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Elda Alvigini: Io, sopravvissuta di sinistra

Da sola sul palco. Lei e un cellulare che squilla di continuo. Un divano. Quello della sua psicoterapeuta. Due ore. Un monologo intenso, divertente, colto. Maturo, che racconta di quarantenni figli/vittime di quella generazione di sessantottini che li ha cresciuti a pane e fantasia (più fantasia che pane!), per poi lasciarli coperti di macerie dentro e fuori.

“Dov’è che mi sono persa?”, si chiede di continuo la protagonista di Inutilmentefiga anche a Natale. Elda Alvigini, magnifica interprete, è una donna, madre di Giacomo, sopravvissuta a un’infanzia fatta di “proletariato al potere”, rivendicazioni sociali, ideali politici, lotte femministe. Relazioni sbagliate e storie finite. Che dalla classica domanda “perché nessuno mi ama?” arriva, sapiente e ironica, all’amara questione di fondo del “perché non riesco ad amare nessuno?”.

Inutilmentefiga, un titolo strano. Che idea è?

Come vedi è scritto tutto attaccato, perché non è un avverbio né un aggettivo e non c’entra niente l’estetica. È una condizione umana, un discorso sull’identità della donna oggi, per cui sembrerebbe che abbiamo conquistato tante cose ma in realtà, per la cultura generale, rimaniamo esseri inferiori. Guarda anche noi, io e te, abbiamo avuto genitori illuminati che – sì ci hanno pure massacrato – ma ci hanno fatto studiare, ci siamo laureate, magari abbiamo avuto un figlio… e comunque siamo incasinatissime e facciamo un mare di fatica a costruire storie belle.

Insisto, perché “inutilmente”? è legato a quel passaggio da “non capisco perché nessuno mi ama” a “perché non riesco ad amare nessuno”?

C’è un percorso, io parto dai ricordi dell’infanzia. La donna che porto in scena non è neanche me oggi, ho voluto raccontare quella fase in cui tu cerchi di capire cos’è che non va. La cosa nuova dello spettacolo è che la protagonista non accusa gli uomini ma domanda a se stessa cos’è che non va per cui li perde tutti. E in questa sua ricerca arriva a delle conclusioni personali. Non è uno spettacolo che ha la bacchetta magica né la presunzione di dire come si “deve” fare. Semplicemente la protagonista si mette a nudo e racconta il suo percorso.

Porti in scena lo sbando di un’infanzia a sinistra, quella sinistra che ha fatto il ’68 e che si è lasciata dietro vittime e sogni irrealizzati. Quanto c’è di autobiografico?

In realtà c’è molta drammaturgia, perché io non ho un figlio e mio padre non fa il rilevatore di chakra. Né mia madre è una fricchettona, anzi è una farmacista e non mi darebbe mai la tisana di cavolo cinese per guarirmi. Però sono cresciuta in quell’ambiente, quindi ho rubato degli episodi. C’è anche una battuta che mi ha regalato Claudio Amendola, mi ha raccontato quando da piccolo si perse ad una manifestazione e la madre gli disse: i buoni sono quelli con la tuta blu, i cattivi i poliziotti. E allora lui, a cinque anni, andò da un metalmeccanico e gli disse: io sono un compagno di Balduina, mi sono perso! Ho rubato dalle vite degli altri e dalla mia. Posso dire che ce l’ho fatta e racconto come. Chiaro che ce l’ho fatta “nonostante”!

Ce l’hai fatta “nonostante” cosa? Nonostante quello che trapela nel tuo spettacolo? Questa incoerenza di certa sinistra che predicava “il proletariato al potere” e insieme ti imponeva Cenerentola salvata dal principe azzurro? Rivoluzionari sì… ma sposati in Chiesa.

Questa storia delle favole è tutta una “sola”, perché ti mette in posizione di attesa di uno che dovrebbe arrivare a salvarti. Ma perché? Ma che vuoi? Io sto bene, e poi ti raccontano e “vissero felici e contenti”. Se invece ci avessero detto dall’inizio e “vissero incazzati e violenti” ci saremmo arrivati più preparati! Ma a parte gli scherzi, più che altro è tutta una cultura che a casa ti leggeva le favole russe in russo e poi ti portava a vedere Cenerentola, tipo elettroshock. O mia madre che spacciava spirali e poi quando io, adolescente, le chiedo di prendere la pillola, momenti mi ammazza. Quell’incoerenza di predicare una libertà che poi non c’era.

Per tutto lo spettacolo ti chiedi “ma dov’è che mi sono persa”, perché?

Perché la protagonista non ha capito qual è precisamente la cosa che non le permette di avere una bella storia, che non le sa far fare la separazione dalla madre, che non le fa vedere che idealizza il padre senza riuscire a separarsi da lui. Che è il cruccio di tutti gli esseri umani, quando impari a separarti è fatta! Hai svoltato, hai vinto alla lotteria. Quindi è un po’ un chiedersi cos’è che non ho capito, dov’è il corto circuito. Pensa che questo spettacolo l’ho scritto pensando ad un pubblico di sinistra, forse anche abbastanza colto, e non mi sono resa conto quanto invece fosse universale il tema che trattavo. Tutti hanno una madre, tutti hanno un padre, tutti ambiscono ad un rapporto d’amore bello, anche gli uomini. Questo spettacolo non è contro gli uomini. Ci tengo a dirlo.

Nel tuo mestiere quanto litigano tra loro essere e apparire?

Io ho sempre avuto il motto melius esse quam videri, che è una verità assoluta e per me è più facile, per altri forse è più facile mentire. Io faccio l’attrice, non sono un’attrice, questo per me è fondamentale. Potrei fare altro. Qualche anno fa mi ero messa a studiare medicina, ero tra i secchioni, voti alti, poi sono arrivati I Cesaroni e dopo un anno che cercavo di mettere insieme le due cose ho dovuto scegliere e sono tornata al primo amore, volevo fare l’attrice da sempre.

Perché per “fare” l’attrice scegli un monologo buffo e non drammatico?

Lo spettacolo è drammatico! Si ride ma la protagonista è una specie di sopravvissuta e spesso le cose che le accadono sono angoscianti. Questa non è una commedia che spinge l’acceleratore sulla boutade, adesso ti faccio ridere, è che a volte la vita è grottesca. Quindi il punto è cogliere quanto si possa ridere anche nei frangenti drammatici, questo è quello che a me ha salvato la vita. Io ho sempre visto il lato grottesco, è un po’ una mia dote, un punto di vista ironico più che drammatico, perché dal dramma non si esce. E poi c’è anche un fatto commerciale puro. Io sono famosa per aver fatto I Cesaroni, la gente mi ferma e mi dice “me fai ammazza’ dalle risate”. Quindi non posso dargli Lady Macbeth, li deluderei. Sono riuscita ad arrivare al pubblico anche televisivo, sono venuti in teatro e mi hanno fatto tantissimi complimenti. Volevo fargli vedere che sono una comica, ma particolare.

Del tuo spettacolo sei anche autrice. Come mai ti sei messa a scrivere?

Questo testo lo iniziamo a scrivere io e Natascia Di Vito già nel 2009. Volevamo proporre una donna paladina ma anche concreta. Volevamo raccontare qualcosa in cui le donne come me, italiane, lontane da modelli come Sex and the city, si potessero identificare. Con Natascia parlavamo e ridevamo e allora abbiamo pensato: scriviamolo. Questo è stato l’incipit, ma non eravamo consapevoli di quello che avevamo fatto. Dopo del tempo l’ho fatto leggere a Leonarda Imbornone, il mio assistente regista, che ci ha detto “ragazze ma siete pazze?” Lo ha cronometrato, si è ammazzata dal ridere e ci ha detto “ lo spettacolo c’è, andate!”. Il successo del primo anno mi ha già cambiata moltissimo. Ho sentito di aver fatto bene.

Come cambia questa edizione di Inutilmentefiga anche a Natale?

Completamente. Cambia perché io e Natascia abbiamo fatto quello che non abbiamo avuto il coraggio di fare prima. Siamo tornati al testo originario mai andato in scena e depositato nel 2011 e abbiamo rilavorato su quello, depositandolo di nuovo. “Anche a Natale” avevo l’esigenza di farlo perché andavo in scena durante le feste.

Dovevi andare in scena al Piccolo Eliseo e poi cosa è successo?

È successa questa cosa brutta della sua chiusura, lo dico da cittadina. Quando in una città si chiude un teatro che è stato il più bello e il più grande di tutta Italia, quello dove hanno recitato i più grandi attori di tutti i tempi è un segno molto grave. Un segno politico, sociale. Sono stata intervistata spesso, sono andata ad ogni visita degli ufficiali giudiziari all’Eliseo, solo l’ultimo giorno sono stata in silenzio, perché mi sono sentita troppo male. Ho visto scene da golpe teatrale e non mi sono piaciute. Non ho nessun problema a schierarmi, l’ho sempre fatto. Mi hanno chiesto perché c’ero solo io di volto famoso. Io non lo so, so che la politica è forse l’atto più puro dell’essere umano. Insomma è una cosa che mi ha addolorato tantissimo, poi ho reagito, non potevo e non volevo morire lì, e ho richiamato il teatro dove questo spettacolo era nato e dove le date, per fortuna, erano ancora libere. La cosa grave è che molti teatri a Roma hanno date libere, non hanno nulla in cartellone.

Nel tuo spettacolo, a un certo punto, dici “la sinistra esisteva”, oggi sembra fantascienza. Che sta succedendo, secondo te?

Non succede niente, questa è la cosa grave. C’è poco spazio per la creatività, alla vostra festa ho recitato un pezzetto “Sinistra e laicità” e lo dico e lo ribadisco. Parlo per l’Italia e per l’Europa, non esistono più idee di sinistra. Quando un papa va al Parlamento europeo e viene applaudito come un capo di Stato da tutti, io resto basita.

Perché?

Perché la sinistra si è dimenticata di fare la sinistra da troppi anni e oggi nel 2015 ci vogliono far credere che l’unico leader di sinistra è papa Francesco che dice cose di una violenza inaccettabile per chi è di sinistra. Mia madre si è fatta arrestare per le lotte a favore dell’interruzione di gravidanza. O anche per il referendum sul divorzio. Conquiste importanti. E ora? È come se volessero cancellare tutto. Ed è inutile che Renzi scherzi sul suo essere di sinistra o meno. Sta facendo cose di destra molto gravi. e questo perché non c’è più un pensiero di sinistra. Nel ’68, benché ci si ribellasse a tutto andando poi incontro alla morte, al terrorismo, ai suicidi, almeno l’intuito di cercare la libertà di esprimersi e di ribellarsi ad una moralità imposta, c’era. Poi magari mancavano gli strumenti per realizzarla. Oggi domina di nuovo la religione e quel che rimane della sinistra diventa una roba da ricchi. Lo dico nello spettacolo: “Eravamo giovani, ricchissimi e di estrema sinistra”! Da donna di sinistra mi interessa avere una sinistra che mi rappresenti e oggi non c’è. Tra le cose nuove dello spettacolo c’è anche la terrificante idea che per la prima volta nella mia vita potrei non votare. Mi chiedo a un certo punto: “Come si fa a sopravvivere?”, ma lo dico, non so più per chi votare.

La rivoluzione della controfinanziaria

Non ce lo chiede l’Europa. A smascherare l’alibi del “non ci sono i soldi” è la Controfinanziaria di Sbilanciamoci, che ha messo nero su bianco le sue proposte alternative. Rigorosamente a saldo zero. Ventisette miliardi a parità di bilancio come la vera legge di Stabilità, solo che la filosofia è ribaltata, perché si basa su redistribuzione della ricchezza, sostenibilità ambientale e un modello di sviluppo fondato sui diritti.

La Finanziaria di Renzi, invece – denuncia il documento di Sbilanciamoci – «finge di fare l’interesse di tutti ma si inchina agli interessi di banche e imprese, e non affronta i buchi neri della crisi del nostro Paese: l’economia in declino, un’occupazione in calo e sempre più precaria, un sistema di istruzione e di ricerca pubblico indebolito dai progressivi tagli, un disagio sociale crescente, politiche sociali fragili, un patrimonio naturale e culturale in abbandono». Tutte questioni al centro della manovra alternativa. Con progetti e numeri precisi, costi e coperture, senza spendere un euro in più. È dal 2001 che Sbilanciamoci, composta da una cinquantina di associazioni della società civile, presenta la sua dettagliata proposta. Sistematicamente ignorata dai governi. Pian piano, però, le sue ricette conquistano nuovi consensi. Almeno sulla carta.

UN’ALTRA REDISTRIBUZIONE È POSSIBILE

«La contromanovra fa vedere che, anche assumendo il contestato vincolo del saldo di bilancio, si può avere una Finanziaria con un’idea di benessere del Paese completamente diversa», plaude Elena Granaglia, professore di Scienza delle Finanze dell’Università Roma Tre. «Il lavoro di Sbilanciamoci mostra che, se vuoi, non sei schiavo dell’Europa, che anche dentro i limiti del Patto di Stabilità avremmo potuto avere un’allocazione delle risorse pubbliche decisamente migliore sotto il profilo dell’equità e dello star bene».

Un documento che fa saltare anche il tradizionale “trade off” per cui si deve scegliere tra due beni: «Le loro proposte sono complementari perché mettono insieme obiettivi equitativi e di crescita. Investendo nei servizi si ha il doppio effetto di promuovere l’occupazione e di fornire beni utili alla collettività». Si parla spesso di redistribuzione del reddito, continua Granaglia, ma Sbilanciamoci ha avuto il coraggio di fare i numeri: «Certo, proposte quali l’introduzione di un’imposta sul patrimonio devono essere ulteriormente corroborate da misure di contrasto dell’elusione e dell’evasione. Ma il fatto che sia complicato non può essere una ragione per non iniziare».

Non mancano le sfumature che Granaglia avrebbe cambiato, «ma provare a fare i conti è un primo passo fondamentale. Poi devi entrare più nel dettaglio del come». Anche la sperimentazione del salario minimo garantito Granaglia l’avrebbe voluta più definita, ma la ritiene «importantissima perché fa parte di un diritto di cittadinanza: se non hai reddito non puoi vivere. Sotto il profilo equitativo, appare ben difficile sostenere che a parità di gettito si diano gli 80 euro a chi ha già un lavoro e nulla alle persone in stato di difficoltà».

La prima gamba della contromanovra è una rivoluzione del fisco che redistribuisce il carico fiscale dai poveri ai ricchi, dai redditi di lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite. A parità di gettito, Sbilanciamoci propone il taglio di un punto delle aliquote sui primi due scaglioni e l’aumento di tre punti sugli ultimi, con la creazione di un sesto scaglione oltre i 100mila euro. Anche la tassazione degli immobili e del patrimonio diventa progressiva, come previsto dalla Costituzione.

Sul fronte delle uscite, il documento propone un taglio della spesa pubblica “sbagliata” (spese militari, grandi opere, finanziamento a scuola e sanità private) e un Piano per lavorare e produrre benessere da 4 miliardi, che va dalla riqualificazione del trasporto pubblico locale alla stabilizzazione del personale paramedico precario, dalla messa in sicurezza del territorio all’investimento nell’istruzione pubblica. C’è anche una prima sperimentazione del reddito minimo garantito (500 euro al mese) per togliere dalla povertà assoluta 764mila persone. «Tutti processi per ridurre le diseguaglianze sociali che in questi anni sono aumentate e per ridare centralità al ruolo dello Stato nel rilancio dell’economia e dell’occupazione, immaginando un modello sociale diverso da quello proposto in questi anni», spiega la presidente di Lunaria, Grazia Naletto, tra i principali estensori della Controfinanziaria di quest’anno. «Sullo sfondo c’è un’idea di società molto diversa: il lavoro non è più concepito per dare profitti alle imprese ma per favorire la qualità di vita delle persone».

Ovviamente la contromanovra non dimentica che il primo responsabile della crisi attuale è la finanza privata, non la spesa pubblica: «Oltre a una tassa sulle transazioni finanziarie, chiediamo una separazione netta tra le banche che garantiscono il credito e gli istituti finanziari che fanno speculazione», dice Claudio Gnesutta, già docente di Economia Politica alla Sapienza e collaboratore della campagna. Che non ha dubbi: «Anche se spesso vengono contrapposti, la redistribuzione del lavoro, la riduzione del precariato e il welfare universale si tengono assieme».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014

Tutti paghiamo la corruzione

Lo scandalo romano sta assumendo contorni che lo rendono più grave di Tangentopoli. Anche in quel periodo i casi di corruzione individuale erano diffusi, ma a differenza di allora, sembra oggi che le amministrazioni pubbliche siano state conquistate dal malaffare e ridotte a servizio degli interessi privati.

Nelle intercettazioni leggiamo che oltre alla privatizzazione dei servizi pubblici – dall’assistenza alle categorie socialmente più deboli alla cura dei giardini – inizia a prendere corpo anche un altro filone fondamentale dello scandalo: i risvolti nel settore urbanistico e delle costruzioni. Un caso di scuola ci viene da una delle tante varianti che l’urbanistica contrattata aveva costruito su misura degli interessi della proprietà immobiliare. In uno dei quartieri più qualificati della capitale, Monteverde, grazie all’intervento della cricca Carminati – Buzzi, viene emessa “in tre giorni” la concessione edilizia per costruire 90 appartamenti che per un comune mortale comporta un’attesa di mesi se non di anni. È evidente che i ritardi della pubblica amministrazione siano costruiti ad arte per poter poi favorire le imprese e i proprietari “amici”.

Con la parallela inchiesta sul deputato del Pd Marco Di Stefano, scopriamo invece il motivo strutturale delle folli quotazioni immobiliari nel nostro Paese. L’inchiesta ha infatti svelato che un grande proprietario immobiliare, Pulcini, ottiene che per un suo immobile venga concluso un contratto di affitto con la Regione Lazio (Di Stefano era allora, 2008, assessore regionale) per un affitto annuo di 7, 8 milioni che i magistrati giudicano “esorbitante e fuori mercato”. L’interessamento dell’uomo politico viene ricambiato con una tangente di un milione e ottocentomila euro. È scontato che questa somma di danaro sarà stata caricata sulla valutazione economica dell’affitto ed è in base a questo meccanismo scellerato che i valori di locazione sono sempre molto alti nonostante la crisi del settore immobiliare.

Il costo della corruzione si scarica dunque sull’intera società. Su coloro che cercano una casa a basso prezzo; sugli artigiani che cercano un locale per lavorare; sui giovani che vorrebbero tentare di mettere in piedi un’attività economica ed aprirsi una prospettiva nella vita. Tutte queste esigenze della società sono soffocate dal malaffare e dalla malapolitica ed è ora di chiudere per sempre questa tragica spirale che rischia altrimenti di portare al fallimento l’Italia.

I precari del precariato

Si scrive lavoro si legge precarietà. Persino dentro l’Istituto di ricerca sui temi della formazione, dello sviluppo sociale e del lavoro (Isfol), l’ente pubblico che monitora e valuta la bontà delle politiche sul lavoro, e cioè combatte precarietà (e disoccupazione). L’Isfol è uno dei 21 enti pubblici di ricerca del nostro Paese. Di questi, 14 sono vigilati dal Miur (ministero dell’Istruzione, università e ricerca), e gli altri dal ministero direttamente competente. Nel caso dell’Isfol, quindi, da quello del Lavoro al momento guidato da Giuliano Poletti.

La ricerca pubblica torna alla ribalta con le proteste dei ricercatori contro il Jobs act. In ballo ci sono i 252 posti di lavoro dei precari (ultradecennali) che vedono la data della scadenza dei loro incarichi – il 31 dicembre 2014 – avvicinarsi minacciosamente. Ma anche il futuro stesso della ricerca e della sua autonomia è agli sgoccioli. All’orizzonte, infatti, si intravede una riforma – il rivoluzionario Jobs act – che prevede un vero e proprio riordino del settore, inclusa la creazione di un’Agenzia unica del lavoro. Per i dettagli tocca aspettare che la discussione entri nel merito. Ma fuori dall’aula – e nelle piazze – è già in onda la protesta. I manifestanti non hanno dubbi: «È un bavaglio alla ricerca pubblica». In tempi di Jobs act, è il turno dell’Isfol.

L’AGENZIA UNICA

Nel testo con cui Matteo Renzi ha chiesto la delega in Parlamento – delega già ricevuta sia alla Camera che in Senato – la parolina “Isfol” non è scritta nemmeno. Quello che c’è, invece, è la previsione di una «Agenzia unica federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali». Un’agenzia nuova, quindi, che riesca a coniugare le politiche attive (di competenza regionale) e passive (statali). E che coordini le Agenzie regionali per il lavoro (non presenti in tutte le regioni). Anche se, a onor del vero, non sarebbero pochi gli ostacoli alla sua realizzazione. Su tutti, la necessità di riformare il Titolo V della Costituzione che assegna alle Regioni la «competenza esclusiva» in materia di formazione e lavoro.

Strutture simili le troviamo già in Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda. Ma in questi Paesi accanto all’agenzia «esistono istituti di ricerca che hanno la funzione di monitoraggio e studio sulle dinamiche del mercato del lavoro, ma anche della formazione», ribatte Domenico Pantaleo, segretario generale di Flc Cgil. «In un Paese con una disoccupazione strutturata che si avvicina al 33 per cento, serve una struttura che crei lavoro».

La necessità di un riordino, quindi, è condivisa anche dallo stesso sindacato. Quello che non è chiaro però, spiega Pantaleo, «è quale funzione avrà questa agenzia». «Il rischio – avverte il sindacalista – è quello di creare un’altra struttura burocratica amministrativa che alla fine anziché creare occasioni di lavoro finisce per accomodare e favorire un’ulteriore flessibilizzazione e precarietà nel mercato del lavoro e la gestione della precarietà diventa un’altra cosa». È una questione di autonomia, insomma.

L’AUTONOMIA

Che fine farà l’Isfol? L’ipotesi da non escludere è quella già avanzata in passato dall’ex ministro Sacconi: accorpare Isfol e ItaliaLavoro. Accorpamento o soppressione che sia, non cambierebbe il risultato: la nascita di un’Agenzia governativa che porterebbe con sé il superamento dell’autonomia.

«Sono molte le ragioni per cui l’autonomia è irrinunciabile», assicura Walter Tocci, senatore Pd e membro della settima Commissione permanente di Palazzo Madama, Istruzione pubblica e beni culturali. «C’è un’impostazione mainstream governativa che pensa di poter fare a meno della ricerca sociale nel campo del mercato del lavoro. Mentre questa attività di ricerca è quanto mai preziosa».

Per motivi tecnici, come quello di avere un controllo dell’evoluzione tecnologica che rende più problematica la trasformazione delle figure di lavoro. Ma soprattutto, sottolinea il senatore democratico, perché «quello delle politiche del lavoro è un terreno su cui spesso la demagogia impone delle verità precostituite, che poi i fatti dimostrano infondate. Da vent’anni si fanno leggi che promettono risultati miracolosi. Che poi non ci sono».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014

La politica deve scegliere

L’economia è politica. L’economia è il campo delle scelte orientate da valori e interessi diversi, alternativi. Le “raccomandazioni” di Bruxelles, Washington, Parigi non sono mai neutre o necessitate. Non sono mai posizioni tecniche. Dietro le tecnostrutture, apparentemente super partes, vi sono sempre visioni del mondo e soggetti economici e sociali beneficiati o colpiti. Insomma, destra e sinistra continuano a esistere sul terreno dell’economia, nonostante la possente offensiva liberista, da almeno tre decenni, proponga e imponga sul versante mediatico e accademico il pensiero unico slegato dall’etica e dalle differenze di classe.

Ecco il messaggio fondamentale che ogni autunno, dal 2001, Sbilanciamoci, una rete di 48 associazioni progressiste, lancia attraverso il suo rapporto su Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente. Almeno dall’ultimo scorcio di Prima Repubblica fino a oggi, i principali contenuti della Legge Finanziaria, poi ribattezzata Legge di Stabilità, vengono presentati sempre come più o meno inevitabili. Dati gli obiettivi da raggiungere, in realtà vincoli da rispettare, non si può fare altro. Il ritornello fa così: le sinistre movimentiste e massimaliste, inconsapevoli della suscettibilità dei “mercati” e senza cultura di governo, possono ancora perdere tempo su proposte di segno radicalmente diverso. Ma alternative, per una “sinistra di governo”, non ci sono. Ai più ambiziosi e culturalmente recalcitranti, si può concedere qualche correzione al margine, ad esempio la sperimentazione con una manciata di milioni del reddito di inserimento o un’ misero fondo per la ristrutturazione delle scuole.

Invece, ogni anno, Sbilanciamoci scrive con rigore tecnico che le alternative ci sono e che i contenuti definiti “inevitabili” sono, in realtà, scelte politiche. In una sfida intelligente al perbenismo governista, assume, senza condividerne il paradigma liberista ispiratore, gli obiettivi assurdi del Patto di Stabilità e Crescita. Anche per la Legge di Stabilità del 2015, Sbilanciamoci indica alternative possibili. Sul piano macroeconomico, come ogni anno, si muove nel quadro del Documento di Economia e Finanza, nonostante ne denunci il segno restrittivo e regressivo, quindi l’effetto recessivo su un’economia anemica. Ma parte da una valutazione radicalmente alternativa della spesa pubblica e delle tasse.

La protesta civile dei No Tav. Nel film di Gaglianone

Qui, il documentario di Daniele Gaglianone (Ruggine, Pietro, La mia classe) sembra porre il dilemma antico dell’uomo di fronte alla legge. Come Antigone che voleva seppellire i resti del fratello contro l’ordine di un tiranno insensibile e ottuso o il Principe di Homburg emblema della dicotomia tra l’obbedienza agli ordini ed il fare ciò che è giusto.

L’individuo in questo caso è un’intera collettività, gli abitanti della Val di Susa che si sono trasformati lentamente ed inesorabilmente in oppositori dello Stato Centrale la cui legge viene percepita come ingiusta. In Val di Susa onesti cittadini, padri di famiglia, parrocchiani, sindaci, ex carabinieri, anziani, si sono ritrovati di colpo uniti in una lotta non violenta ma determinata a non lasciare che un potere astratto, “divino”, passi sulle loro teste, sventri il territorio, con l’Alta Velocità Torino Lione, senza che loro possano esprimere le proprie riserve o manifestare il proprio disappunto. Tutto questo in nome di un progresso che lassù è definito “spazzatura”.

locandina, Qui, leftGaglianone segue con stile asciutto, icastico, uno ad uno i dieci protagonisti di questa vicenda che ormai da anni ha incendiato la valle e che abbiamo imparato a conoscere come il movimento No-Tav. E lo fa con pudore, tuttavia scegliendo da che parte stare. Scopriamo Gabriella popolare esponente del volontariato sociale della valle di Susa, che insieme al suo gruppo, i “Cattolici per la vita della valle”, compie un pellegrinaggio quotidiano, per raggiungere le reti di recinzione del cantiere di Chiomonte e condurre una sessione di preghiera collettiva, sotto gli occhi delle forze dell’ordine. Aurelio che ha seguito in presa diretta la lotta NoTav attraverso i microfoni di Radio Blackout, emittente dell’area antagonista di Torino. Il sindaco di Venaus Nilo Durbiano, che vive il conflitto lacerante fra la sua carica istituzionale e l’amore per la sua terra e ricorda il momento più alto e decisivo della battaglia civile della valle di Susa, nel dicembre 2005, quando l’inattesa mobilitazione di decine di migliaia di valsusini portò il caso all’attenzione dei media nazionali e costrinse il governo a sospendere il progetto. Cinzia, l’infermiera, che tenne una singolare “lezione civile” a un reparto di carabinieri, a Chiomonte, facendo leva sulla coscienza personale dei militari. O la famiglia Perino che rischia di vedere schiacciata la propria casa fra piloni di cemento e amianto che la montagna inevitabilmente sputerà dentro i loro polmoni.

Antigone voleva seppellire i resti di Polinice contro la volontà di Creonte, in Val di Susa gli abitanti difendono il diritto di non venire sepolti vivi in una grotta da colate di cemento e da uno stato che ha eletto un progresso incondizionato e disumano a modello per tutti i suoi cittadini. Lo Stato-Creonte farebbe bene a rileggere la tragedia di Sofocle perché i suoi cittadini, questa volta, non lasceranno morire Antigone e Creonte resterà a maledire la propria stoltezza. Uscendo dalla sala cinematografica resta un’esortazione: che la lotta non diventi una messa.

Vasi in salvo. Ma non gli archeologi

Immagini differenti che tentano di costruire un’idea. Da una parte un aereo da turismo che recupera e porta in salvo tre persone e un “prezioso vaso”, in una nota pubblicità di qualche anno fa. Dall’altra, Arturo, alias Paolo Calabresi, uno dei protagonisti del film Smetto quando voglio, commedia di Sydney Sibilia, in cui alcuni “cervelli” espulsi dal mondo del lavoro danno vita a una banda malavitosa. Differenti i luoghi, contrapposti i contesti sociali. Al centro, sempre, l’archeologo.

Prima, figura autorevole romanticamente fascinosa; dopo, corpo avulso, mortificato. Quanto quelle caratterizzazioni siano indissolubilmente connesse ai tempi lo indiziano i numeri. Un recente rapporto stilato dalla Confederazione italiana Archeologi, nell’ambito del Progetto Discovering archeologists in Europe, parla di un settore in crescente sofferenza, che nel biennio 2012-2013 ha potuto contare su 4.500 attivi, per il 52 per cento con una formazione anche post laurea, concentrati nel centro del Paese, soprattutto nel Lazio (26,7 per cento) e a Roma (20 per cento).

Il reddito? Quello medio si attesta sui 10.680 euro circa l’anno, ma neppure tanto infrequentemente scende fino ai 5mila euro. Una fotografia impietosa, peraltro parziale. Perché se è evidente che aree archeologiche e monumenti non godono di buona salute, è altrettanto vero, anche se meno noto, che anche i professionisti del settore non se la passano per niente bene. Al momento del sondaggio della Confederazione italiana archeologi il 28 per cento degli intervistati era senza lavoro. E con sempre più esigue speranze di trovarlo. Questo progressivo collasso, causato da politiche nazionali e locali, ormai da tempo inadeguate, si avverte a Roma forse più che altrove.

Mentre si persegue il progetto del grande parco archeologico centrale, fulcro per la città secondo il sindaco Marino, l’archeologia praticata è quasi solo quella preventiva. Ogni giorno schiere di professionisti di ogni età disseminati dal centro alle periferie a far sorveglianza alle squadre di operai intenti a riammodernare, qualche volta a manutenere, la rete di Acea e Italgas. Non molto per i tanti che sognavano di fare davvero gli archeologi. Anzi, sembra che l’Amministrazione comunale, così sensibile al tema della tutela e valorizzazione del patrimonio storico-archeologico, al quale ci si sforza di provvedere facendo ricorso all’intervento privato, non lo sia altrettanto con gli addetti ai lavori.

Un nuovo capitolo della progressiva delegittimazione del settore è stato siglato con il protocollo d’intesa tra amministrazione comunale ed Enel riguardo al progetto The Hidden Treasure of Rome. Come ha scritto il sindaco Ignazio Marino grazie a questo programma, «i ricercatori di musei e università tra le più prestigiose del Nord America, e di tanti altri Paesi del mondo, avranno l’opportunità unica di studiare su materiali… conservati… presso l’Antiquarium dei Musei Capitolini».

Materiali finora mai analizzati «saranno oggetto di accurati programmi di ricerca, per poi essere restituiti alla città, classificati e catalogati, pronti per essere inseriti in importanti progetti espositivi e culturali». Aggiungendo che si tratta di un’operazione «che se Roma dovesse fare da sola, con le proprie risorse, richiederebbe decenni. Oggi, invece, possiamo avvalercene a costo zero». Insomma li mandano all’estero come se non ci fossero le competenze sufficienti per fare a Roma.

Quanto la decisione sia stata considerata un affronto all’archeologia romana, più generalmente al comparto degli addetti ai Beni culturali romani, lo si comprende leggendo le dichiarazioni delle associazioni di archeologi e professionisti dei beni culturali (scese in piazza, a Roma, il 29 novembre per protestare contro questo e altri progetti di uso e abuso del volontariato, ndr). Non solo. La Soprintendenza comunale ha pubblicato un «avviso pubblico per la ricerca di associazioni di volontariato, associazioni culturali per lo svolgimento di attività gratuite, da svolgersi presso Musei ed aree archeologiche e monumentali di competenza della Soprintendenza comunale».

Largo ai volontari, insomma. Ovvero a operazioni a costo zero sia per quel che riguarda la fruizione di musei che di aree archeologiche, che per lo studio e classificazione di materiali sostanzialmente inediti. In questo Comune e Soprintendenza di Roma in piena sintonia con le politiche nazionali che agevolano il coinvolgimento del terzo settore. Indicando come forse in Italia non ci sia più quasi spazio per chi ha imparato e quindi ritiene che l’archeologia sia una scienza moderna e non un divertissement ottocentesco.

Sulla via da Damasco

«Siete troppo poveri per prendervi cura di noi». La frase, forse infelice, ha fatto infuriare i politici greci. Ma Nander Halbuni, rappresentante dei 200 siriani che il 19 novembre hanno iniziato la loro protesta in piazza Sintagma, ad Atene, non sa di aver toccato un brutto tasto. Loro – lui e gli altri 199 – chiedono soltanto di poter lasciare il Paese. «Vogliamo andare dove possiamo ricostruire una vita dignitosa», ha spiegato durante la conferenza stampa dello scorso 28 novembre. Possibilmente in Germania, in Svezia, in Norvegia e magari anche in Francia o Svizzera. Ma Italia, Grecia o Bulgaria non sono quello che cercano. In fuga dalla guerra, è vero. Ma per vivere, non per «morire di stenti».

Il governo bulgaro, che ha accolto 4.800 siriani solo nei primi dieci mesi del 2014, avverte che le sue strutture non sono più in grado di garantire vitto e alloggio. «Siamo al limite». Se ne dovessero arrivare altri, non si sa cosa farne. Quelli che già sono nel territorio denunciano condizioni spaventose, sistemati come sono in campi profughi dove il fango arriva alle caviglie. Il centro di accoglienza di Harmanli è finito nella lista nera delle ong: incuria, sporcizia, violenza. L’Unhcr è arrivato al punto di chiedere ai Paesi vicini di sospendere i respingimenti verso la Bulgaria perché sarebbe stato un atto disumano. Chi ha avuto lo status di rifugiato è già scappato verso il Nord Europa, sperando di trovare il modo di restarci. Chi si è visto consegnare il tesserino di protezione umanitaria, invece, resta qui, impossibilitato a muoversi anche solo per pochi giorni. Hanno pagato non meno di 10mila euro per arrivare alle frontiere dell’Unione, ora che ci sono dentro non accettano di vivere alla periferia dell’impero. Sono medici, ingegneri, docenti universitari. Vogliono il cuore dell’Europa.

Mohanad Jammo in Siria faceva il medico, direttore del reparto di anestesia all’Ibn roshd hospital di Aleppo. In Italia è arrivato nel 2013. Su un barcone, assieme ad altri 400 siriani. La barca, inseguita dalle motovedette libiche, si è rovesciata: 286 persone sono morte, appena 26 i corpi recuperati. Era l’11 ottobre, una settimana dopo la “strage di Lampedusa”. Sbarcato sull’isola, ha chiesto di andare via «Devo raggiungere la Germania», ha detto semplicemente. Invece gli sono toccate le procedure usuali. Ma non l’hanno registrato. Un tacito accordo ha consentito che venisse accolto come “persona temporaneamente presente sul territorio”. Migliaia di persone hanno avuto la stessa possibilità.

Dei 35.800 siriani passati per la stazione Centrale di Milano, dove il Comune aveva allestito un centro di accoglienza, solo 62 hanno presentato domanda di asilo in Italia. Il regolamento di Dublino obbliga a chiedere protezione nel primo Paese Ue in cui si mette piede, ma l’Italia non è vista come una mèta definitiva. «Il Comune ha aperto un corridoio umanitario in attesa di avere una risposta dallo Stato o dall’Unione europea», spiega Manuela Brienza, consulente dell’amministrazione meneghina per “l’emergenza profughi”. «Abbiamo dato e diamo informazioni sulle leggi in materia di asilo, ma non siamo la polizia. Non siamo noi a fare controlli, non siamo noi a verificare che siano già stati identificati». Chi arriva riceve assistenza, si ferma 5, 6 giorni, e poi tenta di attraversare la frontiera. «Chiedono di raggiungere la Germania, la Scandinavia. Vogliono andare via il prima possibile», aggiunge Brienza. «Hanno un progetto di migrazione, un percorso da compiere. Hanno contatti, relazioni, sanno cosa devono fare. È una capacità che deriva da ricchezza culturale ma anche economica. Se dovessi fare un paragone, direi che la diaspora siriana ricorda quella ebraica: è organizzata, non improvvisata». È una classe media, anche medio alta, quella che arriva alle porte di Milano. «I primi mesi, tra l’ottobre 2013 e l’aprile 2014, c’è stata una forte percentuale – tra il 70 e l’80 per cento – di professionisti, molto benestanti. Alloggiavano in alberghi, non avevano problemi per il cibo o per il vestiario. Poi sono arrivati gli artigiani, i lavoratori autonomi. Nell’estate di quest’anno c’è stato un flusso di palestinesi e curdi. Ma quello verso l’Italia è un viaggio rischioso e costoso. Non tutti se lo possono permettere».

Bisogna avere denaro, soprattutto se l’Italia non è la meta finale. Non ci sono solo i soldi da dare ai “passatori” in Egitto o Libia, i porti da cui partono i barconi. Ci sono i “passatori” pure in Lombardia o in Veneto, necessari per essere accompagnati alla frontiera. Non senza truffe crudeli, racconta Brienza: «Un ragazzo si è fidato, ha dato centinaia di euro. L’hanno portato in Trentino, la gente intorno parlava tedesco. Gli hanno detto: “Ecco qua la Germania” e l’hanno lasciato là». È dovuto tornare indietro, ricominciare di nuovo. Ma il denaro non serve solo a pagare trafficanti o ungere ruote. «Un povero difficilmente troverà asilo da noi», ammette un’attivista di Proasyl, associazione tedesca che si occupa di rifugiati. «La maggior parte di quanti ottengono protezione la hanno in virtù della presenza di familiari nel territorio tedesco.

Delle 10mila persone che la Germania si è impegnata a ricollocare, almeno 7mila sono all’interno del Länderprogramme, che prevede che il mantenimento e l’assistenza siano pagate dalla famiglia. In sostanza, si tratta di avere un buon reddito- è prevista una soglia minima – e una casa adeguata a ospitare altre persone. Tutte cose tipiche di un ceto medio». Inizialmente anche l’assistenza sanitaria doveva essere pagata dai familiari, poi, dopo le proteste, la norma è stata resa più elastica. Ma i controlli sul rispetto del regolamento di Dublino sono ferrei: gli immigrati irregolari vanno riaccompagnati alla frontiera, che provengano dall’Italia o dalla Bulgaria. «Basta uno scontrino, un biglietto di treno che dimostri che la Germania non è il primo Paese di ingresso. Non importa che la domanda di asilo non sia stata presentata altrove, l’importante è rallentare il continuo flusso di profughi». Se si viene rimandati indietro, non c’è via di scampo alla registrazione. «Io sono venuto in Germania perché qui posso lavorare», dice Mohanad Jammo. Dopo tre mesi i Lander permettono di avere un impiego, anche se trovarne uno non è facile. Ma per chi parla inglese o tedesco il problema è meno sentito. «Classe media?», chiede Jammo. «Guarda, io ero persino in “prima classe”. Ora in Germania questa differenza sociale non la sento. Ho ottenuto il permesso di esercitare la mia professione un mese fa. Questo volevo». Anche se lo voleva insieme a tutta la sua famiglia. Invece due dei suoi figli sono annegati nel naufragio dell’11 ottobre. Uno aveva 6 anni, l’altro 9 mesi.

In Svizzera, dove comunque si applica il Regolamento di Dublino, sono meno fiscali sul Paese di provenienza. «Guardiamo la banca dati di Eurodac (il database europeo delle impronte digitali, ndr) e poi decidiamo», spiega Céline Kohlprath, portavoce dell’Ufficio federale delle migrazioni. «Valutiamo solo se sono stati a lungo nel Paese di arrivo e decidiamo se accogliere o meno la domanda per le persone più vulnerabili». Non sempre i siriani lo sono, secondo le autorità elvetiche, ma la Confederazione continua a essere uno dei posti più gettonati. Il diritto a fermarsi viene infatti riconosciuto anche a chi abbia parenti o amici : prima c’erano i «visti facilitati », poi a causa l’alto numero di domande si è tornati alla legislazione ordinaria, che prevede però che la famiglia abbia i mezzi per ospitarli nei primi tre mesi. «Non facciamo statistiche sulle condizioni economiche», aggiunge Kohlprath, «ma è chiaro che alcune garanzie vanno date».

La Svezia, che da settembre concede lo status di residente permanente, è la meta preferita di chi arriva in Italia: il 38 per cento vuole andare là, a raggiungere familiari o amici. Qui la classe sociale conta meno, perché lo Stato è più “generoso”. Ma non sempre basta. Al mensile Kapital i siriani più ricchi raccontano che non si sentono del tutto a loro agio: «La Svezia è una grande bugia», dice Givara, che ad Aleppo aveva una fabbrica di vernici. Ha speso 16mila euro per arrivare fin qui. «Se tornassi indietro forse sceglierei la Turchia. Ma forse penso questo solo perché in Siria la mia era una vita confortevole. Faccio fatica ad abituarmi». Architetti, artisti, commercianti. Rashid Abualhidzha Noh, a Damasco, aveva due macellerie e due negozio di alimentari. Ora fa l’apprendista in un supermercato; Salah Debas era un apprezzato dj, viaggiava in tutto il Medioriente, tra i locali di Dubai e quelli di Beirut: aspetta di trovare un lavoro, intanto studia lo svedese. Quelle di Kapital sono storie limite? «Ho visto arrivare ragazzi laureati in letteratura inglese che si fingevano belgi per sfuggire ai controlli», dice Manuela Brienza. «Forse non tutti sono ricchi, ma li muove la disperazione, non la povertà».

Nei campi in Libano o in Giordania, alla fine, resta chi non ha mezzi. «Più che professionisti, qui ci sono agricoltori, braccianti, contadini», racconta Francesca Pini, desk emergenze per Oxfam Italia. «In parte questo si spiega con la geografia del territorio. Nel Nord del Libano e nella valle della Bekaa ci sono vaste coltivazioni di olivi: i siriani da generazioni vengono qui a lavorare, ad aiutare nella raccolta. Per loro è stato quasi automatico fermarsi da questa parte del confine. C’è poi chi ha scelto di arrivare in Libano per affinità religiosa, sciiti con sciiti e sunniti con sunniti; infine, c’è l’enorme diaspora palestinese che è passata dal campo profughi di Yarmuck, alle porte di Damasco – il più grande in Siria – , ai campi libanesi».

Il Libano, memore dell’esodo dalla Palestina, non vuole altri campi. A differenza della Giordania, qui ci sono solo enormi tendopoli che non devono diventare stanziali. «Lo scopo delle autorità di Beirut è favorire il ritorno, non la permanenza», aggiunge Pini. Nonostante Ue e Usa finanzino abbondantemente i due Paesi (che insieme accolgono quasi due milioni di rifugiati), le condizioni minime non sempre sono garantite. «Ufficialmente non possono nemmeno lavorare, così sono sottoposti al ricatto di chi li assume illegalmente, magari in cambio di un buco di appartamento», spiega ancora la cooperante di Oxfam. «Ma all’inizio non era così: molti dei primi arrivati, nel 2012, avevano un reddito che gli consentiva un minimo di scelta. Qualcuno poteva andare persino in albergo. Ma poi, si fa presto a finire i soldi». E restare intrappolati tra le tende e la guerra.

Hanno sparato sulla Croce Rossa

Una mostra per celebrare i 150 anni della Croce Rossa Italiana allestita nell’ospedale più antico del mondo, il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia a Roma. Ma i festeggiamenti – durati nove giorni – sono stati vissuti dagli addetti ai lavori come una specie di omelia funebre. Sì perché, probabilmente, è stata l’ultima mostra della Croce Rossa. Sta infatti per diventare operativo il decreto legislativo emanato nel 2012 dal governo Monti che ne dispone la riorganizzazione e, in pratica, ne sancisce la privatizzazione. I circa mille militari in servizio effettivo, stabili e stipendiati, che servono a mantenere efficiente la struttura, a coordinare i circa 18mila volontari e alla manutenzione delle attrezzature, verranno messi in congedo ovvero, “in mobilità non protetta”.

Una decisione che, secondo gli operatori, avrà conseguenze fatali per la Cri, facendo crollare tutto l’impianto organizzativo: un organismo militare non può prendere ordini da privati civili e quindi, senza un’aliquota di soldati effettivi, i 18mila volontari, che rientrano tutti in un contesto militare, non saranno più utilizzabili. L’intera struttura verrà resa inerte e di fatto soppressa. Un patrimonio di professionalità, tra medici, infermieri, farmacisti, psicologi, logisti, tecnici, commissari, autieri, che, accettando la severa disciplina di chi indossa le stellette, lavorano gratis, sostanzialmente non più utilizzabile da gennaio prossimo, quando scatterà la tagliola del decreto Monti.

«Con il riordino previsto dal legislatore – spiega il maggiore Vito Failla, presidente del Cocer del corpo militare Cri – il contingente dei militari della Croce Rossa in servizio attivo, che oggi conta su circa mille unità, verrebbe, nel giro di poco più di due anni, completamente eliminato. Già dal 31 dicembre prossimo, i primi 175 militari verranno posti in congedo seguendo di pochi mesi la ingrata sorte di altrettanti validi colleghi. In tal modo i circa 18mila volontari in congedo del corpo militare della Cri verranno privati della struttura di supporto preposta a garantire l’efficienza e la prontezza operativa dei reparti militari di Croce Rossa, nonché degli automezzi ed attrezzature sanitarie, di avanzata tecnologia, acquistati con i fondi del ministero della Difesa».

Se non si interviene a stretto giro si rischia di perdere un patrimonio di mezzi, strutture, personale, formazione ed esperienza. Il grido d’allarme è sceso anche in piazza il 26 novembre scorso con un sit in, davanti alla Camera dei deputati, degli operatori del corpo militare della Cri. Per risolvere la situazione basterebbe poco, secondo gli addetti ai lavori. Il governo Renzi potrebbe, con un semplice emendamento al decreto in questione, inserire il corpo militare nel comparto Difesa e Sicurezza. Molti sono stati gli appelli dei vertici del corpo militare della Cri ai ministri della Difesa Pinotti e della Salute Lorenzin, ma non hanno ottenuto alcuna risposta. Nemmeno quello lanciato dalle mogli dei militari della Croce Rossa per «salvare un’eccellenza del corpo militare».

Storia della Cri. La mostra che si è tenuta presso il complesso del Santo Spirito ha raccontato e riassunto un secolo e mezzo di soccorso sanitario, in guerra come nelle calamità naturali. L’esposizione, intitolata “Soccorso umanitario ed evoluzione dell’arte sanitaria”, mostrava mezzi, uniformi, cimeli e documenti dalla Terza guerra d’indipendenza ai giorni nostri. Tredici ambulanze, da quelle storiche trainate da cavalli, passando per quella che servì a trasportare Mussolini dopo il suo arresto, fino alle più moderne. E ancora, 120 pannelli fotografici, mezzi speciali, motoslitte, moto d’acqua, hovercraft, un’unità attendata di soccorso sanitario, una postazione sanitaria completa di camera operatoria risalente alla Grande Guerra. A far da ciceroni, militari in uniforme d’epoca che hanno spiegato al pubblico italiano e straniero il percorso dell’allestimento. Tra i visitatori, ha fatto capolino il caporal maggiore carrista Giovanni Pucciotti, 95 anni portati con disinvoltura. Pucciotti è tra i pochi reduci di El Alamein rimasti in vita: «Io stesso nel 1941 – racconta – sono stato ricoverato a Tripoli, presso un ospedale della Cri. Avevo la febbre e dopo il tramonto non riuscivo più a vedere a causa della carenza di vitamine. Nell’ospedale, stracolmo di feriti, il personale militare Cri ci trattava benissimo. Apprendo con sgomento quello che riguarda il futuro del corpo militare. è una cosa orribile e vergognosa perché questo è un corpo storico, composto da persone davvero speciali».

Difficile già calcolare con esattezza quanto le prestazioni svolte sinora dalla Cri potranno costare se si avvia la privatizzazione ma non saranno a titolo gratuito come è accaduto fino ad oggi.

Ecco perché il 12 dicembre la Cgil torna in piazza

“Così non va!”, per usare le parole che accompagneranno lo sciopero generale del prossimo 12 dicembre. Così non va una legge di Stabilità che non contiene le misure, possibili e necessarie, in grado di dare una scossa all’economia partendo dalla centralità del lavoro. E non va un Jobs act che, molto attento alle pretese di Confindustria, riduce i diritti e le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori. Questi sono due dei motivi per i quali insieme alla Uil, dopo lo straordinario successo della manifestazione di Roma del 25 ottobre, saremo ancora nelle piazze per lo sciopero generale.

Siamo in un momento di pesante recrudescenza della crisi economica e sociale che attanaglia il Paese da oltre sei anni, ha prodotto oltre 6,3 miliardi di ore di cassa integrazione, ha determinato un tasso di disoccupazione passato di record in record, raggiungendo il picco del 13,2%, con una disoccupazione giovanile al 43,3% e sempre più fuori controllo; e ha prodotto un esercito di disoccupati pari a circa 3,5 milioni di persone. Numeri che sottendono un disagio sociale fortissimo e che sono il prodotto delle non scelte, oltre che delle scelte sbagliate, di questo governo. È per questo che, dando continuità alla nostra mobilitazione, saremo in piazza. Rispetto a una retorica di governo che assume la parola “cambiamento” come magicamente positiva, senza riflettere sulla effettiva direzione di marcia che le politiche messe in campo determinano, Cgil e Uil indicano una via, una prospettiva precisa, un orizzonte per un vero cambiamento. Con la forza delle nostre proposte e delle nostre ragioni: perché lo sciopero generale non è un atto di sola protesta ma anche, e soprattutto, di proposta, affinché in questo Paese ci sia un effettivo cambio di verso che si traduca in un miglioramento generale delle condizioni delle persone.

Lo straordinario successo della manifestazione del 25 ottobre, insieme a una mobilitazione continua, il più delle volte unitaria, che ha scandito passaggi cruciali come la manifestazione del pubblico impiego, dei pensionati e dei metalmeccanici, poi dei lavoratori dei call center, per arrivare a quella degli edili e del settore agroalimentare, sono il segno di un fronte che si sta allargando. Lungo questo solco continueremo la nostra iniziativa, cercando di allargare ancora di più la partecipazione. A differenza di quanti, infatti, hanno scientemente cercato di isolarci, noi non siamo mai dell’idea di escludere qualcuno perché la nostra storia ci insegna il valore e l’importanza dell’unità.

È un principio che ci dà forza e che conferma come, nell’indicare una prospettiva possibile e concreta di vero cambiamento, non ci si possa abbandonare alla rassegnazione ma, al contrario, si debba stare in campo, alimentando le iniziative per impedire che a sbagli si sommino altri errori.

I lavoratori e le lavoratrici, i pensionati e le pensionate di questo Paese rivendicano un cambiamento, ed è per questo che la Cgil, insieme alla Uil, criticando le scelte del governo sulla legge di Stabilità, sul Jobs act, sulla Pubblica amministrazione e, più in generale, sulle scelte economiche, propone interventi specifici per creare lavoro attraverso un deciso cambio della politica economica, a partire dall’adozione di un piano straordinario per l’occupazione, che si finanzi attraverso un intervento sui profitti e sulle rendite, e che passi attraverso l’attuazione di investimenti pubblici e privati. Questo è un punto centrale della nostra proposta, che trae valore anche dall’analisi della manovra di bilancio che, ancora una volta, non coglie il nodo della crisi.

Per fare tutto questo, e veniamo al Jobs act, dobbiamo sovvertire un paradigma: i diritti vanno estesi, le tutele vanno universalizzate. Il futuro del Paese è nei diritti, non nella loro regressione. Dobbiamo mettere al centro i lavoratori, prenderci cura di loro. Solo attraverso il rispetto della loro dignità, solo con uno Statuto che valga per tutti i lavoratori, possiamo interrompere la caduta di un Paese precipitato in una drammatica spirale di crisi. Rivendichiamo dunque politiche contro la precarietà: chiediamo la cancellazione delle circa quaranta forme contrattuali oggi esistenti, per dare un senso positivo al contratto a tutele crescenti e sollecitiamo un rafforzamento ed estensione dei contratti di solidarietà. Su questi punti, su questa piattaforma, continueremo la nostra iniziativa.

Un percorso che non si esaurisce con lo sciopero del 12 dicembre ma che continuerà in particolare per quanto riguarda la legge delega sul lavoro, accompagnando l’iter di approvazione dei decreti delegati. Con grande forza e intelligenza, senza arretrare, articolando la nostra azione: basterebbe citare gli “scioperi alla rovescia” che abbiamo messo in campo in questi giorni per dimostrare quanto vogliamo bene a questo nostro Paese e quanto teniamo al suo futuro. Si tratta di giovani, lavoratori e pensionati che lottano impegnandosi a fare cose socialmente utili, dalle iniziative per riparare i danni del dissesto idrogeologico all’apertura straordinaria di musei, all’incontro tra arte e lavoro, ad iniziative rivolte ai bambini; un esempio di fantasia, coraggio e disponibilità al servizio di un’idea di futuro più giusto e solidale.

La Cgil vuole il cambiamento, quello vero: le politiche economiche improntate al liberismo e all’austerità vanno sostituite da politiche che investano sulla qualità del lavoro e il rilancio dell’occupazione (a partire da quella giovanile), sulla ricerca e la formazione, stimolando la ripresa dei consumi attraverso il sostegno dei redditi da lavoro e da pensione e, quindi, della domanda interna e allargando diritti e tutele, come sola via per offrire una prospettiva. È il solo cambiamento possibile, quello che davvero serve.

*responsabile Organizzazione Cgil nazionale