Ora a chiederlo non sono “soltanto” i Parlamenti di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio e il governo della Svezia. Ora, a spronare l’Europa perché riconosca lo Stato palestinese, ci sono anche voci da Israele. Voci importanti, il meglio dell’intellighenzia di quel Paese. Ed è da qui, dalla “carica degli 800”, che occorre partire per rilanciare in Italia una campagna di sensibilizzazione di cui Left si sente parte attiva. E chiedere conto al Parlamento italiano del suo silenzio, di un pronunciamento rinviato nel tempo nonostante due mozioni (Sel e Movimento Cinque Stelle) depositate alla Camera dei Deputati e una al Senato.
Riconoscere la Palestina come Stato: è l’atto di coraggio politico che i tre maggiori scrittori israeliani, Abraham Yehoshua, Amos Oz e David Grossman, hanno rivolto nei giorni scorsi ai Parlamenti europei in una petizione firmata insieme ad altri 800 israeliani provenienti da tutti i settori della società civile. Tra i firmatari, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, l’ex ministro Yossi Sarid e Yael Dayan, figlia dell’eroe nazionale Moshe Dayan. «All’Europa chiediamo di mostrare una lungimiranza che manca completamente a coloro che oggi governano Israele», dichiara a Left Yael Dayan. E al primo ministro Netanyahu che liquida come pericolosa l’iniziativa, l’ex parlamentare laburista replica decisa: «Pericolosi sono lui e i suoi ministri propugnatori del Grande Israele, portatori di una ideologia messianico-nazionalista che non ha nulla a che vedere con il sionismo».
«La nostra è una petizione – rimarca a sua volta Abraham Yehoshua – che arriva in un momento in cui l’Europa mostra il suo atteggiamento più incline al riconoscimento. È un atto di incoraggiamento nell’ottica della soluzione dei due Stati, soprattutto a favore della ripresa di trattative di pace. Ma anche un appello al presidente palestinese Abu Mazen affinché non si allontani dal negoziato. Così come ci rivolgiamo ai settori moderati palestinesi».
L’obiettivo principale della petizione, sottolinea ancora Yehoshua, «è la soluzione di due Stati per due popoli: uno israeliano e uno palestinese. A partire dai confini del 1967. Quello che invece va evitato con forza è il rischio di uno Stato binazionale. Così come occorre mettere fine una volta per tutte alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori occupati e al deterioramento dei rapporti con i palestinesi. La petizione è stata già inviata al Parlamento danese, anch’esso in procinto di esprimersi favorevolmente sul riconoscimento dello Stato palestinese. E la stessa “luce verde” è prossima nella Camera bassa irlandese. Il Parlamento europeo si pronuncerà sul riconoscimento nella sessione plenaria di dicembre, dopo aver rimandato il voto (su pressione del Ppe) in un primo tempo previsto il 27 novembre.
L’Italia è così di fronte a un imbarazzante scenario: quello di dover prendere atto del voto dell’Europarlamento senza aver trovato il tempo di imbastire una discussione, con relativo pronunciamento, nel proprio Parlamento nazionale. Imbarazzo che cresce ulteriormente considerando che il governo di Matteo Renzi si fa vanto di aver conquistato nella Commissione Ue guidata da Juncker la prestigiosa poltrona di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione, con la ex titolare della Farnesina Federica Mogherini, peraltro da sempre più sensibile alle ragioni dei palestinesi («Penso che Gerusalemme possa e debba essere capitale di due Stati», ha dichiarato lo scorso 8 novembre da Ramallah nella sua prima missione da Lady Pesc) di quanto sembri esserlo il suo successore alla guida della diplomazia italiana, Paolo Gentiloni.
Il punto di svolta ha una data: 2 dicembre 2014, il giorno in cui l’Assemblea nazionale francese ha votato la mozione sul riconoscimento dello Stato palestinese. Il risultato è netto: 339 favorevoli, 151 contrari, 16 astenuti. Prima del voto, a inizio dibattito, a prendere la parola a nome del governo è stato il ministro degli Esteri Laurent Fabius: il voto, ha affermato, «è utile per porre fine al conflitto» e ha continuato: «Ci vorrebbe una risoluzione Onu, un appoggio internazionale per riaprire dei negoziati periodici. Se nell’arco di due anni tutto questo non sarà stato ancora fatto ci sarà una riconoscimento unilaterale da parte della Francia. Il nostro Paese è pronto a prendere l’iniziativa per riportare la pace in Medio Oriente». E ancora: «Dobbiamo fissare un calendario poiché dobbiamo convincere che questa volta non si tratterà di un ennesimo processo senza prospettive reali» e conclude, senza lasciare spazio a dubbi: «La Francia è amica sia del popolo israeliano che di quello palestinese». All’irritazione del governo israeliano fa da contraltare la soddisfazione della leadership palestinese: «La decisione francese incoraggerà senza alcun dubbio il riconoscimento della Palestina in Europa. Malgrado le pressioni americane e israeliane, e quelle della lobby ebraica, il Parlamento francese ha espresso la volontà di un popolo che sostiene la libertà e denuncia l’occupazione», osserva il ministro degli Esteri dell’Anp, Riyad al-Malki. Si dirà che la Francia gauchista ha rialzato, almeno una volta, la testa, imponendo il suo punto di vista “filopalestinese”. Lettura semplicistica, perché non tiene conto di ciò che, due settimane prima del 2 dicembre, era accaduto nel Parlamento di un altro grande Paese euromediterraneo: la Spagna.
Il 18 Novembre la Camera bassa di Madrid ha approvato all’unanimità una mozione che il principale partito dell’opposizione, il Ps di Pedro Sánchez, ha concordato con il governo popolare (centrodestra) del premier Mariano Rajoy sul riconoscimento dello Stato palestinese. «Il riconoscimento formale e simbolico dello Stato palestinese servirà per spingere il dialogo di pace, fermo dallo scorso aprile», sostiene la socialista Trinidad Jiménez, ex ministra degli Esteri con Zapatero. Il testo impegna il governo a «riconoscere la Palestina come Stato, soggetto di diritto internazionale», riaffermando «la convinzione che l’unica soluzione possibile per il conflitto è la coesistenza di due Stati, Israele e Palestina». Nel testo della risoluzione si chiede inoltre che ci sia un negoziato di pace e che siano rispettati gli interessi del governo di Tel Aviv. Il capo della diplomazia di Madrid, García-Margallo (Ppe), ha comunque puntualizzato che tale riconoscimento avverrà anche «se questi negoziati si rivelano impossibili o se vengono ritardati senza giustificazione». «Abbiamo la sensazione», ha aggiunto, «che il tempo stia finendo. O facciamo qualcosa con una certa rapidità o la soluzione dei due Stati sarà, anche fisicamente, impossibile».
Concetto, quest’ultimo, che è alla base della decisione assunta dal governo svedese, il 30 Ottobre scorso, di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. «Il riconoscimento è un contributo a un futuro migliore per una regione che troppo a lungo è stata caratterizzata da negoziati congelati, distruzione, frustrazione», aveva rimarcato in quell’occasione il ministro degli Esteri di Stoccolma, Margot Wallstrom, aggiungendo che «secondo alcuni questa decisione è prematura, ma io temo che sia invece tardiva». Glaciale è stata la risposta del ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman: «La Svezia dovrebbe comprendere che la situazione in Medio Oriente è molto più complessa che non i mobili dell’Ikea».
Ma intanto l’Europa registra tre voti trasversali alle grandi famiglie politiche del continente, (Popolari e Socialisti) in Francia, Spagna, Gran Bretagna. E l’Italia? In attesa, non si sa quanto lunga, di un dibattito parlamentare, ci si accontenta del question time. Quello, alla Camera (26 novembre) in cui il neo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha affermato che «l’obiettivo del riconoscimento dello Stato palestinese è sul tavolo, ma a nostro avviso deve intervenire nel momento in cui sarà più utile ai fini del rilancio del negoziato». Peccato che quel momento non si intravede, visto anche che Netanyahu ha deciso di far fuori dal suo governo due ministri centristi, Tzipi Livni (Giustizia) e Yair Lapid (Finanze), colpevoli di aver votato contro una bozza di legge che definisce Israele “Stato della nazione ebraica”. In più, il primo ministro ha deciso di andare a elezioni anticipate, fissate per il 17 marzo 2015. E in piena campagna elettorale, tra insediamenti da inaugurare, l’ultranazionalismo da cavalcare e una “etnocrazia” da cementare, è davvero impensabile che Netanyahu e i suoi alleati ancor più a destra, abbiamo tempo e voglia di negoziare con il “nemico” palestinese.









L’Odissea dei profughi siriani
Un numero crescente di profughi siriani, dopo la chiusura della rotta libica, tenta di raggiungere il nord Europa attraversando la Grecia. Molti di loro vengono respinti da Atene già al confine con la Turchia, sul fiume Evros, con procedure sommarie che non rispettano il Regolamento Frontex e il Codice delle frontiere Schengen. Altri, con piccole barche, attraversano le acque dell’Egeo e dalla costa turca, da Izmir soprattutto, puntando verso le isole greche più vicine come Symi, Lesvos, Mitilene, per poi raggiungere Atene e Patrasso. Nella capitale molti tentano di ottenere un visto di ingresso (magari falso) per uno Stato della Ue che garantisca uno standard dignitoso di accoglienza, mentre i più poveri tentano il passaggio a piedi verso l’Albania, o la traversata in traghetto per Ancona o Venezia.
All’arrivo in Italia, come si è verificato il 6 dicembre ad Ancona, anche i profughi più vulnerabili, come i minori o le donne, possono essere respinti in poche ore. La procedura è «l’affido al comandante della nave», di solito sullo stesso traghetto con cui sono arrivati che li riporta indietro, sulla base di un accordo bilaterale tra Italia e Grecia del 1999. Un accordo che viola i principi di non respingimento e i divieti di espulsioni collettive affermati dalla Convenzione europea per i diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La recente condanna dell’Italia e della Grecia sul caso Sharifi e altri (profughi respinti nel 2008) non ha ancora modificato le prassi delle autorità di polizia, né prodotto una revisione sostanziale degli accordi tra Italia e Grecia.
Due profughi siriani che nei giorni scorsi avevano protestato in piazza Sintagma ad Atene per rivendicare livelli dignitosi di accoglienza e la possibilità di chiedere asilo in un altro Paese europeo, hanno perso la vita “per abbandono”. Ayman Ghazal, 50 anni, di Aleppo, dopo avere protestato davanti al Parlamento sarebbe morto nel tentativo di attraversare la frontiera greco-albanese per ipotermia, dopo aver attraversato un corso d’acqua gelida. L’altro profugo, dopo sei giorni di sciopero della fame, è stato trasportato direttamente da piazza Sintagma in un ospedale di Atene, nel quale sarebbe morto «per un attacco cardiaco» o, secondo altre fonti, per edema polmonare. Come al solito, dietro l’attacco cardiaco si possono nascondere le vere cause dei decessi. In questo periodo le condizioni atmosferiche in Grecia, e in particolare al confine con l’Albania, sono già durissime e mettono a dura prova la resistenza dei profughi che tentano il passaggio. Un pericolo che sono costretti ad affrontare a causa delle mancate risposte dell’Unione europea agli appelli che chiedono l’apertura di canali umanitari per i profughi siriani e la sospensione immediata del Regolamento di Dublino III, che inchioda i richiedenti asilo nel primo Paese di ingresso in Europa.
La Ue non può limitarsi a sospendere i rinvii verso la Grecia – imposti dal Regolamento di Dublino – e poi non aprire canali legali di ingresso dalla Grecia verso altri Paesi Ue . L’arrivo di un numero sempre più consistente di profughi siriani in Europa ha ormai tutte le caratteristiche di un “afflusso massiccio di sfollati”. Per questo l’Unione europea deve attivare gli strumenti e i canali della protezione temporanea previsti dalla Direttiva 2001/55/Ce, per decongestionare il sistema dell’asilo e consentire una mobilità secondaria nei diversi Paesi Ue senza sottostare ai ricatti dei trafficanti di terra. Una volta dotati di un documento provvisorio di soggiorno legale, e dunque della libertà di circolazione, i profughi dovrebbero avere riconosciuto il diritto di chiedere asilo dove hanno già legami familiari o sociali e in Paesi che abbiano sistemi di accoglienza rispettosi della dignità umana e del diritto al ricongiungimento familiare.
La società civile in Italia e in Europa, con un appello che ha già raccolto molte firme, chiede che si prendano azioni urgenti di monitoraggio della sicurezza e incolumità dei cittadini siriani ora presenti in Grecia, che venga loro garantito il trasferimento legale in altri Paesi dell’Unione europea per ricongiungimenti familiari o per richiedere la protezione internazionale. Una risposta di civiltà contro le politiche di morte praticate dalla Ue e dai governi dei Paesi europei che impediscono l’ingresso e il transito anche a chi scappa dalla guerra come i siriani. Adesso dei profughi in sciopero della fame in piazza Sintagma dovrà occuparsene la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Infatti gli avvocati greci sono riusciti a fare arrivare a Strasburgo un ricorso in via d’urgenza per ottenere la cessazione di quel trattamento inumano e degradante che la Grecia riserva ai profughi a causa del default del sistema di accoglienza e del blocco imposto dal Regolamento Dublino III. Ma occorrerà andare oltre i casi individuali, sui quali si pronuncerà presto la Corte, e ottenere l’apertura di canali legali umanitari sia per raggiungere gli Stati dell’area Schengen sia per muoversi al loro interno, in attesa che si dotino di sistemi di accoglienza dignitosi e fruibili a tutti coloro che ne hanno bisogno.