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Palestina, sarà Stato

Ora a chiederlo non sono “soltanto” i Parlamenti di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio e il governo della Svezia. Ora, a spronare l’Europa perché riconosca lo Stato palestinese, ci sono anche voci da Israele. Voci importanti, il meglio dell’intellighenzia di quel Paese. Ed è da qui, dalla “carica degli 800”, che occorre partire per rilanciare in Italia una campagna di sensibilizzazione di cui Left si sente parte attiva. E chiedere conto al Parlamento italiano del suo silenzio, di un pronunciamento rinviato nel tempo nonostante due mozioni (Sel e Movimento Cinque Stelle) depositate alla Camera dei Deputati e una al Senato.

Riconoscere la Palestina come Stato: è l’atto di coraggio politico che i tre maggiori scrittori israeliani, Abraham Yehoshua, Amos Oz e David Grossman, hanno rivolto nei giorni scorsi ai Parlamenti europei in una petizione firmata insieme ad altri 800 israeliani provenienti da tutti i settori della società civile. Tra i firmatari, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, l’ex ministro Yossi Sarid e Yael Dayan, figlia dell’eroe nazionale Moshe Dayan. «All’Europa chiediamo di mostrare una lungimiranza che manca completamente a coloro che oggi governano Israele», dichiara a Left Yael Dayan. E al primo ministro Netanyahu che liquida come pericolosa l’iniziativa, l’ex parlamentare laburista replica decisa: «Pericolosi sono lui e i suoi ministri propugnatori del Grande Israele, portatori di una ideologia messianico-nazionalista che non ha nulla a che vedere con il sionismo».

«La nostra è una petizione – rimarca a sua volta Abraham Yehoshua – che arriva in un momento in cui l’Europa mostra il suo atteggiamento più incline al riconoscimento. È un atto di incoraggiamento nell’ottica della soluzione dei due Stati, soprattutto a favore della ripresa di trattative di pace. Ma anche un appello al presidente palestinese Abu Mazen affinché non si allontani dal negoziato. Così come ci rivolgiamo ai settori moderati palestinesi».

L’obiettivo principale della petizione, sottolinea ancora Yehoshua, «è la soluzione di due Stati per due popoli: uno israeliano e uno palestinese. A partire dai confini del 1967. Quello che invece va evitato con forza è il rischio di uno Stato binazionale. Così come occorre mettere fine una volta per tutte alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori occupati e al deterioramento dei rapporti con i palestinesi. La petizione è stata già inviata al Parlamento danese, anch’esso in procinto di esprimersi favorevolmente sul riconoscimento dello Stato palestinese. E la stessa “luce verde” è prossima nella Camera bassa irlandese. Il Parlamento europeo si pronuncerà sul riconoscimento nella sessione plenaria di dicembre, dopo aver rimandato il voto (su pressione del Ppe) in un primo tempo previsto il 27 novembre.

L’Italia è così di fronte a un imbarazzante scenario: quello di dover prendere atto del voto dell’Europarlamento senza aver trovato il tempo di imbastire una discussione, con relativo pronunciamento, nel proprio Parlamento nazionale. Imbarazzo che cresce ulteriormente considerando che il governo di Matteo Renzi si fa vanto di aver conquistato nella Commissione Ue guidata da Juncker la prestigiosa poltrona di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione, con la ex titolare della Farnesina Federica Mogherini, peraltro da sempre più sensibile alle ragioni dei palestinesi («Penso che Gerusalemme possa e debba essere capitale di due Stati», ha dichiarato lo scorso 8 novembre da Ramallah nella sua prima missione da Lady Pesc) di quanto sembri esserlo il suo successore alla guida della diplomazia italiana, Paolo Gentiloni.

Il punto di svolta ha una data: 2 dicembre 2014, il giorno in cui l’Assemblea nazionale francese ha votato la mozione sul riconoscimento dello Stato palestinese. Il risultato è netto: 339 favorevoli, 151 contrari, 16 astenuti. Prima del voto, a inizio dibattito, a prendere la parola a nome del governo è stato il ministro degli Esteri Laurent Fabius: il voto, ha affermato, «è utile per porre fine al conflitto» e ha continuato: «Ci vorrebbe una risoluzione Onu, un appoggio internazionale per riaprire dei negoziati periodici. Se nell’arco di due anni tutto questo non sarà stato ancora fatto ci sarà una riconoscimento unilaterale da parte della Francia. Il nostro Paese è pronto a prendere l’iniziativa per riportare la pace in Medio Oriente». E ancora: «Dobbiamo fissare un calendario poiché dobbiamo convincere che questa volta non si tratterà di un ennesimo processo senza prospettive reali» e conclude, senza lasciare spazio a dubbi: «La Francia è amica sia del popolo israeliano che di quello palestinese». All’irritazione del governo israeliano fa da contraltare la soddisfazione della leadership palestinese: «La decisione francese incoraggerà senza alcun dubbio il riconoscimento della Palestina in Europa. Malgrado le pressioni americane e israeliane, e quelle della lobby ebraica, il Parlamento francese ha espresso la volontà di un popolo che sostiene la libertà e denuncia l’occupazione», osserva il ministro degli Esteri dell’Anp, Riyad al-Malki. Si dirà che la Francia gauchista ha rialzato, almeno una volta, la testa, imponendo il suo punto di vista “filopalestinese”. Lettura semplicistica, perché non tiene conto di ciò che, due settimane prima del 2 dicembre, era accaduto nel Parlamento di un altro grande Paese euromediterraneo: la Spagna.

Il 18 Novembre la Camera bassa di Madrid ha approvato all’unanimità una mozione che il principale partito dell’opposizione, il Ps di Pedro Sánchez, ha concordato con il governo popolare (centrodestra) del premier Mariano Rajoy sul riconoscimento dello Stato palestinese. «Il riconoscimento formale e simbolico dello Stato palestinese servirà per spingere il dialogo di pace, fermo dallo scorso aprile», sostiene la socialista Trinidad Jiménez, ex ministra degli Esteri con Zapatero. Il testo impegna il governo a «riconoscere la Palestina come Stato, soggetto di diritto internazionale», riaffermando «la convinzione che l’unica soluzione possibile per il conflitto è la coesistenza di due Stati, Israele e Palestina». Nel testo della risoluzione si chiede inoltre che ci sia un negoziato di pace e che siano rispettati gli interessi del governo di Tel Aviv. Il capo della diplomazia di Madrid, García-Margallo (Ppe), ha comunque puntualizzato che tale riconoscimento avverrà anche «se questi negoziati si rivelano impossibili o se vengono ritardati senza giustificazione». «Abbiamo la sensazione», ha aggiunto, «che il tempo stia finendo. O facciamo qualcosa con una certa rapidità o la soluzione dei due Stati sarà, anche fisicamente, impossibile».

Concetto, quest’ultimo, che è alla base della decisione assunta dal governo svedese, il 30 Ottobre scorso, di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. «Il riconoscimento è un contributo a un futuro migliore per una regione che troppo a lungo è stata caratterizzata da negoziati congelati, distruzione, frustrazione», aveva rimarcato in quell’occasione il ministro degli Esteri di Stoccolma, Margot Wallstrom, aggiungendo che «secondo alcuni questa decisione è prematura, ma io temo che sia invece tardiva». Glaciale è stata la risposta del ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman: «La Svezia dovrebbe comprendere che la situazione in Medio Oriente è molto più complessa che non i mobili dell’Ikea».

Ma intanto l’Europa registra tre voti trasversali alle grandi famiglie politiche del continente, (Popolari e Socialisti) in Francia, Spagna, Gran Bretagna. E l’Italia? In attesa, non si sa quanto lunga, di un dibattito parlamentare, ci si accontenta del question time. Quello, alla Camera (26 novembre) in cui il neo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha affermato che «l’obiettivo del riconoscimento dello Stato palestinese è sul tavolo, ma a nostro avviso deve intervenire nel momento in cui sarà più utile ai fini del rilancio del negoziato». Peccato che quel momento non si intravede, visto anche che Netanyahu ha deciso di far fuori dal suo governo due ministri centristi, Tzipi Livni (Giustizia) e Yair Lapid (Finanze), colpevoli di aver votato contro una bozza di legge che definisce Israele “Stato della nazione ebraica”. In più, il primo ministro ha deciso di andare a elezioni anticipate, fissate per il 17 marzo 2015. E in piena campagna elettorale, tra insediamenti da inaugurare, l’ultranazionalismo da cavalcare e una “etnocrazia” da cementare, è davvero impensabile che Netanyahu e i suoi alleati ancor più a destra, abbiamo tempo e voglia di negoziare con il “nemico” palestinese.

Ogni maledetta domenica

Sembra che sia stato il presidente Sarkozy in persona, e non uno dei suoi collaboratori, a telefonare quel giorno al proprietario dei magazzini Bonpoint di rue de Tournon, a Saint Germain-de-prés. «Scusa, non è che domani puoi aprire? Ho qui la moglie del presidente americano che vorrebbe fare acquisti, ma è domenica…». Era il luglio 2009, Obama era alla sua prima visita ufficiale in Francia e la moglie Michelle accompagnava le figlie a fare shopping nella Ville lumière. Ma niente da fare. La Francia, sottolineava Sarkozy, «non è un Paese moderno», e la domenica non si lavora, ci si riposa. Negozi chiusi e il presidente costretto a ricorrere al suo prestigio per ottenere due vestitini da bambine.

Sull’onda della brutta figura l’Assemblée approvava, un mese dopo, la legge che consente l’apertura domenicale dei negozi nelle regioni metropolitane con più di un milione di abitanti: Parigi, Marsiglia, Lille. Non ovunque, ma solo nelle zone considerate turistiche. A Parigi, questo vale solo per 7 aree dislocate in altrettanti arrondissement, ma non per posti come Boulevard Haussmann, dove hanno sede le Galeries Lafayette o i magazzini Printemps. Ora, però, il governo Hollande potrebbe porre fine a questa “anomalia”, consentendo l’apertura a ogni tipo di negozio in ogni zona della Francia. Potrebbe, ma non è detto che gli riesca: sui ritmi di lavoro dei francesi altri presidenti e altri premier prima di lui hanno sbattuto la testa. Perché nella patria delle 35 ore e del sindacato tra i più forti d’Europa, il giorno di riposo è sacro.

Oggi un’inedita (per la Francia) alleanza tra sinistra e cattolici guida le proteste contro il lavoro domenicale: questione di diritti salariali per gli uni e di rispetto del “giorno del Signore” per gli altri, ma il nemico è comune. Porta il nome di Emmanuel Macron, attuale ministro dell’Economia, che ha ereditato il dossier dimanche dal suo predecessore Arnaud Montebourg, andato via dal governo Valls sbattendo la porta. Montebourg aveva promesso una “Legge sulla crescita e il potere di acquisto”, Macron si limita a una “Legge per la crescita e le attività” in cui si parla di orari degli esercizi commerciali ma anche di regole per le professioni, di trasporto pubblico, di azionariato salariale.

Al pari dell’italiana “Legge Bersani”, la “Loi Macron” punta a far ripartire l’economia con le liberalizzazioni, in un momento in cui Parigi è sotto l’occhio attento di Berlino (e dell’Unione europea) per il mancato rispetto dei parametri economici. Ma l’opposizione al progetto di legge presentato il 10 dicembre non viene solo da destra, dove per altro i liberali sono favorevoli. A guidare la pattuglia dei contrari c’è Anne Hidalgo, da giugno scorso sindaco socialista di Parigi. Hidalgo ha istituito una Commissione d’informazione e valutazione (Mie) per calcolare gli effetti dell’apertura domenicale dei negozi, e i risultati non sono favorevoli a Macron: niente posti di lavoro in più, niente guadagni supplementari.

Se si apre la domenica, diminuiscono gli acquisti nel resto della settimana. Non si migliora la vita sociale – il 70 per cento degli addetti sono donne – non crescono le opportunità di carriera, non si stimola nemmeno il turismo. Insomma, un disastro secondo la Commissione, composta da eletti di tutti gli schieramenti ma con una buona maggioranza orientata a sinistra. Il Parti radicale de gauche (Prg) è il meno ostile, ma deve fare i conti con i consiglieri ambientalisti di Europe ecologié le verts (Eelv), nettamente contrari. Lapidario anche il sindacato, in particolare la Confédération française démocratique du travail (Cfdt, cioè la rappresentanza del commercio e dei servizi) che con 860mila aderenti è la prima associazione di lavoratori per numero di iscritti. Con una lettera aperta a Hollande, la Cfdt ha ricordato come prima cosa la scarsa coerenza del presidente: nel 2008, quando l’inquilino dell’Eliseo era ancora un semplice deputato, definiva il lavoro domenicale «un errore innanzitutto economico, ma soprattutto sociale».

Oggi Hollande ha cambiato idea (su questa come su tante altre cose) e dimenticato i suoi principi. Eppure, denuncia il sindacato, qui si parla di lavoro su base volontaria e con paga doppia solo per le imprese con più di 20 dipendenti – almeno nella versione originaria della proposta di legge. Il piccolo commercio continuerà a basarsi sul rapporto padrone/operaio che quasi mai è favorevole a quest’ultimo. Peggio, finirà per scomparire la definizione di “orario notturno” per la prestazione d’opera tra le 21 e le 24: oggi nel commercio, e domani? A chi sarà applicabile? Insomma, altro che sul piede di guerra, i sindacati stanno già affilando i coltelli.

La proposta di Macron, agli occhi di mezza Europa, non sembra tuttavia così scandalosa: si passerebbe da 5 a 12 domeniche l’anno di apertura, anche se i socialisti puntano a modificare la legge e stabilire il limite a 7. Resterebbe in ogni caso il diritto al riposo settimanale e nessun provvedimento disciplinare in caso di rifiuto, eppure i francesi non sono del tutto convinti che questa sia una buona idea. Intervistati come consumatori, la approvano al 62 per cento. Ma come lavoratori, solo il 40 si dice d’accordo. I favorevoli indicano l’esempio della Gran Bretagna, dove dal 1994 i negozi con superficie superiore a 280 etri quadrati possono aprire ogni domenica, anche se solo per sei ore; o della Svezia, dove dal 1972 gli orari sono completamente liberalizzati.

I detrattori fanno invece notare come in Germania, una delle economie più forti dell’Unione europea, sia vietato il lavoro sia la domenica sia nelle festività, con l’eccezione di 4 domeniche l’anno (8 a Berlino). Persino l’amato/odiato Belgio non consente il lavoro domenicale, tranne che per i negozi di bricolage – esattamente come la Francia – e non ha nessuna intenzione di modificare la sua normativa, nonostante le pressioni della Federazione belga del commercio (Comeos) che lo scorso 5 ottobre ha organizzato il primo Sunday ShopDay, con l’adesione di centinaia di negozi. Ma sotto sotto nemmeno i negozianti vorrebbero stare aperti di più: otto su dieci si accontentano delle domeniche previste. Del resto, a che pro vendere tutti giorni della settimana? Nel 2012 la domanda l’hanno posta al parlamento svedese Annika Lillemets e Stina Bergstrom, entrambe dei Verdi, chiedendo di vietare le domeniche lavorative. «Spendiamo per lo shopping in un anno più del bilancio che destiniamo all’istruzione», hanno scritto le deputate. «Smettere per almeno un giorno di comprare non può farci che del bene, a noi e all’ambiente. Un Buy nothing day alla settimana potrebbe darci più tempo per essere altro che clienti e consumatori: siamo amici, genitori, figli, amanti, giocatori di calcio, raccoglitori di funghi e molto altro ancora». Per adesso, però, sembra più conveniente essere spendaccioni.

Addio Enzo

Enzo Costa se ne è andato poco fa. Con la sua intelligenza e la sua ironia. Non ci sono altre parole. C’è solo il dolore e anche la rabbia per la perdita improvvisa di un uomo gentile e geniale. Addio Enzo, non ti dimenticheremo mai.

La quinta colonna ambientalista del Mediterraneo

All’inizio c’era solo Greenpeace e furono loro, per primi, a sottolineare la fragilità degli ecosistemi predati dall’uomo, sensibilizzando le coscienze dei cittadini di tutto il mondo. Erano gli anni 70 e il movimento ambientalista stava muovendo i suoi primi, faticosissimi, passi concreti. Oggi tutto è cambiato e i movimenti per la tutela ambientale si sono fatti più aggressivi, organizzano azioni clamorose per imporsi all’attenzione dei media.

Una nuova organizzazione, nata di recente, ha deciso di coinvolgere in prima persona i cittadini, in un’azione congiunta con le autorità governative, nella difesa dell’ecosistema marino. Questo è il manifesto programmatico di “The Black Fish”, fondata nel 2010 ad Amsterdam dal trentunenne olandese Wietse van der Werf e già attiva in buona parte dell’Europa con una rete di “citizen inspector network”.

“The Black Fish” è già pronta a operare anche nel nostro Paese, creando una vera e propria quinta colonna ambientalista. Di recente ha firmato un protocollo d’intesa con la Guardia costiera italiana – per il tramite della Capitaneria di Porto AMS di Messina – che sancisce la volontà comune di cooperare per la difesa dalla pesca illegale che sta martoriando il Mar Mediterraneo. Con l’obiettivo, nel prossimo futuro, di sottoporre la questione al governo italiano.

Mister van der Werf, com’è nata “The Black Fish”?

È nata quattro anni fa con l’intento di avere un maggiore coinvolgimento dei cittadini sul territorio europeo per contrastare l’overfishing (ovvero le pratiche di pesca intensiva, ndr). Ultimamente abbiamo focalizzato la nostra attività sul contrasto alla pesca illegale, ci battiamo per il rispetto delle norme già esistenti e per il rispetto del mare. The Black Fish non punta alla divulgazione, piuttosto vuole supportare l’attività di controllo e repressione già svolta dalle autorità. Crediamo molto nella formazione dei citizen inspectors che devono svolgere investigazioni nei porti e nei mercati, al fine di raccogliere prove degli illeciti.

Perché avete scelto di muovervi nel Mar Mediterraneo?

The Black Fish, nata ad Amsterdam nel 2010, si è allargata molto rapidamente; da subito ci siamo resi conto che il problema della pesca illegale è molto serio nel Mar Mediterraneo, a causa dell’uso di reti derivanti (bandite dalle Nazioni Unite già dal 1992, ndr), della dinamite e dello sforamento delle quote previste per la pesca del tonno rosso, con il conseguente declino della sua popolazione. Il Mar Mediterraneo è importante perché numerosissime specie vi si riproducono: per questo non possiamo far finta di nulla e voltarci dall’altra parte.

In cosa consiste il citizen inspector network?

È importante che il cittadino comune entri in contatto diretto con i frutti perversi della pesca illegale e le sue conseguenze dirette. Il citizen inspector, recandosi nei porti e nei mercati ittici, può trovarsi sotto gli occhi le prove concrete di attività di pesca illecita, come l’utilizzo di sistemi di pesca non consentiti o, più facilmente, trovare sul mercato o persino nel proprio piatto al ristorante esemplari di specie protette o magari sottomisura. La dichiarazione di intenti sottoscritta con l’Autorità portuale di Messina è la dimostrazione dell’efficacia di questo sistema.

Ma un comune cittadino come fa a diventare citizen inspector?

La passione e la sensibilità al tema sono i fattori determinanti. Dopo aver compilato l’application, online sul nostro sito (theblackfish.org), il candidato-ispettore nel corso di due settimane verrà istruito mediante corsi transnazionali, gestiti dai trainer veterani dell’associazione. Il training si concluderà con un esame, necessario per dimostrare d’aver acquisito il bagaglio nozionistico minimo ma soprattutto la giusta attitudine. Infine The Black Fish invierà il neo citizen inspector sul campo per svolgere investigazioni sotto copertura. L’obiettivo è quello di formare almeno 1.600 ispettori nei prossimi cinque anni.

Ma come raccolgono le prove i citizen inspector?

Dopo aver ricevuto la segnalazione del citizen inspector mediante un’applicazione dedicata sul proprio smartphone, l’associazione riceve i dati – sotto forma di video e foto georeferenziate – e dopo averli analizzati, valuta caso per caso come procedere, approfondendo le indagini o mettendosi immediatamente in contatto con le autorità locali.

Fin dove si spingerà “the Black Fish” per la protezione del mare?

Stiamo sfruttando gli oceani oltre ogni limite e se continuerà così nell’arco di quarant’anni al massimo gli oceani saranno vuoti. Dobbiamo essere molto ambiziosi. Noi siamo pronti per essere presenti in mare aperto, nei porti, nei mercati come nelle aule giudiziarie o a livello politico, a Bruxelles. Questa è una battaglia che dobbiamo assolutamente vincere, non ci sono altre opzioni. Il mare ci ha dato la vita, è arrivato il momento di restituirgli qualcosa».

Giornalismo 2.0: i professionisti della bufala

Autobus gratis per i Rom dal 1 Aprile. Decine di migliaia di condivisioni. Alcuni aerei rilasciano scie di agenti chimici utili a farci controllare dai guardiani del Nuovo ordine mondiale. Valanghe di visualizzazioni e persino una manifestazione per sensibilizzare sul tema, tenutasi a Modena nel dicembre 2013, con un centinaio di persone presenti. Per poi arrivare allo scandalo dei profughi che buttano via il cibo offerto nei centri di accoglienza, sino alla notizia della “dichiarazione” da pubblicare con urgenza su facebook, divenuta nuovamente virale negli ultimi giorni, per impedire che Zuckerberg utilizzi a proprio piacimento foto e contenuti che abbiamo pubblicato.

Tutte notizie false, naturalmente, ma che sono ugualmente riuscite a fare breccia e diffondersi in modo capillare nelle timeline degli utenti dei social network. Fenomeno folkloristico e innocuo? Non per il World Economic Forum che nel consueto report annuale del 2013 parlava della «disinformazione digitale di massa» come «uno dei principali rischi per la società moderna». Se si considera poi che gli iscritti a facebook hanno ormai superato quota 1,3 miliardi di utenti, più di 800 milioni dei quali vi accede quotidianamente, e che secondo una ricerca del Pew research center di Washington quasi il 30% degli americani usa i “social” per informarsi, allora la situazione si fa più seria.

In effetti la cosiddetta “omofilia”, ossia quel meccanismo che nel web 2.0 ci fa visualizzare contenuti vicini ai nostri gusti e alle nostre passioni, potrebbe far sottovalutare ai non amanti del genere la portata del bacino informativo del “falso” e del “sensazionalistico”: esso, in realtà, è alimentato da decine di siti specializzati, che fanno del “titolone choc”, del catenaccio infondatamente allarmista (cioè del clickbaiting, letteralmente “mettere esche per i click”) oppure della vera e propria “fandonia”, il loro core business. Cambia lo stile, ma lo scopo delle “testate” è lo stesso: acchiappare visualizzazioni da monetizzare con le pubblicità, a discapito della qualità dell’informazione. Più la notizia parla alla pancia dell’utente, solleticando appetiti “facili” come curiosità morbosa, invidia, razzismo, più essa trova mercato in questi luoghi, anche a costo di sfociare nell’assurdo.

Il blog Losai.eu, ad esempio, affianca la news di alcuni gay che avrebbero sputato a una donna incinta (fonte incontrovertibile: un commento su facebook di una certa Paola) alla riscoperta del geocentrismo, insabbiata dalle lobby petrolifere. Già perché complottismo, esoterismo, omofobia, tradizionalismo, xenofobia, vanno a braccetto in questa porzione di informazione: sono ben accette tutte quelle categorie che permettono di creare una “massa” e mettergli di fronte un nemico, come nella più classica ricetta di ogni populismo. Per giunta, nell’apertura del sito appena citato, è impresso il celebre versetto del vangelo di Giovanni: “conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”.

Citazione che esprime la stessa pretesa di autenticità e di autonomia dai poteri forti che si respira nel sito Tzetze.it, famoso per i lanci sensazionalistici, per i VERGOGNA! e i CLAMOROSO! scritti rigorosamente in maiuscolo e anche per il fatto che le sue notizie sono ospitate quotidianamente nel blog di Beppe Grillo. Piccolo particolare: Tzetze.it è di proprietà della Casaleggio Associati. L’obiettivo della testata, si legge, «è di promuovere l’informazione indipendente in Rete svincolandosi dai mainstream media e di pubblicare le notizie in funzione dell’importanza attribuita loro dagli utenti». La descrizione perfetta di un sito di contro-informazione.

Ed è proprio in luoghi con tali sembianze che i consumatori di mala-informazione si cibano di news. A sostenerlo è un gruppo di ricercatori delle Università di Lucca, Lione e della Northeastern di Boston che, tra il 1 settembre 2012 e il 28 febbraio 2013, hanno studiato un campione di 2,3 milioni di individui tra 50 pagine facebook suddivise in 3 categorie: media mainstream, informazione alternativa e pagine di attivismo politico. Nelle conclusioni della ricerca, si può leggere che «dei 1.279 utenti individuati per aver interagito con notizie scritte da troll, una percentuale dominante è costituita da utenti che interagiscono prevalentemente con fonti di informazione “alternativa”».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014

La metropoli come opera d’arte collettiva

«Poeticamente abita l’uomo», scriveva Hölderlin. Quel famoso distico del poeta tedesco torna a risuonare come un leitmotiv nel nuovo libro di Vincenzo Trione, Effetto città (Bompiani): un appassionato viaggio fra pittura, cinema e architettura, per raccontare una delle più affascinanti invenzioni umane, la città, le sue trasformazioni, le relazioni umane che la animano, le possibilità impreviste di incontro che può offrire.

Neodirettore del Padiglione Italia della 56esima Biennale d’arte di Venezia, in questa “opera mondo” di oltre ottocento pagine, Trione mette tutta la sua sensibilità di critico d’arte, le sue competenze di studioso di architettura, ma soprattutto dieci anni di ricerca, quasi ossessiva, andando a caccia di immagini pittoriche e cinematografiche capaci di rappresentare il vero volto di un paesaggio urbano (qualunque esso sia), la sua immagine invisibile e più profonda, il “genius loci”, le atmosfere che si respirano nelle sue strade, nelle sue piazze, nei suoi palazzi, ciò che lo rende unico.

Prendendo le distanze, già nelle prime pagine, dall’antimoderno Pasolini e dalla sua nostalgia per la campagna e le borgate pre moderne, l’avventura di Trione negli scenari metropolitani, quasi inevitabilmente, parte dalla Parigi di fine Ottocento, città moderna per antonomasia, di cui Baudelaire è stato forse il primo vero cantore, per proseguire poi a Vienna e nelle altre capitali delle avanguardie storiche, raggiungendo Mosca con Majakovskij («Le strade sono i nostri pennelli, le piazze sono le nostre tavolozze», disse nel 1918 lanciando una nuova poetica) e New York con artisti della diaspora come Rothko, fino ad arrivare alle post metropoli, alle megalopoli asiatiche, alle sterminate città che nell’orizzonte della globalizzazione sembrano crescere in maniera cacofonica o che invece, proprio nell’intreccio di culture diverse e lontane, riescono a trovare una nuova identità originale.

L’autore di Effetto città (il titolo è un evidente omaggio al film Effetto notte che Truffaut girò nel 1973) è profondamente innamorato del suo oggetto di studio e intrecciando discipline diverse (storia dell’arte, antropologia, letteratura, filosofia ecc) costruisce una trama avvincente che rende contagiosa questa sua passione. Basta “assaggiare” qualche paragrafo come, ad esempio, quello intitolato “Verso Vertov” in cui con i Passagenwerk di Benjamin, Vincenzo Trione invita idealmente il lettore a farsi flâneur, tuffandosi per le strade di Parigi per mettersi sulle tracce di Charles Baudelaire, «regista involontario» ne Il pittore della vita moderna, in cui tratteggiava «lo spettacolo inebriante della metropoli» invitando a scoprire i soggetti terribilmente seduttivi che la animano.

Per passare poi a romanzieri come Balzac e Hugo, come Melville e Poe che ne L’uomo della folla racconta il fascino avventuroso della città, attraverso la cronaca di uno sfioramento a distanza fra due conosciuti. E se sul grande schermo è stato Dziga Vertov uno dei primi registi a saper cogliere il senso della città come flusso vitale e organismo vivente in costante mutamento, sul piano della riflessione teorica, oltre al filosofo Georg Simmel, è stato il sociologo e urbanista Lewis Mumford a raccontare in modo positivo la metropoli, vedendola come «complessa orchestrazione di tempo e di spazio», come un’avvolgente sinfonia destinata a moltiplicare modelli e modi di espressione. «Il pensiero prende forma nelle città e a loro volta le forme urbane condizionano il pensiero», scriveva l’autore di Storia dell’utopia (1922)e di Passeggiando per New York (recentemente ripubblicati da Donzelli).

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014

L’Odissea dei profughi siriani

Un numero crescente di profughi siriani, dopo la chiusura della rotta libica, tenta di raggiungere il nord Europa attraversando la Grecia. Molti di loro vengono respinti da Atene già al confine con la Turchia, sul fiume Evros, con procedure sommarie che non rispettano il Regolamento Frontex e il Codice delle frontiere Schengen. Altri, con piccole barche, attraversano le acque dell’Egeo e dalla costa turca, da Izmir soprattutto, puntando verso le isole greche più vicine come Symi, Lesvos, Mitilene, per poi raggiungere Atene e Patrasso. Nella capitale molti tentano di ottenere un visto di ingresso (magari falso) per uno Stato della Ue che garantisca uno standard dignitoso di accoglienza, mentre i più poveri tentano il passaggio a piedi verso l’Albania, o la traversata in traghetto per Ancona o Venezia.

All’arrivo in Italia, come si è verificato il 6 dicembre ad Ancona, anche i profughi più vulnerabili, come i minori o le donne, possono essere respinti in poche ore. La procedura è «l’affido al comandante della nave», di solito sullo stesso traghetto con cui sono arrivati che li riporta indietro, sulla base di un accordo bilaterale tra Italia e Grecia del 1999. Un accordo che viola i principi di non respingimento e i divieti di espulsioni collettive affermati dalla Convenzione europea per i diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La recente condanna dell’Italia e della Grecia sul caso Sharifi e altri (profughi respinti nel 2008) non ha ancora modificato le prassi delle autorità di polizia, né prodotto una revisione sostanziale degli accordi tra Italia e Grecia.

Due profughi siriani che nei giorni scorsi avevano protestato in piazza Sintagma ad Atene per rivendicare livelli dignitosi di accoglienza e la possibilità di chiedere asilo in un altro Paese europeo, hanno perso la vita “per abbandono”. Ayman Ghazal, 50 anni, di Aleppo, dopo avere protestato davanti al Parlamento sarebbe morto nel tentativo di attraversare la frontiera greco-albanese per ipotermia, dopo aver attraversato un corso d’acqua gelida. L’altro profugo, dopo sei giorni di sciopero della fame, è stato trasportato direttamente da piazza Sintagma in un ospedale di Atene, nel quale sarebbe morto «per un attacco cardiaco» o, secondo altre fonti, per edema polmonare. Come al solito, dietro l’attacco cardiaco si possono nascondere le vere cause dei decessi. In questo periodo le condizioni atmosferiche in Grecia, e in particolare al confine con l’Albania, sono già durissime e mettono a dura prova la resistenza dei profughi che tentano il passaggio. Un pericolo che sono costretti ad affrontare a causa delle mancate risposte dell’Unione europea agli appelli che chiedono l’apertura di canali umanitari per i profughi siriani e la sospensione immediata del Regolamento di Dublino III, che inchioda i richiedenti asilo nel primo Paese di ingresso in Europa.

La Ue non può limitarsi a sospendere i rinvii verso la Grecia – imposti dal Regolamento di Dublino – e poi non aprire canali legali di ingresso dalla Grecia verso altri Paesi Ue . L’arrivo di un numero sempre più consistente di profughi siriani in Europa ha ormai tutte le caratteristiche di un “afflusso massiccio di sfollati”. Per questo l’Unione europea deve attivare gli strumenti e i canali della protezione temporanea previsti dalla Direttiva 2001/55/Ce, per decongestionare il sistema dell’asilo e consentire una mobilità secondaria nei diversi Paesi Ue senza sottostare ai ricatti dei trafficanti di terra. Una volta dotati di un documento provvisorio di soggiorno legale, e dunque della libertà di circolazione, i profughi dovrebbero avere riconosciuto il diritto di chiedere asilo dove hanno già legami familiari o sociali e in Paesi che abbiano sistemi di accoglienza rispettosi della dignità umana e del diritto al ricongiungimento familiare.

La società civile in Italia e in Europa, con un appello che ha già raccolto molte firme, chiede che si prendano azioni urgenti di monitoraggio della sicurezza e incolumità dei cittadini siriani ora presenti in Grecia, che venga loro garantito il trasferimento legale in altri Paesi dell’Unione europea per ricongiungimenti familiari o per richiedere la protezione internazionale. Una risposta di civiltà contro le politiche di morte praticate dalla Ue e dai governi dei Paesi europei che impediscono l’ingresso e il transito anche a chi scappa dalla guerra come i siriani. Adesso dei profughi in sciopero della fame in piazza Sintagma dovrà occuparsene la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Infatti gli avvocati greci sono riusciti a fare arrivare a Strasburgo un ricorso in via d’urgenza per ottenere la cessazione di quel trattamento inumano e degradante che la Grecia riserva ai profughi a causa del default del sistema di accoglienza e del blocco imposto dal Regolamento Dublino III. Ma occorrerà andare oltre i casi individuali, sui quali si pronuncerà presto la Corte, e ottenere l’apertura di canali legali umanitari sia per raggiungere gli Stati dell’area Schengen sia per muoversi al loro interno, in attesa che si dotino di sistemi di accoglienza dignitosi e fruibili a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Un Paese fuori controllo

Succede anni fa: una delegazione dei comitati del centro storico di Roma espone al prefetto un “dossier” fitto di abusi, irregolarità, palesi illegalità, con una mappa di catene di ristoranti e pizzerie che sono qui solo napoletane, là solo calabresi o siciliane. Il prefetto prende atto e tutto continua, come e peggio di prima.

Fino al solito magistrato che pazientemente individua la matrice malavitosa di quelle reti di locali di ristorazione, le sottrae alle varie mafie ponendole sotto amministrazione controllata. Erano legali quelle licenze? Quante attività illegali ci sono? Chi le controlla? Il Comune di Roma? La Camera di commercio? La Prefettura? Nei mesi scorsi la giunta Marino e il I Municipio, incalzati da campagne molto pressanti dei Comitati e di Nathalie Naim, consigliere del Municipio (Lista civica per Marino), hanno riportato ordine nella invasione dilagante dei tavolini, ridando un volto accettabile a piazza Navona e dintorni. Pochi giorni dopo, in qualche strada, tavolino “selvaggio” è ricomparso. Non c’è un vigile urbano che, a piedi o in bicicletta, passi a controllare ogni giorno e faccia rispettare leggi e regolamenti. La stragrande maggioranza dei vigili romani sta negli uffici, come la gran parte dei dipendenti dell’Ama pur aumentati di migliaia di unità con la Parentopoli targata Alemanno-Panzironi & Co.

Piccoli esempi? Mica tanto, e poi proprio questa illegalità diffusa e incontrollata è il brodo di coltura più fertile per il “pizzo” (di cui molto si parla, molto anche a Roma), per i lavori abusivi tutti in “nero”, per lo spaccio di droga, per tanti favori reciproci dei più pericolosi fra criminali e politici. Di fronte alla marea maleodorante che rischia di sommergere il Campidoglio provenendo dall’era Alemanno, dalle alleanze sistematiche fra “neri” e malavitosi organizzati, con qualche esponente del Pd però che figurerebbe “a libro paga”, possiamo soltanto alzare l’indice accusatore chiedendo ogni sorta di azzeramenti? O non dobbiamo anche analizzare le cause di simili percorsi perversi, le elusioni palesi delle regole e porvi al più presto rimedio?

Ha sostenuto di recente il presidente della Commissione nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone – già paragonato da Maurizio Gasparri, uno dei “vecchi” ormai delle centurie neofasciste, al dittatore cambogiano Pol Pot: «Dopo Tangentopoli si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi che in alcuni casi sono stati privatizzati, si è sventrato il sistema dei controlli sugli enti locali». Ma chi gli fa eco?

Cantone accusa la depenalizzazione del falso in bilancio, le prescrizioni troppo brevi, l’autoriciclaggio che rendono impuniti e impunibili tanti reati di corruzione, peculato, concussione. E conclude: «La lotta alla corruzione non può essere lasciata soltanto al giudice penale». Oggi è così. Quindi fa bene Renzi a proclamare «Via tutti i corrotti». Ma farebbe ancor meglio ad approvare la riforma della giustizia col falso in bilancio, l’autoriciclaggio e prescrizioni meno brevi. Da domani. E non invocare o attuare – come con lo Sblocca Italia – una “semplificazione” che elimina controlli tecnici invece più che mai fondamentali.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014

Alemao e la monetina

L’8 aprile 1990, domenica delle Palme. Per la 14esima di ritorno di serie A, si gioca Atalanta-Napoli. Tra due mesi esatti iniziano i Mondiali la cui partita inaugurale è prevista al Meazza di San Siro: uno dei 12 impianti tirati a lucido per l’Expo del pallone più importante del pianeta.

La finale, naturalmente, spetta all’Olimpico: il salotto buono del sindaco di Roma Franco Carraro, contemporaneamente ministro del Turismo e dello Spettacolo con delega allo Sport e costretto ad abdicare in favore di Carlo Tognoli, anch’egli con un passato da primo cittadino proprio di Milano, teatro più adatto, secondo Bettino Craxi in persona, ad ospitare l’atto conclusivo della kermesse.

Lo stadio di Bergamo invece non figura tra quelli ristrutturati. E se i napoletani in trasferta ne mettono a dura prova la resistenza, gli agitati tifosi di casa violentano le reti metalliche che separano i settori popolari dal prato verde. I ragazzi di Bigon, oggi in maglia rossa e privi di Careca, inseguono a un solo punto il Milan olandese di Arrigo Sacchi che, stando alle notizie provenienti da Bologna, appare disorientato nella ragnatela-champagne di Gigi Maifredi. Anche a Bergamo il risultato è fermo sullo 0-0.

Maradona guida l’attacco sgusciando come nessun altro su un campo umido e allentato, Mondonico si difende e punta tutto sul contropiede micidiale di Caniggia. A un quarto d’ora dalla fine, il brasiliano Ricardo Rogerio de Brito accusa un improvviso colpo in testa. Tra i tanti oggetti che piovono dall’alto, una moneta da 100 lire lo centra in pieno cranio attutita dalla chioma ormai meno folta e meno bionda alla quale il numero 5 napoletano deve il soprannome che lo accompagna fin dall’inizio della carriera: Alemao. In suo soccorso arriva Carmando, il massaggiatore abile nel tamponare il taglio e svelto nel suggerire: “Buttati giù! Statt‘ ’n terra!”. Alemao rimane a terra e viene sostituito dal giovane Gianfranco Zola prima di essere ricoverato all’ospedale di Bergamo e rimanervi in osservazione per 24 ore, necessarie a riscontrare un trauma cranico e a chiedere la vittoria a tavolino.

Passata la settimana santa, il tribunale sportivo esamina il referto dell’arbitro Agnolin e assegna i due punti al Napoli che, dopo il 3-0 casalingo rifilato al Bari nel turno del sabato di Pasqua, aggancia a quota 47 un Milan reduce dalla semifinale di ritorno di coppa Campioni a Monaco di Baviera e con in tasca il biglietto per il Prater di Vienna. L’Atalanta presenta ricorso, il giudice lo rigetta e perfino Silvio Berlusconi, precorrendo i tempi, rispetterà la sentenza. Il Belpaese, come al solito, si Il Napoli si aggiudica il campionato ’89-’90 grazie al discusso episodio di Bergamo.

La partita vinta a tavolino con l’Atalanta per colpa di un lancio di 100 lire e la monetina spacca in due: Milano contro Napoli, nord contro sud e, sulla tribuna politica di 90° minuto, Gianni Vasino contro Luigi Necco. Mancano due giornate al termine: si profila lo spettro di uno spareggio deleterio per i titolari che le due squadre regalano alla Nazionale. Penultimo turno: il Napoli passa 4-2 a Bologna e il Milan cade di nuovo nella “fatal Verona” dopo ben 17 anni grazie a due rigori negati, tre espulsi e un gol viziato da fuorigioco passivo.

È il sorpasso. A decidere l’assegnazione del titolo, quindi, non fu soltanto l’episodio della monetina di Alemao. Insieme a loro, infatti, l’arbitraggio di Rosario Lo Bello da Siracusa.

I mafiosi senza mafia

Ma a che serve la mafia? Non facile a dirsi. Malgrado intere biblioteche non esiste una risposta più convincente delle altre. Certo serve ai mafiosi che ci campano e, qualche volta, si arricchiscono. In parecchi casi serve a quelli che ne richiedono i servigi: ossia voti, appalti, concorrenze sleali, smaltimento di rifiuti.

Fintanto esiste una domanda di illegalità esisterà un’offerta illecita ed è inevitabile che questa offerta tenda prima o poi ad assumere i connotati di una vera e propria organizzazione. Se non ci fosse stata una domanda strutturata e complessa di merci non avremmo le catene di supermercati; così se non ci fosse una richiesta impetuosa di servizi illegali non avremmo il mercato della droga, della contraffazione, dei rifiuti illegali, della prostituzione e via seguitando.

Concetti banali dirà qualcuno. Però la stragrande maggioranza dei “mafiologi” concepisce la mafia come un’organizzazione dotata di un progetto di egemonia planetaria, capace di espandersi sulla base di scelte razionali, una diabolica Spectre. Tra costoro vi sono quelli che lamentano l’invasione mafiosa del mite Nord da parte delle cosche, senza dire che quelle che hanno trovato spazi devono il proprio successo alla domanda di mafia che quelle regioni hanno ormai stabilmente elaborato.

Le coppole vanno dove vengono chiamate; dove questo non accade al più riciclano, ma non operano come organizzazioni mafiose. In Europa e, per fortuna, in tante zone del Paese ci sono mafiosi senza la mafia; il ché, sia chiaro, è il minor danno e fa capire perché molti Stati non avvertano la necessità di una norma come il nostro articolo 416 bis. La mafia non può essere confusa con i mafiosi; la prima per operare ha bisogno di condizioni (assoggettamento, omertà, intimidazione) che in effetti sono molto complesse da replicare, mentre i mafiosi girano il mondo in lungo ed in largo curando i propri affari dove gli pare.

Cosa c’entra tutto questo con Mafia Capitale? Qualcosa c’entra. Ai tempi di Tangentopoli, e anche dopo, la corruzione era un monopolio quasi esclusivo delle organizzazioni politiche. I padroni del voto sceglievano i propri uomini e li collocavano in tutte i gangli della cosa pubblica. Una perfetta macchina da guerra in cui ogni capo corrente aveva la mappa precisa del proprio dominio dentro la burocrazia e con essa misurava la quantità delle proprie ricchezze.

Il partito leggero di Berlusconi e, da più di un decennio, l’organizzazione dello stesso centrosinistra hanno lasciato in libertà vassalli e valvassori e al feudalismo, corrotto ma efficiente, dei ras della politica si è sostituito un ceto anarchico e vorace che depreda senza avere alcun progetto che non sia quello di far soldi. Capi dipartimento, direttori, capi ufficio, capi struttura, primari, rettori si sono trovati improvvisamente emancipati dal dovere di dar conto ai padrini della politica che li avevano insediati nei loro scranni e si sono messi, come dire, a rubare in proprio. Dove per rubare non si intende solo il mettersi in tasca del denaro, ma anche il profittare delle funzioni pubbliche per costruire proprie reti di relazioni, efficaci e capillari.Oggi la “Camera stellata” dei potenti della burocrazia è un’Idra dalle mille teste con cui la politica deve fare i conti se vuole portare a casa un risultato. Per non parlare di quello che accade in Regioni e Comuni, dove l’emancipazione dell’amministrazione dalla politica ha ribaltato i ruoli: molti assessori sono prigionieri delle strutture e mendicano briciole di potere.

La magniloquenza di chi invita la politica a reagire e a rinnovarsi è un vano esercizio retorico. Il ceto politico non guida la burocrazia del Paese e, quindi, non guida il Paese, ma si limita a tentare un appeasement con un corpaccione inamovibile intento a bloccare ogni riforma e a soffocare ogni novità.

Da questo punto di vista la mafia di Carminati e Diotallevi (autoproclamatisi l’uno “re di Roma” e l’altro “boss dei boss”) assomiglia alla donnicciola della Colonna infame capace, con le proprie chiacchiere, di mandare a morte come untore un povero barbiere. Sia chiaro nel caos anarchico della corruzione romana (il solo comune di Roma ha un bilancio di circa 7 miliardi di euro, senza contare la sanità, i ministeri etc.) è inevitabile che qualcuno pensi di mettere un po’ d’ordine a suon di legnate e minacce e di ricavarne un guadagno. È la domanda di mafia, bellezza! verrebbe da dire. Si costruiscono relazioni illecite tra mascalzoni per cercare uno spazio in un mondo che viene sempre più divorato dal nulla che avanza come nella Storia infinita di Ende. Si porta a sistema la corruzione per adoperarla in favore degli amici e contro i nemici; la si organizza appunto.

Carminati e Diotallevi in molte conversazioni sembrano due maldestri apprendisti stregoni, lontani anni luce dai boss siciliani e calabresi. Una volta il fratello di Totò Riina conversando per caso con un giornalista ebbe a dire di Tommaso Buscetta: «Quello ha visto il mondo ed è uscito pazzo». Bella metafora per re e boss della Roma da mangiare.