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Chiara Saraceno: la famiglia naturale non esiste

Studiosa da molti anni della famiglia e delle sue trasformazioni, Chiara Saraceno nel suo ultimo libro Coppie e famiglie (Feltrinelli 2012) dichiara di voler «sollevare un po’ il velo dell’ovvietà che cela la complessità della famiglia come costruzione pienamente umana». Il racconto della sociologa, docente in passato all’Università di Torino e presso il Centro di ricerca sociale di Berlino, affronta i mutamenti significativi dell’essere coppia e dell’essere genitori, superando quelle definizioni che ormai non trovano più corrispondenza nella realtà. Perché, sostiene Saraceno, se c’è un campo in cui l’umanità si è sbizzarrita a inventare norme, valori e forme di relazioni, è proprio quello della famiglia.

Professoressa Saraceno, partiamo dalla festa della famiglia naturale promossa dalla regione Veneto per l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. È giusto parlare di famiglia naturale?

Non è mai stato giusto, perché non c’è niente di meno naturale della famiglia. Il che non vuol dire che è innaturale, certo. Ma la famiglia è una costruzione sociale, legale e normativa. Sono le norme che definiscono quali rapporti di sesso o di generazione sono familiari oppure no. E se noi guardiamo la famiglia da un punto di vista antropologico e storico, scopriamo che il modo in cui questo processo normativo è avvenuto è variato molto nel tempo e nello spazio. Ancora fino all’altro ieri, per esempio, si distingueva tra figli legittimi e figli naturali e qui il termine “naturale” vale meno di legittimo. Il contrario di quello che sostiene la Regione Veneto.

Lei parla di famiglia caleidoscopio, in cui le tessere sono le stesse – rapporti tra i sessi, generazioni, figli – ma che si combinano in maniera diversa a seconda del contesto.

Sì, un caleidoscopio, anche soggettivamente. Ricordo che ai miei studenti chiedevo di fare una lista con dentro chi consideravano famiglia. Scrivevano: una nonna sì e l’altra no, la compagna del padre, altre persone che magari non erano parenti, insomma la famiglia attraverso la colorazione degli affetti.

Il cambiamento della famiglia in Italia nella seconda metà del Novecento è avvenuto per merito delle donne?

Le donne, certo, ma anche grazie al movimento degli studenti, le lotte per i diritti civili. La famiglia è cambiata dentro l’eterosessualità del matrimonio proprio nei contenuti, negli obiettivi che ci si aspetta. Il motivo per cui oggi le persone omosessuali si sentono legittimate a considerarsi famiglia è fondato sulle trasformazioni della coppia eterosessuale. Nel momento in cui questa trova la sua giustificazione – parlo nell’Occidente democratico – nell’affettività reciproca, nella simmetrica uguaglianza, e non necessariamente nella riproduzione, che differenza c’è?

In Italia però le cosiddette famiglie Arcobaleno formate da persone omosessuali hanno una vita difficile…

Dal punto di vista soggettivo e sociale sono famiglie come tutte le altre. Anche dal punto di vista della parentela, perché ho incontrato dei nonni – pur non essendo biologici – molto fieri del loro status. Ma sulla carta queste non esistono come famiglie. Con la conseguenza che i bambini delle famiglie Arcobaleno hanno, dal punto di vista legale, una parentela molto ridotta, come accadeva ai figli naturali di un tempo.

Esiste una cesura tra la vita reale dei cittadini e le norme che la regolano?

In Italia sicuramente si. Tutto avviene con ritardo, come nel caso della riforma del diritto di famiglia del ’75. Allora lo Stato prese atto di un mutamento culturale dei rapporti tra uomo e donna e tra genitori e figli. In quest’ultimo caso, soprattutto, avvenne una rivoluzione copernicana, perché il diritto di famiglia in vigore fino a quel momento – il codice Rocco – imponeva una forte gerarchia e il figlio aveva solo doveri mentre i genitori avevano tutto il potere. Invece nel ’75 i figli diventano soggetti di diritto: una vera rivoluzione. Oggi i rapporti che le persone vivono come familiari, cioè asumendosene la responsabilità, si sono ulteriormente modificati: ci sono le convivenze e ci sono i figli naturali che sono uguali ai figli legittimi, senza più quella differenza che era rimasta nella riforma del ’75.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

Partiti per la tangente. Intervista a Nando Dalla Chiesa

«I partiti sono macchine in cui è consentito essere onesti, ma non combattere la disonestà». Sarà che siamo nel mezzo dell’inchiesta Roma Capitale, sarà che ha appena riletto Antonio Gramsci per l’edizione da lui curata de La questione meridionale (Melampo), ma Nando dalla Chiesa, professore di Sociologia alla Statale di Milano ed ex parlamentare con l’Ulivo, una vita in prima fila contro la mafia, va giù molto pesante nella sua analisi del rapporto tra politica e malaffare.

C’è una correlazione tra partiti poco partecipati e diffusione della corruzione?

Certo. Quello che sta accadendo deriva dal fatto che i meccanismi sono saltati. Un tempo le tangenti erano per il partito. Il fatto che adesso si rubi per sé indica un’altra etica della politica, strettamente legata a organizzazioni con sempre meno iscritti. Perché meno l’ambiente è pulito e trasparente, meno voglia c’è di partecipare. Un tempo le sezioni esercitavano un controllo territoriale: c’erano dei tratti morali fondati su una cultura condivisa, per cui si sapeva come vivevano i politici e cosa facevano – persino troppo. Oggi si accetta qualsiasi cosa: lo stile di vita delle persone non fa parte del dibattito pubblico. È giusto dividere il partito dall’amministrazione, ma doveva servire a rendere la cosa pubblica indipendente dalle pressioni di partito. Se invece significa farsi i fatti propri non è più funzionale a migliorare la qualità delle istituzioni. Anzi, le peggiora. Un conto è un circolo con 150 persone che partecipano perché credono in un ideale collettivo. Ma se la partecipazione è sempre più asciugata c’è chi punta a diventare membro del direttivo o a farsi candidare al consiglio comunale, nessuno fiata più. Nessuno contesta gli altri sapendo che poi la pagherà.

Quando è precipitata la situazione?

Tra gli anni Ottanta e Novanta c’è stata una sottrazione al controllo di partito dei comportamenti e delle scelte. Il meccanismo delle liste bloccate con il Porcellum ha fatto esplodere questa tendenza. Ormai c’è una grande forzatura da parte di chi controlla il partito a mettere i propri: passano gli “yes men”, non quelli che hanno più prestigio per vincere nei collegi uninominali. Questo fatto uccide qualsiasi partecipazione critica.

Nei circoli Pd ha mai sentito mal di pancia per questi fenomeni?

Viene inghiottito tutto. Se sollevi un problema, sei accusato di essere contro il partito. Nei circoli ho visto le stesse persone che facevano l’elogio di Veltroni sostenere Bersani e poi Renzi. Non è solo un problema di moralità, ma anche di decenza mentale. Mi rifiuto di andare in sedi dove la gente cambia entusiasticamente idea a seconda di chi comanda.

Veniamo all’inchiesta Mafia Capitale: c’erano indizi su quello che stava accadendo a Roma?

Gli avvocati che frequentavano i Cie o i Centri di prima accoglienza denunciavano da anni che le cooperative dai nomi più nobili facevano soldi a palate sugli immigrati, somministrando cibo rancido e incassando 35 euro al giorno. I testimoni lo raccontavano ai nostri corsi. Queste cose giravano. Eppure se a Roma 15 giorni fa andavi a dire “abbiamo un problema”, ti guardavano come un marziano: non venivi creduto. Questo significa non stare attenti a ciò che accade, alle persone che vengono frequentate. Se si pensa che la responsabile Welfare del Pd – quindi la persona che dovrebbe tracciare le politiche del partito nei confronti della cooperazione – scriveva a Buzzi «un bacio grande capo», è un pezzo di letteratura politica. Non è possibile che uno non si accorga di nulla. Adesso vengono fuori le facce più fetide di questa storia: se Roma è in mano a Carminati e Buzzi, ti immagini cosa ci fa la ‘ndrangheta? Se li mangia in un boccone! Per ora la mafia come organizzazione è venuta fuori poco, ma bisogna vedere cosa emergerà per davvero. La cosa migliore che ha fatto Mario Monti è di non aver candidato Roma alle Olimpiadi. Non finiremo mai di ringraziarlo, perché quelle che sembrano delle opportunità, in Italia sono delle sciagure.

Arriviamo così alla tesi del suo ultimo libro nel quale, rileggendo Gramsci, teorizza una colonizzazione “a rovescio” del Sud sul Nord.

È una colonizzazione silenziosa perché non viene combattuta. Persone legate alla ’ndrangheta riescono a stabilire rapporti con esponenti di tutti i partiti e della Pubblica amministrazione. E nei rispettivi ambiti non viene sollevato il problema, perché chi sta al Nord o al Centro pensa di non essere toccato dalla mafia. Il fatto di non vedere l’avversario agevola il nemico. Secondo punto: l’indisponibilità a pensare che il fenomeno coinvolga il partito. Vale per l’hinterland milanese, come per Roma o per Torino. Quando Gramsci scrive che, mentre gli intellettuali del Nord pensano all’impresa, alla ricerca e alle professioni, nello Stato entrano gli intellettuali del Sud, figli del ceto proprietario che ha sfruttato al massimo i contadini senza mai lavorare, ti dice che dentro lo Stato c’è una cultura parassitaria. Coglie bene il problema attuale, perché oggi tutto viene piegato a logiche particolaristiche, di rendita, di affari. Non voglio dire che tutto l’impiego pubblico sia così. Però basta guardare alla Sanità e scopri che la penetrazione calabrese è a macchia d’olio, a catena. È un meccanismo che si incontra col Nord attraverso il denaro. I partiti non governano questi fenomeni, anzi se ne fanno condizionare.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

Medio Oriente, ultima fermata Roma

Nel migliore dei casi saremmo in coda alla lista. Superati anche dal Portogallo. Oltre che da Gran Bretagna, Francia, Spagna, Danimarca, Belgio, Irlanda, Svezia… È inutile trincerarsi dietro l’intasamento di leggi da discutere in Aula. O far riferimento a pratiche, vere o presunte, ostruzionistiche che allungano a dismisura i tempi dei dibattiti. Scuse, per l’appunto.

Perché dietro la non volontà delle istituzioni rappresentative del Belpaese di pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato palestinese, c’è poco di tecnica parlamentare e molto di scelta politica. Una scelta di parte. La parte israeliana. O per meglio dire, dell’Israele che chiude la porta al dialogo, che colonizza i Territori palestinesi, che assedia Gaza, che delegittima ogni interlocutore negoziale, anche il più moderato, come lo è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Una doppia scelta di campo, dunque. Perché l’altra Israele non sembra aver ascolto a Palazzo Chigi e neanche alla Farnesina. È l’Israele che si riconosce nell’appello sottoscritto da 800 personalità del mondo della cultura, della scienza, delle arti israeliane, tra cui i tre più affermati scrittori contemporanei, Abraham Yehoshua, David Grossman, Amos Oz. Un appello rivolto ai Parlamenti europei che si conclude così: «La vostra iniziativa per riconoscere lo Stato di Palestina farà progredire le prospettive di pace e incoraggerà israeliani e palestinesi a porre fine al loro conflitto».

A sostegno di questa linea si sono pronunciati anche numerosi Nobel per la Pace presenti a Roma, dal 12 al 14 dicembre scorsi, per il 14esimo Summit mondiale dei Nobel. Tra questi, la donna divenuta il simbolo della “Primavera yemenita”, Tawakkul Karman, Nobel per la Pace 2011: «Il popolo palestinese», afferma, «lotta per un diritto inalienabile: quello di essere libero dall’oppressione e perché anche in Palestina venga ripristinata la legalità internazionale. Ogni persona che ha a cuore la libertà dovrebbe sostenere questa rivendicazione». «Sono profondamente convinta», aggiunge Karman, «che dare soluzione alla questione palestinese, riconoscendo il diritto di quel popolo a uno Stato, sarebbe un segnale importante che la comunità internazionale lancerebbe a tutto il mondo arabo e musulmano: la diplomazia, e non le armi, può sanare le ingiustizie. E che libertà e diritti hanno una cittadinanza universale, ed è per questi valori che si sono battuti in Egitto come in Tunisia, in Siria come nel mio Yemen milioni di donne e di uomini». Non c’è nulla di estremista, di “antisionista”, in queste affermazioni.

Eppure, l’Italia glissa, rinvia, trincerandosi dietro il mantra, ripetuto stancamente, che il nostro Paese, in sintonia con l’Europa, è per una pace fondata sulla soluzione “a due Stati”. Peccato che per lo Stato palestinese lo spazio fisico si assottigli di giorno in giorno. Vale in proposito la riflessione di Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, in una intervista concessa a Left nemmeno un mese fa: «Non c’è spazio per un vero Stato palestinese. Basta osservare la carta della Cisgiordania per rendersi conto che una Palestina indipendente potrebbe nascere solo dopo un’azione militare d’Israele contro i propri coloni. Mi pare improbabile». E lo sarà sempre più se l’Europa non agirà, sul piano politico-diplomatico, per lanciare un segnale chiaro. I Parlamenti dei più importanti Paesi euromediterranei lo hanno fatto, approvando mozioni votate dalla sinistra come dai conservatori.

All’appello continua a mancare l’Italia. Non è prudenza, è bene rimarcarlo, ma subalternità allo stato di cose esistenti. Sulla Palestina Matteo Renzi ha “cambiato verso”. In direzione di Tel Aviv. «Su Israele e Palestina Renzi dice cose che neanche tutte le destre messe insieme…». Ad affermarlo non è un pericoloso estremista filo-Hamas. Ma l’allora “capo” della Ditta Pd: Pierluigi Bersani. Era il primo dicembre 2012 e all’Onu l’Italia aveva scelto, in extremis, di votare a favore dell’innalzamento della Palestina a Stato osservatore delle Nazioni Unite, lo stesso status del Vaticano.

«Finalmente l’Italia ha ripreso la dignità di un profilo di politica estera» dopo un decennio in cui «ci ridevano dietro», fu la riflessione aggiuntiva di Bersani. Di diverso avviso era l’allora sfidante fiorentino: «talvolta Israele eccede nella difesa, e dobbiamo dirlo, ma è tempo che la sinistra pronunci parole inequivocabili sul diritto di Israele di vivere senza minacce». E poi Renzi aveva rincarato la dose: «Io non sono così sicuro che bisogna per forza votare sì (sul riconoscimento Onu della Palestina). Non è solo il governo italiano a mostrarsi titubante, lo sono anche gli inglesi ed altri…. Non sono d’accordo con Bersani sul fatto che la centralità di tutto sia il conflitto israelo-palestinese. Il problema è generale di tutta l’area del Medio Oriente. E al centro c’è l’Iran. Dobbiamo noi Europa per primi ascoltare il grido di dolore delle ragazze di Teheran. Se non risolviamo lì, non risolviamo il conflitto israelo-palestinese. A Gaza cosa c’è scritto, infatti? “Grazie Teheran”».

l’articolo integrale su left in edicola sabato 20 dicembre 2014

Hanno rottamato intere generazioni

Qualcuno era distratto quando è stato decurtato del 20% il finanziamento agli atenei, e continuava a essere distratto mentre il turn over era strozzato al 20% (fino all’anno scorso). Ora si è svegliato e può osservare i risultati matematici di tale politica: la rottamazione d’intere generazioni. Negli ultimi anni è avvenuto, infatti, un processo di precarizzazione impressionante nell’università: i docenti strutturati sono calati del 20% mentre i diversi contratti a tempo determinato sono raddoppiati, con il risultato che oggi meno del 50% del personale universitario che svolge didattica e ricerca ha contratti a tempo indeterminato. Il problema di oggi è che migliaia di questi giovani ricercatori sono già stati, o sono sul punto di essere espulsi dal sistema nei prossimi mesi, in quanto il loro contratto non può essere rinnovato per limiti di legge e non vi è possibilità di fare dei concorsi per assumerli.

Questo risultato non è casuale, piuttosto è un esempio evidente degli effetti del problema del sub-appalto della politica. “L’epocale riforma Gelmini”, varata dal governo meno interessato alla ricerca e alla cultura dal dopoguerra, è stata scritta, appoggiata e sostenuta dai “poteri forti” del Paese, ovvero Confindustria, con gli organi preposti (Treelle, Fondazione Agnelli, ecc.), che, vedendo nell’università un modo per formare quadri aziendali gratis e per avere un ufficio studi a costo zero, chiede di fornire formazione e ricerca ritagliate sulle esigenze del momento, spesso di corto respiro: sia il centro destra che il Partito democratico hanno delegato in toto a questi soggetti il ruolo di determinare la politica universitaria dalla riforma Gelmini a oggi.

L’opera di smantellamento prosegue dunque senza intoppi, appoggiata dall’indecente teatrino dei soliti editorialisti che spiegano che così s’introduce il merito, che bisogna puntare sull’eccellenza, che finalmente si fa la valutazione, ecc. Di fronte a questo spregiudicato e folle attacco la reazione del mondo universitario è però ben descritta dal grande George Orwell nel suo capolavoro 1984: «Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi».

Cristina Donà, dritto negli occhi

L’incantautrice. È così che i più conoscono Cristina Donà. Milanese d’origine e bergamasca d’adozione, Cristina calca i palcoscenici da più di 20 anni. Da quel 15 gennaio 1991, quando aprì – giovanissima – un concerto degli Afterhours. Un’artista da «quattro stelle», tante quante ne diede Robert Wyatt, il genio britannico fondatore dei Soft machine, al suo album d’esordio Tregua (1997). Testi raffinati e note che rapiscono per otto album, fino ad arrivare all’ultimo lavoro – Così vicini (2014) – un invito a «guardarsi negli occhi».

Con Manuel Agnelli è stata di recente a Firenze per il contest rock. Sente la responsabilità nei confronti di chi comincia adesso?

Sì, mi metto nei loro panni. Ogni tanto penso che se dovessi iniziare adesso non saprei da che parte cominciare. Il mercato offre talent da una parte e Sanremo dall’altra, per chi non vuole prendere quella strada che rimane? Rimangono i contest, che sono un’alternativa valida. A Firenze ho trovato una buonissima qualità tra i partecipanti, sia nella musica che nelle parole. Sono contenta di avere avuto questo ruolo.

Perché è necessaria un’alternativa?

Il problema non è l’esistenza dei talent, ma che non esiste il resto. Sono dei contenitori musicali in cui la musica è vista come competizione e basta.

E si esalta l’esecuzione degli interpreti sacrificando l’originalità, e quindi la sperimentazione che quasi sempre arriva dal panorama indipendente.

Certo, è uno show, uno spettacolo, ci sono anche ragazzi davvero bravi e ammiro il loro coraggio nell’affrontare l’osservazione microscopica e i giudizi continui, io non sopporterei una cosa del genere. Però, come dici tu, manca chi sottolinea lo sviluppo della parte creativa che non deve essere per forza “pesante”. Invece la contrapposizione a quel certo tipo di spettacolo è vissuta così, come una cosa “difficile”.

Difficile e pesante, come i vecchi cantautori… lei presta molta attenzione ai testi, pensa che abbia ancora un senso parlare di cantautorato?

Sì. Le parole hanno un peso e un senso anche per gli adolescenti di oggi, lo dimostra il fatto che ascoltino prevalentemente rapper. Non sono tutti così banali o superficiali i “giovani di oggi”. Quello che mi spaventa non è che i ragazzi non siano predisposti ad accogliere dei testi particolari o nuovi, ma è proprio la parte musicale. La vera canzone pop è capace di arrivare a un tessuto complesso con leggerezza, senza diventare superficiali. Guarda De Andrè e De Gregori con quale leggerezza riescono ancora a fare breccia…

Ad ascoltare il suo ultimo album si sente una “leggerezza” rispetto al passato, una sorta di semplificazione. Quindi era voluto?

Sicuramente è un punto di arrivo e forse di una nuova partenza: riuscire ad avere un linguaggio che sia più diretto possibile. Musicalmente sono canzoni abbastanza complesse rispetto alle mie solite, la collaborazione con Saverio Lanza è andata volutamente ad arricchire – e non complicare – la parte musicale a fronte di una semplificazione dei testi. Ci ho lavorato moltissimo: son partita da file lunghissimi e ho scremato fin quando non ho ottenuto il succo di ogni canzone. Questo è legato a una mia esigenza personale, per me scrivere canzoni è un po’ terapeutico, mi aiuta a togliere i se e i ma che soprattutto nei primi lavori anche inconsciamente usavo moltissimo. Anche se più terapeutico ancora è salire su un palco…

intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

Manuel Agnelli, senza paura

Incontriamo Manuel Agnelli a Firenze prima della finale del Rock contest organizzato dell’emittente Controradio (Popolare network). Il musicista degli Afterhours è presidente di giuria della rassegna nazionale giunta alla sua ventiseiesima edizione. E all’interno della quale sono passati tanti nomi della scena indipendente italiana. È l’occasione per parlare con lui di vari aspetti legati alla musica del nostro Paese, dalla formazione alla politica culturale.

Manuel Agnelli, pochi giorni prima del Rock Contest lei era a Firenze per il Campus della musica, in una situazione didattica rivolta ad aspiranti musicisti. Come vede queste iniziative per sostenere i più giovani?

Portare la mia esperienza a ragazzi e musicisti che vogliono seguire questa strada spero sia utile a far sì che non compiano gli stessi errori che abbiamo fatto noi. Trovo giusto che chi ha avuto un minimo di visibilità si metta a disposizione degli altri anche per accorciare i tempi di maturazione dei progetti musicali a livello professionale e artistico. Conosco un sacco di gente di talento che non è riuscita a valorizzarlo perché mancavano le competenze. Firenze in questo periodo mi sembra vivace: ci sono delle eccellenze che organizzano queste manifestazioni e lo fanno con grandissima qualità.

Qui è nato il primo Meeting delle etichette indipendenti (Mei). Ha ancora un significato oggi usare il termine “indipendente”?

Dopo anni di oblio il termine indipendente potrebbe tornare ad avere un senso, perché si sono chiusi o ridimensionati un sacco di mezzi di informazione di un certo circuito. Parlare di indipendenza prima degli anni 80 voleva dire però partecipare a un sistema sociale che aveva vita propria con l’autoproduzione nel vero senso della parola. Costruisci un prodotto per poi venderlo all’interno di un sistema capitalista in un modo o nell’altro. Parlare di alternativa al sistema e ricrearla in piccolo è stata sempre la faccia un po’ ipocrita di questo mondo. Però negli anni 80 il fenomeno viveva di vita propria, poi dagli anni 90 ha iniziato a collassare. Negli ultimi anni si era ridotto a una serie di hobbysti che faceva i dischi per il piacere di farli. Non c’è nulla di male in questo, però la parte etica e sociale era crollata.

intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

L’ultimo graffio di Enzo Costa

Le pagine del calendario che trovate nel mezzo di questo numero, sono il tempo che Enzo Costa non ha più. Ci sono arrivate per mail la mattina del 15 dicembre, col consueto messaggio gentile e discreto: «Fammi sapere se lo ritenete adatto a Left». Enzo comunicava così, come nei suoi aforismi: non proponeva, ma suggeriva, poi era l’interlocutore, o il lettore, a dover decidere se entrare nelle piccole stanze che costruiva con le parole. Certo, se entravi non avevi scampo. Non c’erano sconti, indulgenze, possibilità di fraintendimento.

Enzo, sovversore dell’ordine semantico costituito, se n’è andato in un attimo, poche ore dopo, per una crisi cardiaca. Il suo ultimo lemma – “Onestà” – era già in pagina e lui aveva appena rilanciato su facebook il lemma del numero in edicola. Alle 16,51 è arrivato un messaggio dalla sua mail, ma non era suo: «Sono Aglaja, devo scrivere quello che mai avrei voluto scrivere: Enzo è morto poco fa. Scusate, non so aggiungere altro». Abbiamo sperato che fosse una specie di scherzo. L’incipit di un messaggio più lungo che si era interrotto. Come se fosse possibile che Enzo, almeno una volta, una sola, non prendesse sul serio il senso delle parole, che ha difeso eroicamente, strenuamente, fino allo sfinimento, per tutta la sua breve vita. Abbiamo insensatamente atteso il seguito, la battuta finale, il graffio. Abbiamo aperto il file del calendario e letto la frase che Enzo ha scritto nella prima pagina: «Ho avuto un incubo: andavo nel futuro con la macchina del tempo, ma poi non ho trovato un posto dove parcheggiarla».

Enzo ci redarguirebbe se provassimo a far passare quella frase come una premonizione. No, non credo proprio che avesse in mente la propria morte. Ha convissuto, come tutta la nostra generazione, con quella dei luoghi dello scrivere: era questa la morte che temeva. Ha sofferto come un lutto la chiusura de l’Unità, salendo subito dopo – generosamente, gratuitamente – su questa barca fragilissima. Anche per questo lo sentiremo al nostro fianco fino all’ultimo colpo di remi.

Ernesto de Martino e la tarantella psichedelica

Il tamburo si veste di suoni psichedelici. E la trance evocata dal battere iterativo, arcaico sulle percussioni diventa linguaggio della contemporaneità, fuori dai panorami folkorici nei quali è costretta, da anni, la musica tradizionale salentina.

Questo è il “messaggio” portato in scena dal nuovo album dei Kalàscima, Psichedelic Trance Tarantella (Ponderosa) che, piuttosto che offrire rassicuranti “cartoline dalla pizzica” si affida a una lettura digitale del ricchissimo patrimonio popolare di quest’area del sud, adesso così alla moda, per descrivere la vita oggi.

Kalascima, Psichedelic Trance Tarantella, leftI sogni, i desideri, le aspirazioni di una generazione che ha scelto di coltivare la passione contenuta in quel «cattivo passato che ritorna» (per citare l’Ernesto de Martino della Terra del Rmorso) e di farla passare per il filtro distorto di una nuova visione pop. I Kalàscima, fondati qualche anno fa da Riccardo Laganà, hanno girato il mondo, dall’Europa all’Australia, portando il loro sound in innumerevoli rassegne e festival, incontrando artisti di ogni provenienza con i quali stringere interessanti collaborazioni.

Come il cantante mongolo Bukhu, con il quale proprio in Australia hanno diviso il palco, prima di suonare insieme, la scorsa estate, in un ‘progetto speciale’ del Festival che nel Salento precede la Notte della Taranta.E, a proposito di collaborazioni, nel disco spicca la presenza del pianista Ludovico Einaudi, che il gruppo ha conosciuto durante i suoi due anni di direzione artistica del festival salentino. Da qui, l’invito a Laganà a far parte del suo ensemble (del quale adesso è uno dei componenti) e la sua partecipazione a Psychedelic Trance Tarantella.

Il brano è “Due mari” e gravita proprio intorno a un fraseggio minimale di pianoforte che dispiega tutta la forza ipnotica e tribale di questa musica. Per il resto, il disco si sviluppa attraverso una serie di racconti che passano dalle storie di riscatto possibile, personale e del Sud, a vivide rievocazioni. Come in “La rivolta dell’Arneo”, dedicata a quei contadini che si batterono nel 1950 perché la riforma agraria venisse applicata anche nell’agro dell’Arneo, «Perché la musica popolare – dicono – non deve avere solo una funzione spettacolare, ma deve essere anche memoria sociale».

A Napoli la Città della Scienza rinasce. Da giovani menti

Le immagini di quelle lingue di fuoco alte sei metri che si riflettono sul mare squarciando la notte del golfo di Pozzuoli hanno fatto in poche ore il giro d’Europa. Era il 4 marzo 2013, quando a seguito di un incendio doloso, i cui responsabili sono a tutt’oggi ignoti, il Science centre (Città della scienza) di Napoli, il primo museo scientifico interattivo d’Italia – che sorgeva a Bagnoli, nell’area industriale dell’ex Italsider nella periferia Ovest di Napoli – è stato ridotto ad un enorme cumulo di macerie. Eppure dopo poche settimane dal rogo, anche se tra scatoloni, spazi ridotti e mezzi di fortuna, i laboratori di scienza e creatività per grandi e piccoli, le attività didattiche, le mostre interattive e le conferenze avevano già ripreso ad abitare Città della Scienza. Che oggi, un anno e mezzo dopo il disastro, è tornata al pubblico ancora più viva.

Sono stati rafforzati molti filoni di attività e persino aperti segmenti nuovi come lo spazio Fablab dedicato ai makers e al mondo della fabbricazione digitale, l’area industria della conoscenza, con imprese associate che si occupano di nuove tecnologie, cresciute e ora stabilizzate sul territorio. Infine è stata inaugurata la nuova officina dei piccoli, uno spazio di circa 550 mq, interamente coperti, dedicato al mondo dell’infanzia con attività e programmi per rispondere alle esigenze dei più piccoli.

«Oggi Città della scienza è un complesso molto articolato di cose. Da un lato continua e si rafforza la nostra storica mission, quella con cui nel 1987 tutto ebbe inizio con Futuro remoto, la prima manifestazione di divulgazione scientifica realizzata in Europa, e cioè quella rendere la scienza non solo appannaggio degli esperti ma uno strumento di crescita democratica e partecipata, per tutti. Continuano anche le attività didattiche, le conferenze tematiche, un fortissimo legame con le scuole e tutte le attività legate alla filosofia della scienza hands on con cui è nato il nostro museo», spiega Luigi Amodio, direttore generale di Città della scienza. «Poi abbiamo sviluppato l’Incubatore di imprese, in cui selezioniamo e accogliamo giovani startup innovative accompagnandole nel percorso di crescita e inserimento nel mercato e infine un’area industria della conoscenza, una vera area industriale basata sulla conoscenza, in cui ospitiamo oltre venti aziende innovative operanti in diversi settori produttivi. Ma ci siamo dotati anche di un grande spazio eventi e congressi, con servizi altamente specializzati».

Senza soluzione di continuità, da dodici anni a questa parte la Città della scienza organizza una convention nazionale dedicata al mondo della scuola dal titolo Smart education and technology days in cui «circa 10mila docenti ogni anno raccontano la scuola pubblica mettendo a confronto buone pratiche ed esperienze didattiche realizzate in tutto il Paese», sottolinea Amodio. «Per quanto riguarda i centri di ricerca e le aziende innovative, abbiamo nel tempo sviluppato una forte vocazione all’internazionalizzazione, realizzando in particolare il sino-italian exchange event, un grande appuntamento di scambi commerciali tra Italia e Cina, una piattaforma riconosciuta dal governo cinese e da quello italiano per favorire l’incontro tra i sistemi innovativi dei due Paesi».

E mentre si cerca di sviluppare al massimo le attività nella Città della scienza si pensa anche alla ricostruzione.«Il 25 novembre scorso abbiamo presentato in una conferenza stampa al Parlamento europeo di Strasburgo il bando per la ricostruzione del nostro Science centre, distrutto lo scorso anno» racconta Amodio senza nascondere un certo orgoglio. «Un bando che è pensato e scritto per dare spazio ai giovani architetti e ingegneri, premiando creatività e innovazione per realizzare un edificio a emissioni zero che rispetti la nostra filosofia ma anche l’incanto del luogo in cui ci troviamo». L’area sarà valorizzata anche con una suggestiva passeggiata connessa a una spiaggia pubblica, che con la tecnica del ripascimento, sarà realizzata dal Comune di Napoli proprio nella parte antistante il nuovo museo.

Se Colin Firth viene tramutato in un mago cinese

Magic in the moonligh, l’ultimo film di Woody Allen presentato al Festival di Torino, è ora in sala. Il protagonista è Stanley (Colin Firth), famoso illusionista inglese, che veste i panni del mago cinese Wei Ling Soo e fa sparire elefanti e persone con il plauso entusiasta del pubblico. Viene contattato da un amico di vecchia data, affinché smascheri una sedicente medium (Emma Stone), che ha conquistato le attenzioni della ricca famiglia Catledge. La ragazza, Sophie, accompagnata dalla madre manager, pur essendo sospettata di essere un’imbrogliona, sin dal primo incontro, colpisce il razionale e cinico Stanley.

20141213_Locandina_Magic in the moonlighInvano egli cerca di capirne illusionismi e trucchi: le essenze ectoplasmatiche con cui comunica, le visioni mentali grazie alle quali predice il futuro, i tonfi con cui gli spiriti consolano i vivi durante le sedute medianiche. Dopo una sera al chiaro di luna, Stanley capitola e accetta le abilità della fanciulla, mantenendo il suo consueto aplomb. Solo quando arriva inatteso il confronto con la morte: il positivista, che non disdegna Nietzsche, si domanda se esista qualcos’altro oltre la verità scientifica, qualcosa che non comprendiamo razionalmente e che abbia a che fare con l’aldilà, ma i dubbi fortunatamente si dissolvono ad un esame obiettivo dei fatti.

Il tema ragione e irrazionalità, dubbio/ fede, di bergmaniana memoria, viene declinato da Allen in tono decisamente minore e fiacco. Dissertazioni e rovelli passano attraverso le parole e non suscitano reale empatia. Siamo lontani dalle atmosfere di Commedia Sexy in una notte di mezza estate e, rispetto ad altri recenti film – il migliore dei quali resta Basta che funzioni – si assiste a un’ulteriore perdita di vigore ed elasticità inventiva.

La vicenda è prevedibile, ma nelle commedie è la consuetudine; i dialoghi sono didascalici, anche se sostenuti dalla bravura encomiabile degli attori; il sorriso, che certe battute al vetriolo di Allen suscitavano, qui diventa stanca smorfia; le eleganti ambientazioni, la Germania anni Venti e il solare Midi francese, seppur fotografati da quel talento indiscutibile che è Khondji, risultano dei set glamour più intonati con il mondo della pubblicità che con la fiction romantica.

Il fine della commedia brillante, sofisticata o rocambolesca che sia, è provocare, insinuare, graffiare, oltre che far ridere, mettendo in scena il rapporto e la battaglia tra i sessi, le schermaglie e gli antagonismi , e soprattutto i corpi, maschile e femminile, qui imprigionati in una fissità composta che non tradisce mai sensualità, erotismo, stupore. Il gioco del ribaltamento è esangue. Cliché e codici del comico denunciano il loro conformismo, e verosimilmente ci si domanda come mai la bella Emma Stone si innamori del ruvido narcisista, Colin Firth, che la tratta da idiota e truffatrice per tre quarti della pellicola. L’intrattenimento leggero è comunque assicurato e ben confezionato, riscattato dall’idea di fondo, sintetizzata in una bella battuta: la vita è priva di senso ma non si può certo dire che sia priva di magia.