coraggiose e più semplici. L’Italia prende prodotti chiavi in mano e vedo pochissimi artisti che partono da qua. I Cento violoncelli sono nati anche come forma reattiva a questa situazione.

Cosa frena teatri ed enti musicali?

Ci sono lobby, non c’è curiosità, si resta impantanati nelle dinamiche delle agenzie, nei pacchetti già pronti, ma non bisogna generalizzare: ci sono istituzioni di una certa vivacità. Molte, però, potrebbero avere più coraggio. Vedo una forma di stasi. Forse è giusto che alcune restino a testimonianza di un tempo inerme. Invece tra molti allievi e ragazzi, tra giovani e meno giovani, trovo spesso entusiasmo.

Non esiste anche il problema dei cachet troppo alti per artisti-star, stando almeno alle finanze attuali?

Sì, certo. Io appartengo alla categoria low cost. Il punto è che esistono teatri in cui dei musicisti non vengono stabilizzati, hanno un numero esorbitante di amministrativi e poi chiudono le orchestre. Andrebbe snellita la voce dell’amministrazione, del management.

La crisi italiana dipende anche dai musicisti dei teatri musicali?

Dipende dalle pressioni sindacali. Qui ci sono diverse fazioni. Di sicuro si apre la necessità di una configurazione nuova.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014

Dire addio al Patto del Nazareno

Matteo Renzi si irrita molto quando sente definire “perverso” il Patto del Nazareno. Quel Patto, dice lui, rispondeva alla profonda convinzione democratica che le riforme elettorali e quelle costituzionali si fanno con le opposizioni. D’accordo, con una piccola correzione. Le riforme che hanno a che fare con le regole della vita democratica del Paese si fanno prima di tutto in Parlamento e con il Parlamento. Quel patto a due ha irrigidito il dibattito, l’ha costretto entro binari che hanno reso difficile il libero confronto e l’espressione di sensibilità diverse, ha impedito di superare le logiche di “appartenenza”, un requisito basilare di una discussione costituzionale.

La novità è che quel brutto patto non funziona più. Tant’è vero che Renzi parla delle opportunità che si aprono con la crisi del grillismo per trovare in Parlamento una maggioranza con chi ci sta. Ragionamento interessante, che apre scenari nuovi. Ma impercorribile, se lo si pensa a una pura e semplice cooptazione di qualche transfuga grillino. I deputati del Movimento 5 stelle sono arrivati in Parlamento per provare a dare voce alle persone colpite duramente dalla crisi, e insofferenti verso una politica inchiodata al rispetto delle compatibilità economiche imposte dal liberismo e dal monetarismo dominante. E stanche dei rituali del Palazzo. Degli accordi fatti senza la fatica della trasparenza e dell’ascolto. Cercando di rispondere insieme all’emergenza economica e a quella democratica. Un’emergenza che tuttora perdura, visto il crescente astensionismo alle ultime elezioni regionali. Molti di loro sono entrati in crisi quando i loro leader hanno imposto pratiche di verticismo insensato. Volevano sentire la voce del popolo, e si sono dimostrati incapaci di sentire le voci di quei rappresentanti del popolo che avevano contribuito a far eleggere.

Parlare con i deputati 5 stelle è possibile se si prendono sul serio i contenuti di molte delle loro battaglie, sull’ambiente, sui diritti, sul lavoro, sulla stessa politica economica. è possibile ora più di prima, perché in molti si sono liberati dagli slogan facili e dalla demagogia dei vari guru. Ma, per il Pd, fare i conti con loro significa fare i conti anche con le proprie debolezze. E vuol dire anche liberarsi dai vincoli che il patto del Nazareno e la logica delle larghe intese tuttora proiettano sulla sua capacità di capire e interpretare quel che si muove nella società, a partire dalle lotte dei lavoratori, dei pensionati, dei precari, dei disoccupati.

Pescando nell’oceano sonoro dei Beatles

Ci vuole audacia per appropriarsi di una pietra miliare del pop apparentemente leggero e della sperimentazione quale è stato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. I Flaming Lips hanno avuto quel coraggio, se volete mescolato a incoscienza e a un pizzico di furbizia, incidendo ogni brano di quel disco del 1967 in un album distribuito in Europa da Bella Union e intitolato “With a Little Help from My Fwends” (non è un refuso).

Flaming Lips, With a Little Help from My Fwends, leftIn tutte le canzoni la band di Oklahoma City identificata come autrice di un indie rock alternativo-psichedelico si fa affiancare da sodali, amici, tra i quali Moby, e presenze inaspettate. Il risultato? Fedele, di una fedeltà perfino eccessiva per suonare radicalmente innovativo, eppure straniante al tempo stesso.

Sfoderando sonorità psichedeliche coerenti con la loro carriera, e una copertina visionaria in sintonia con il loro sound, dopo aver rivisitato i King Crimson e un altro monumento quale “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd, i Flaming Lips hanno dunque inserito nel loro orizzonte la creatura dei Fab Four. Così quel canto all’amicizia, al rispetto e all’accettazione che è “With a Little Help with my Friends” nelle mani del frontman Wayne Coyne e compagni resta beatlesiana nelle distorsioni molto personali di voci e chitarre mentre “Lucy in the Sky with Diamond” si fa quasi rock progressive e, a tratti, rumoristica.

I Flaming Lips sembrano porgere un occhio di riguardo al pop odierno più appariscente coinvolgendo in ben due brani – la “Lsd” appunto e “A Day in the Life” – Miley Cyrus, la popstar della provocazione sessuale sul palco. Una mossa per attirare più attenzione? È possibile. Eppure, curiosamente, nel brano conclusivo l’ex stellina Disney inserisce sussurri molto sensuali che aggiungono qualcosa.

Va da sé che i Flaming Lips si sentono più figli di Lennon che di Mc-Cartney. E se in alcuni passaggi non avrebbe guastato minor enfasi, l’album ribadisce come il pop e il rock abbiano una storia plasmabile a posteriori al pari di quanto accade nel jazz o nella cosiddetta musica colta, e conferma che i musicisti potranno pescare a lungo nell’oceano sonoro dei Beatles come sosteneva il compositore Luciano Berio.