Home Blog Pagina 1378

Curre, curre guagliò. Ancor di più negli anni 2000

Sono passati vent’anni ma quei ragazzi corrono ancora. Sono i 99 Posse, la più anticapitalista, eterogenea e resistente banda che un centro sociale abbia mai generato dalle proprie mura. L’Officina99 di via Gianturco, zona est di Napoli: qui è iniziata la storia dei ragazzi della Posse che hanno realizzato il loro percorso attivo nella politica dei centri sociali occupati dando alle stampe Curre curre guaglio’, il disco d’esordio riproposto vent’anni dopo.

20141220_Musica_99PosseQuel concentrato di “odio mosso da amore”, interamente cantato in lingua napoletana, è diventato la colonna sonora di una Napoli che, proprio grazie ai movimenti Posse, sembrava svegliarsi dal torpore che per troppo tempo aveva attanagliato una terra bella e impossibile. Sono stati proprio i centri sociali occupati autogestiti, i “Csoa”, a riaccendere la scintilla, a riportare tutto in una dimensione di collettività e condivisione. Un’esperienza che spesso è andata a colmare le carenze di uno Stato assente, al punto da trasformarsi in un “sistema sociale” per i cittadini in difficoltà.

Almeno questa era l’intenzione, forse non sempre realizzata, che tuttavia ha avuto il merito di risvegliare parecchie coscienze, specialmente tra i giovani rincoglioniti dal disimpegno e dalla futilità degli anni Ottanta. Sono passati vent’anni, otto album, migliaia di concerti, una biografia appena data alle stampe (firmata da Rosario Dello Iacovo per Baldini & Castoldi) e i 99 Posse sono tornati con il “nuovo” album, Curre curre guaglio’ 2.0, praticamente l’esordio – ovvero il compendio di quel periodo speciale – ma in una nuova veste.

I testi sono gli stessi, ancora drammaticamente attuali, cantati in compagnia di nuovi e vecchi amici (Avitabile, Di Bella, Clementino, Caparezza…). I 99 sono sempre gli stessi, quelli di una volta, ma con vent’anni in più di Italia sulle spalle. Sono artisti militanti, la loro musica e le loro parole sono diventate colonne sonore di film e spettacoli, come quello andato in scena al teatro Ambra Garbatella di Roma, L’arte della commedia (ovvero impercettibili sfumature), lavoro teatrale firmato Eduardo De Filippo. Sono passati venti anni e quei ragazzi continuano a correre. Solo che adesso non si fanno più male perché hanno «’mparato a caré».

Applausi a scena aperta per l’Opera al cinema

L’ultima nota del Fidelio di Beethoven cade nel silenzio, Barenboim posa la bacchetta, scatta un applauso misurato eppure caloroso. Vi sembrerà naturale, essendo la fatidica “prima” della Scala di Milano, se non fosse che il sipario cala a centinaia di chilometri di distanza da quel battito di mani che cantanti e direttore non sentiranno mai. Prodigi della tecnologia: è la lirica trasmessa in diretta via satellite in oltre cento sale cinematografiche rispondendo al progetto partito nel 2006 “La stagione live Microcinema” e realizzato con la Rai.

In soldoni, come accade in altri Paesi, insieme al balletto e da un po’ al rock l’opera si concede su grande schermo e a prezzi più popolari. Salvo rari inciampi tecnici (il 7 dicembre 2012 in molti cinema la trasmissione cadde alla scena conclusiva e cruciale di un Don Giovanni scaligero), le immagini viaggiano ad alta risoluzione e il pubblico accorre: le tre dirette dal Metropolitan di New York di questo autunno hanno richiamato in 80 sale 7.800 persone (Le nozze di Figaro), 9mila (la Carmen), 9.200 (Il Barbiere di Siviglia). La “prima” milanese resta dura da battere: l’anno scorso Traviata attirò 30mila spettatori. Al momento in cui scriviamo, i dati per il Fidelio mancano.

In un multisala fiorentino, con un biglietto pagato 12 euro, lo spettatore medio di domenica 7 veleggia poco sotto i 60 anni. Corrisponde a quello della lirica live fino a un certo punto perché diversi teatri italiani stanno gradualmente ottenendo risultati nell’acclimatare i ragazzi all’opera. Tutti vestiti informalmente, ma qualche ingrediente della ritualità resta come attesta un episodio: calzanti interviste registrate agli artisti colmano il lungo intervallo, una signora chiacchiera al telefonino e un signore la apostrofa infuriato perché vada fuori. Comunque l’esperienza avvicina alla tv più che al cinema: le inquadrature di primi piani mostrano in tutta la loro fisicità gli occhi sgranati del soprano, la smorfia del tenore, il ghigno e la saliva del malvagio, il sudore dell’eroe. Fossimo a teatro non ce ne accorgeremmo.

Nel cinema la ricezione sonora è molto buona quando il volume è basso, quando sale da alcune poltrone avvertono qualche distorsione. Alla sua prima volta un quattordicenne, Amedeo, confida: «Fa un bell’effetto, si sente bene e mi piace molto vedere i cantanti così vicini». Anche per il padre Enrico è un esordio e introduce un confronto solo in apparenza lontano: «Mancherà l’atmosfera elettrizzante del teatro, però è un po’ come il calcio in televisione: possiamo apprezzare particolari che altrimenti non vedremmo». Altri spettatori lasciano intuire perché l’iniziativa sta attecchendo. Eleonora Negri: «Potrei mai andare alla “prima” della Scala? E apprezzo molto che nell’intervallo la Rai non ci rifili interviste sceme a signore in piume di struzzo ma faccia parlare gli artisti». «È una bella finestra sul rito – concorda Anna Meo – Sulla distanza ravvicinata delle telecamere distinguerei: stavolta la regia e il trucco dei cantanti lo permettevano, altre volte non è gradevole vedere il sudore che si squaglia sul viso». Maria Alberti si proclama una aficionada delle “prime” milanesi su grande schermo «altrimenti riservate a un pubblico esclusivo».

«L’opera al cinema invece che in diretta tv o su youtube coinvolge di più, mi pare dia più senso civile e collettivo allo spettacolo», concorda Andrea Aleardi. «Introduce però un germe pericoloso – fa da controcanto Anna – Poiché il numero di spettatori è indiscutibilmente maggiore, si rischia che la diretta vada a scapito dello spettacolo dal vivo». Teme insomma quanto è accaduto al calcio, ovvero un inchinarsi alle esigenze e allo strapotere televisivo. I numeri in effetti sono evidenti: la società Microcinema dichiara un balzo del 93% dei biglietti dal 2012 al 2013, «conferma una forte crescita» dal 2013 al 2014 e a fine stagione 2014-15 spera «di superare i 150mila spettatori con un Box Office complessivo di 1,3 milioni di euro». Anche se l’ingrediente essenziale resta quello: la musica dal vivo.

L’anno incredibile di Irene Brin

Che anno fantastico il 1952. Le macerie della guerra sono definitivamente alle spalle e il Paese è all’inizio di un miracolo economico e artistico senza precedenti. Per questo non esita Irene Brin a preferirlo quando l’editore genovese Immordino le propone di scrivere un libro su un anno a sua scelta.

Sarebbe uscito in una nuova collana per cui Camilla Cederna, fra gli altri, pubblicò con successo Le pervestite, raccolta di articoli sul 1967. Ma quando la collana debutta si è ormai nel ’68, anno di ribellioni e sovvertimenti che guardava al presente e al futuro, del passato avrebbe fatto volentieri un falò. Dei primi anni Cinquanta non interessava niente a nessuno, e il libro di Brin fu rifiutato fra mille imbarazzi finendo malinconicamente in un cassetto. Non se la sentiva la combattiva Irene di battagliare: era malata di un cancro che la uccise a 52 anni nel maggio dell’anno successivo.

Ora finalmente possiamo leggerlo quel libro finale, riemerso dalle sue carte col titolo che lei stessa gli diede: L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952. Lo ha pubblicato l’editore Viella in un’importante collana (“La memoria restituita. Fonti per la storia delle donne”) per la cura di Claudia Palma e corredato di due saggi illuminanti di Vittoria C. Caratozzolo e di Ilaria Schiaffini. «Fu l’anno che vide l’Italia, appena cicatrizzata e come sempre poverissima, esplodere fuori dai suoi confini in un’atmosfera di festa intelligente e stracciona» scrive Irene in apertura della sua cronaca, che è anche autobiografia ed è, soprattutto, biografia della nazione. Poco più avanti annota: «Avevamo una scelta, praticamente inesauribile di vocazioni e disperazioni».

E siamo subito al centro delle cose, quelle cose meravigliose che capitarono nel 1952. Tutta una febbre di vita, dolce vita, vita esagerata, vita spericolata e artistica, vita piena d’immaginazione e improvvisazione. La gente ha voglia di vita dopo tanta morte, ha voglia di frivolezza dopo tanto dolore. E chi meglio di Irene Brin può descrivere quella febbre, lei che – scoperta come giornalista dal grande Leo Longanesi – poliglotta e colta, non esita a buttarsi nella mischia e a diventare la prima e migliore «specialista di frivolezza»? È frivolezza il cinema, è frivolezza la moda, un poco anche l’arte, astratta, materica, informale sempre al centro di roboanti polemiche, che l’avvicinano al pubblico, sia pure fra tanti sberleffi, e la rendono mondana, argomento da salotto. C’è Brin dietro il made in Italy che finalmente porta i sarti italiani a fronteggiare gli indiscussi stilisti francesi. Quanti articoli scritti per spronare le sorelle Fendi e Fontana, i Pucci, gli Schuberth, Simonetta, giovani sarte e sarti intimiditi dall’alta moda parigina, a far valere le proprie idee.

La significativa coincidenza dell’uscita di questo libro con la mostra Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968, da poco inaugurata a Roma al MAXXI (fino al 3 maggio 2015) ci parla di frivolezza sì, ma una frivolezza che è spirito del tempo, uno spirito esuberante di rinascita e di rivalsa, uno spirito profondamente artistico. La splendida foto di Ugo Mulas, del ’51, che accoglie il visitatore con la schiera colorata delle modelle sull’Arno, sullo sfondo di Ponte Vecchio, ognuna che impugna un lungo remo eretto, guerriere di un nuovo mondo, contiene tutto: l’arte antica e moderna, la serietà e la leggerezza, il boom economico alle porte, il benessere, il sogno del progresso. E come nel libro della Brin si passa da una sfilata a Palazzo Pitti alle prime muffe di Burri esposte alla galleria l’Obelisco (Irene l’aveva fondata con il marito Gaspero del Corso che la dirigeva con estro e preveggenza), così nella mostra del MAXXI – che espone qualche tela dello stesso Burri, di Fontana, della Accardi, di Campigli, di Scheggi e di Capogrossi – si coglie l’unità di un comune pensare il moderno e come l’arte nuova influenzasse la creatività delle stoffe e del disegno nella moda.

Sì, l’Italia nel ’52 esplode come un immenso, pervasivo fuoco d’artificio, che però non morirà subito con lo spegnersi delle sue scintille, ma contagerà ogni campo dell’immaginario, collettivo e individuale. Alla radio si ascolta un motivetto che tutti canteranno: «Lo sai che i papaveri son alti alti alti…» e intanto si aprono nelle città come in provincia tante sale cinematografiche, tante sale da ballo. Ci si scatena nel rock ‘nd roll e intanto Ingrid Bergman s’innamora perdutamente di Roberto Rossellini “rubandolo” ad Anna Magnani e fra gli scandali viene a vivere in Italia. Brin racconta mese per mese, con affetto, ironia, nostalgia. Ecco le stranezze di Salvador Dalì che preferisce Roma a Parigi. Ecco l’ex galeotto Jean Genet, divenuto scrittore, mangiare fettuccine nelle bettole di Trastevere, mentre è conteso alle cene nei palazzi nobiliari. Ecco uno squattrinato Truman Capote che scrive un film sfortunato per Jennifer Jones e una sempre sbronza Carson McCullers: «Curiosa razza di disperati furbissimi, di nevrastenici sempre pronti a coglier l’occasione realmente favorevole per loro…»

Era l’anno in cui Maria Callas era ancora grassa e Marlene Dietrich, invece, non temeva di ingrassare, se Irene la incontra in un celebre ristorante romano raffreddata e carica di maglioni una sera di Ferragosto a divorare spaghetti, semplice ed estroversa. Era un tempo in cui ci si arrangiava con destrezza e la stessa Brin si trova, in mezzo a uno sciopero, ad attaccare da sola al muro i quadri di una mostra usando come martello i suoi tacchi a spillo! Ma l’esplosione non era dovuta solo ai colpi di testa di brillanti organizzatori culturali, come lei e suo marito: «L’Italia esplodeva, sì, grazie al merito degli artisti» scrive saggiamente. «Ma anche attraverso una rete di amicizie e di astuzie». Visto che lei non ha mai creduto «negli scambi culturali organizzati dagli addetti alle ambasciate». Era una rete fra gente appassionata e geniale, gente che poteva essere spietata e selettiva, ma mai, neanche vagamente, ladra e criminale. I tempi sono cambiati parecchio.

La pazzia di Mommy. Folgorante opera di Xavier Dolan

Vincitore a Cannes del premio della giuria (ex-aequo con Godard), Mommy è un film da non perdere. Il regista, Xavier Dolan, autore di 5 lungometraggi e un videoclip, a soli 25 anni firma un lavoro sorprendente per forza ritmica e originalità espressiva. Chi vi assiste ha la sensazione di essere proiettato in un vortice di furiosa energia, che colpisce duro la testa e il cuore e in cui tutti remano disperatamente tra i flutti di una vita avara di pienezza e felicità, selvaggiamente ostile, in balia di pulsioni manifeste e latenti, contrappunti interiori esasperati e dissonanti, patologie gravi e immersive.

20141220_Locandina_MommyEvidenti, per ammissione del regista, i riferimenti autobiografici. La vicenda mostra una madre 46enne, Diane, convocata d’urgenza dalla casa di recupero per minori, dove si trova suo figlio, Steve, affinché se lo riprenda: ha provocato un incendio, ha gravemente ustionato un compagno e, a detta della dirigente, è irrecuperabile. L’alternativa che le si offre è internarlo in una struttura psichiatrica, in virtù di una legge esistente in Canada, per cui i genitori possono decidere di farlo senza necessità di esami e perizie. In una casa fatiscente, dove regnano polvere e caos, madre e figlio si ritrovano a vivere insieme un complesso rapporto di odio e amore, incline a forme di erotismo compiaciuto e altre complicità. Violenti litigi e difficoltà economiche, aggressioni verbali e fisiche, crudeltà e ingiurie polverizzano il tentativo di darsi un’apparenza di normalità come famiglia. Finché non entra nella loro esistenza una vicina di casa, Keyla, ex insegnante in anno sabbatico, bloccata da una balbuzie ai limiti dell’afasia, che diventa amica della madre e riesce a stabilire un rapporto con il ragazzo, riavvicinandolo allo studio.

Tuttavia la trama non è prevedibile come ci si può immaginare. Non ci sono deus ex machina in questo dramma familiare e tantomeno gli stereotipi della madre anaffettiva e dell’adolescente border line. Ci sono semmai momenti che ricordano le lacrime amare di Fassbinder e l’urgenza di vita di Truffaut. Tra emozioni contrapposte e pensieri antitetici, i personaggi sono pericolosamente ambivalenti, vibranti e opachi: Steven è un ragazzo con un deficit dell’attenzione, iperattivo, violento eppure sensibile, a cui è venuto a mancare il padre; Diane è una donna sola, che ha sempre do-vuto combattere per tirarsi fuori dagli impicci, compresi i debiti lasciati dal marito, cinica e disillusa; Keyla ha perso il figlio e non sa più qual è il suo ruolo in famiglia e sulla terra.

A dispetto delle grida, tutto è segreto, sfuggente, intimo, intuito attraverso foto e rapidi accenni, come se la vita corresse altrove e l’ebbrezza condensata in pochi istanti di volo leggero sullo skate board potesse sanare le ferite del passato. La macchina da presa, in debito con la fluidità ossessiva di Cassavetes, non dà tregua agli straordinari attori ed esalta la concentrazione parossistica delle situazioni, tra eleganti intarsi di montaggio giocati sul contrasto tra sfocature e rallenti. Il flashforward sotto finale è un momento di effimera illusione e grande poesia delle immagini. L’alternanza dei formati della visione è un’apertura plastica al respiro e alla libertà, che disincaglia il pubblico dalla travolgente amarezza che suggella l’opera. Ma solo per un istante.

Commissari sulle tracce dell’unione

Il nuovo presidente della Commissione europea vuole una «lettura più politica» del patto di stabilità. Preferisce alla presidenza della Grecia «un volto già noto», nella fattispecie quello dell’ex commissario all’Ambiente Stravos Dimas, candidato della destra. Promette 315 miliardi per la crescita, ma non dispone di più di 21. Vuole lavorare affinché la Gran Bretagna resti nell’Unione (è uno dei 5 punti del suo programma) ma bacchetta il premier Cameron perché «fa politica sulla pelle degli immigrati». Si mostra flessibile sulle questioni economiche per accattivarsi Italia e Francia, però all’occorrenza si irrigidisce per non scontentare la Germania. Corteggia la Turchia ma minaccia la Russia, che di Ankara è alleata. Rigetta gli accordi sull’ambiente, tranne poi far marcia indietro in meno di 24 ore.

Aveva detto: «Avremo un cambio di passo», ma non aveva precisato che avrebbe scelto, almeno per il momento, il ritmo della giravolta. Jean-
, primo presidente della Commissione europea eletto dall’europarlamento, in 50 giorni di mandato ha collezionato gaffe, accuse pesanti (vedi il dossier Luxleaks) e schiaffi diplomatici, come la richiesta di mantenere Lady Ashton – ex Alto rappresentante – al tavolo dei negoziati sul nucleare iraniano. La sua Commissione si muove ancora incerta sulla direzione da prendere, in politica estera come nelle questioni comunitarie. Di certo c’è che Juncker ha ben chiaro che nonostante il suo sia un mandato più rappresentativo di quello del suo predecessore – lo ha scelto il Parlamento su indicazione dei partiti vincitori delle elezioni – il fossato tra opinione pubblica ed Europa, come ha detto di recente, «non è una invenzione dei populisti o degli euroscettici. Li si può accusare di averlo sfruttato, non di averlo creato».

Juncker vuole ricucire l’Europa al suo interno, ma intanto l’Europa deve capire come muoversi all’esterno, perché non c’è Unione senza una visione di insieme che tenga conto dei mutamenti globali. L’orizzonte dei prossimi anni è nero, tra le spinte razziste dell’estrema destra, presente in quasi tutti gli Stati membri, e l’incubo dell’Esercito islamico che bussa al Vecchio Continente. L’alleanza – sempre meno stretta – con gli Stati Uniti non può bastare, né la Nato può essere l’unico strumento difensivo su cui contare. Il mondo non si esaurisce sull’asse Usa-Ue, ora che i Paesi emergenti sono emersi e l’Europa è al centro di una regione sempre più debole sia politicamente che economicamente. A Est le prospettive non sono rosee e la politica di allargamento non produce in automatico miglioramenti nei Paesi interessati.

Finora «la strategia adottata ha consentito margini di manovra alla Russia», avvertono gli analisti europei del Carnegie endowment for international peace: a forza di fare richieste troppo pressanti in termini di governance, si rischia di perdere potenziali alleati e cederli a Mosca. «Ma occorre far capire alla Russia che non può impiantare un impero alla sua periferia», ribatte José Ignacio Torreblanca, direttore del progetto “Reinvention of Europe” dell’European council on foreign relations. «In questo senso il nuovo Alto rappresentante si è mosso bene, conciliando le diverse posizioni degli Stati membri e arrivando a una scelta comune». Ma le sanzioni, avverte la stessa lady Pesc Federica Mogherini, «sono efficaci all’interno di una strategia, non sono un fine in sé». Quale però sia la strategia, ancora non è chiaro. Che tipo di pericolo rappresenta Mosca? Da un lato la Polonia parla di «minaccia concreta che ha bisogno di una risposta “muscolosa”», dall’altro la Svezia per bocca del premier Kjell Stefan Löfven minimizza lo sconfinamento della Russia nel suo spazio aereo e marittimo. A chi dar retta? Di sicuro, lamenta Juncker, «troppi Stati membri dipendono da fonti energetiche concentrate a Est». Di conseguenza, finché la Ue non diventerà «il numero uno dell’energia rinnovabile» che Junker auspica, sarà bene tenerne conto nelle relazioni con il Cremlino.

Costruire partnership multilaterali per superare le crisi attuali e quelle future. Per molti questa è la strategia migliore su cui dovrebbe concentrarsi la nuova Commissione e il suo Alto rappresentante. Più che con gli Stati, dunque, l’approccio dovrà essere con le organizzazioni di cui fanno parte. In questo senso i primi passi di lady Pesc sono stati positivi, sostiene Torreblanca: «Mogherini ha spostato il suo ufficio nel palazzo della Commissione per lavorare con gli altri commissari. Sembra una cosa logica, ma con la signora Ashton non era così. È importante invece che l’Unione abbia un approccio globale a questioni globali e che queste vengano regolate dai commissari preposti». Ad Ankara, nelle scorse settimane, Mogherini è arrivata affiancata da due commissari. Ma non dovunque l’approccio funziona.

«Durante il pranzo, i ministri discuteranno la situazione in Libia». Così era scritto nel programma della riunione (il 15 dicembre scorso) del Consiglio Affari esteri della Ue. C’è da sperare che il pasto sia stato molto lungo e che i capi delle diplomazie europee siano arrivati a una conclusione concreta sulla “situazione in Libia”, peraltro determinata – anche, ma non solo – dalla fretta mostrata a suo tempo da alcuni Paesi europei. Un problema «per la sicurezza, per l’immigrazione irregolare e per le risorse energetiche», hanno sottolineato.

Negli ultimi mesi la Ue ha stretto una serie di accordi (persino riesumando la vecchia Unione per il Mediterraneo) per contrastare l’immigrazione via mare, che al 90 per cento ha come punto di partenza le coste libiche. Ma non ha una strategia per quello che riguarda il “nemico” reale, che per ora si chiama ancora Al Qaeda nel Maghreb islamico ma che si sta frantumando in fazioni sempre più propense ad allearsi con l’Esercito islamico. «La risposta deve essere politica», si ripete, ma nel frattempo alcuni Stati membri chiedono una opzione militare che gli Usa, è evidente, non garantiscono e che la Ue non ha i mezzi per garantire. Ma una presa di posizione forte sul Medioriente potrebbe arrivare con il voto sulla Palestina: un atto politico che Federica Mogherini sembra sostenere e che Juncker, ancora prima di essere Commissario, auspicava. «L’Europa farebbe anche un favore agli Stati Uniti», sostiene Torreblanca. «Washington non può fare alcuna pressione su Israele ma non disdegna che lo faccia Bruxelles, come nel gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. L’Unione può essere la leva attraverso la quale far capire a Netanyahu che per molti Paesi la pazienza è finita: inutile sostenere a parole una trattativa per la soluzione a due Stati se poi si crea una Nazione ebraica, che de facto ha chiuso i negoziati».

Il coraggio di Andrea Caterini

Si può tradire qualcuno in tanti modi. Ad esempio il figlio di una persona povera e semi-analfabeta in un certo senso “tradisce” il padre quando si immerge nella lettura, studia, diviene colto, si stacca dalla propria classe sociale (e non importa che così facendo corona una aspirazione frustrata del padre stesso). Giordano di Andrea Caterini (Fazi) è incardinato su questo “tradimento”, anche se apparentemente ce ne racconta un altro.

20141220_Libri_GiordanoIl guardiano notturno Giordano trascorre il propri tempo nel gabbiotto di un garage con i suoi cruciverba e un mazzo di fotografie. Ha scoperto la tresca tra la moglie Marilù e il suo migliore amico, anche lui fabbro ma con la passione della letteratura, Sandro (che rimprovera un critico letterario obiettandogli che i suoi libri sono comodi come la sua vita, «consolatori e consolanti»). Sempre Sandro diventa un interlocutore costante del figlio di Giordano, Diego, che studia filosofia, e che è poi l’io narrante del libro. Un romanzo concentrato, duro, riflessivo, che concede pochissimo alla fiction, ad una narratività distesa e rotonda.

Leggendolo mi chiedevo se non funzionasse meglio come testo teatrale, come una specie di monologo recitato in seconda persona. Il suo merito principale è di opporsi alla deriva nichilista e disperante del nostro tempo. Giordano, alla fine si salva perché capisce che per lui e la moglie l’unico vero tradimento è quello fatto ai danni del loro «sogno primigenio», dell’amore palpitante, eterno, che li unisce. E si salva proprio perché si è spogliato di tutto, e solo in una condizione di totale indigenza può schiudersi una luce di redenzione. Quanto a Diego, potrebbe anche lui riafferrare la dimensione della vita vivente solo se attraversa per intero la propria cultura libresca fino a ritrovare a relazione con gli altri (e con suo padre).

Nel libro si parla di santi che si risvegliano dopo essere stati sepolti vivi, e poi di acqua battesimale e resurrezione dei morti. George Orwell diceva che i santi sono colpevoli, fino a prova contraria. Ancora di più chi parla di santi. Di Andrea Caterini apprezzo il coraggio e la radicalità nel volersi misurare con temi così alti, ma forse oggi solo la lingua della poesia può davvero accostarsi a una “verticalità”.

La stabilità del cemento

Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità. Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la Legge di Stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti. Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa, appunto, con la Legge di Stabilità.

La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato, a sei giorni dalla sua uscita di scena per far posto al nuovo governo Berlusconi, elimina dal Testo Unico per l’edilizia su proposta del ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini (una lunga milizia a sinistra, prima nel Psi, poi nella Sinistra indipendente, nominato nel 2008 da Giulio Tremonti presidente della potente Cassa depositi e prestiti) un articolo-cardine, il n.12, della legge sui suoli n.10/1977 voluta dal repubblicano Pietro Bucalossi. Esso prescriveva che «i proventi delle concessioni e della sanzioni» dovevano essere versati in un conto corrente vincolato, per essere «destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali». Tutto cancellato. Da quel momento i Comuni – ai quali il governo centrale trasferisce sempre meno soldi – sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”, per la spesa corrente.

Una follia perché in tal modo i piani urbanistici vengono stravolti con cento varianti, pur di far correre l’edilizia che, non a caso, galoppa dal 2001 al 2008, sino alla gelata della recessione mondiale. A danno ovviamente dell’ambiente urbano e del paesaggio, a danno dei servizi primari e secondari da f
ornire ai cittadini. Nel primo caso strade, fogne, luce, gas, illuminazione pubblica, aree a verde, parcheggi, ecc. Nel secondo, asili, scuole materne e poi di ogni livello, consultori, chiese, verde attrezzato di quartiere e altro ancora.

Di più: quel denaro fresco che entra nella casse comunali col pagamento delle concessioni edilizie ha un effetto positivo effimero. Non nel medio e lungo periodo: fatti i dovuti investimenti nei servizi, al Comune, e quindi, alla lunga, ai suoi abitanti quel vorticare di concessioni edilizie tornerà in fronte come un boomerang. Con l’aggravante di ritrovarsi un territorio e un paesaggio degradato dall’abbinamento cemento+asfalto. Quel boom dei primi otto anni del nuovo secolo ha almeno sanato la “fame di case” a prezzo o a fitto equo, medio-basso? Neanche per sogno: si trattava di condominii, di ville e villette “di mercato”. Molte erano seconde e terze case destinate a sfasciare definitivamente territorio e paesaggio. Quindi la domanda di case economiche o sociali – per giovani coppie, per famiglie immigrate, ecc. – non ha ricevuto da questo boom edilizio risposte di sorta. Così si è creato un enorme stock di alloggi e di uffici vuoti, invenduti, sfitti, in tutte le città italiane, a fronte del quale fioccano le occupazioni di case, popolari e non.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

La sinistra che non piace ai mercati

Entro fine dicembre il parlamento greco dovrà decidere chi sarà il prossimo presidente della Repubblica Ellenica. Se non ci riuscirà, come appare probabile, saranno convocate le elezioni politiche. I sondaggi danno favorita Syriza, la forza della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras. E i mercati hanno già cominciato a impazzire, facendo schizzare i tassi di interesse sui titoli di stato.

La Grecia non è l’unico paese in cui un partito della sinistra radicale è in testa nei sondaggi. In Spagna guida le previsioni Podemos, la formazione nata dagli “Indignados”, in Irlanda lo Sinn Fein. Tre paesi appartenenti al gruppo dei “PIIGs”, tre partiti aderenti al gruppo della Sinistra nel parlamento europeo. Forze ostili all’austerità, ma non all’Europa, che non propongono come primo punto del loro programma l’uscita dall’euro, ma l’uscita dal liberismo e una ristrutturazione controllata del debito.

Syriza, in particolare, addirittura esclude esplicitamente l’abbandono dell’euro, ed è affiancata da economisti di alto profilo, come Yanis Varoufakis, che ha elaborato una “modesta proposta” per riformare l’eurozona, e il gruppo di economisti post keynesiani che fa capo al Levy Institute di New York. Joska Fischer, l’ex ministro degli esteri di Schroeder, considera Syriza “pericolosa”. Ma ha pubblicamente rivelato che il governo tedesco è pronto a trattare con Tsipras, per quanto la Merkel lo ritenga una controparte indesiderabile.

Eppure Mario Draghi lo ha ricevuto – cosa inconsueta non essendo Tsipras un capo di governo – e il leader di Syriza ha assicurato che è sua intenzione trovare un compromesso con il capo della BCE. Podemos, che ha ormai scelto la via socialdemocratica, ha recentemente presentato il suo programma economico, in cui propone una riforma dell’eurozona basata su un ruolo attivo della BCE, ben consapevole che l’attuale assetto istituzionale genera spinte deflazionistiche autodistruttive e impedisce qualsiasi intervento sul lato della domanda.

E allora forse è il caso di dare un po’ di credito a questa “uscita da sinistra” dalla crisi. Essa non può che passare attraverso la disubbidienza ai trattati e alle imposizioni della Troika. Se la Germania è disposta a trattare con il piccolo debitore Grecia, allora l’Italia, che è “too big to fail”, potrebbe fare la differenza, se solo volesse. Senza neppure aver bisogno di agitare l’arma spuntata dell’uscita dall’euro.

Un paradosso chiamato famiglia

La Regione Veneto ha istituito la festa della famiglia naturale da celebrarsi l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. Con la delibera del 28 novembre la giunta leghista di Zaia ha voluto «valorizzare il pilastro della nostra società» e riconoscere «valori indiscutibili che discendono da leggi millenarie della natura». Sì, ma di chi parlano gli amministratori veneti?

Si fa presto a dire famiglia. Perché darne una definizione non è così semplice, e per quanto ci abbiano provato sociologi, esperti di statistica e giuristi, c’è sempre qualcosa che sfugge alle classificazioni. C’è la famiglia anagrafica che si basa sulla residenza in comune ma c’è anche quella legale stabilita dal vincolo del matrimonio e dalla genitorialità. E spesso non coincidono. Ma c’è pure la famiglia sociale che si fonda su interessi comuni e, non meno importante, quella degli affetti, dove rientrano anche gli amici e qualcuno arriva a dire, perché no, anche il cane o il gatto.

Continuando nell’analisi ci sono le famiglie ricostituite, formate da genitori provenienti da altri matrimoni con figli al seguito. Quelle con più nuclei, rappresentate da nonni con figli e nipoti che vivono sotto lo stesso tetto. Se invece si parla di separazioni emerge il fenomeno della famiglia monogenitoriale spesso rappresentata dalla sola madre. Ma nell’ambito della libertà di vincoli affettivi si assiste sempre più spesso al fenomeno delle famiglie Lat (Living apart together), coloro che sono uniti da una relazione ma che, per vari motivi, vivono separati. E poi ci sono le famiglie Arcobaleno, coppie di persone omosessuali con figli. Per non dimenticare il vero e proprio esercito: le famiglie unipersonali o mononucleari, vedovi o single che siano.

«Insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o affettivi», così l’Istat per il censimento del 2001 definiva la famiglia. Già con notevoli cambiamenti rispetto alle precedenti indagini, perché viene meno quella che nel 1981 era considerata una caratteristica del nucleo familiare, e cioè il bilancio comune. La famiglia evolve, seguendo anche i mutamenti dell’economia. E l’attività produttiva (o la proprietà dei beni) che spesso contraddistingueva la famiglia mezzadrile toscana o quella artigianale del Nord Italia, non è più vincolata al legame parentale.

L’ultima fotografia scattata dall’Istat alle relazioni tra cittadini è ben diversa da quella immaginata dalla Regione Veneto. La famiglia nucleare composta da padre, madre e figli infatti rappresenta sempre meno la realtà italiana. Le famiglie coniugate con figli che, nel 1998 per esempio erano il 46 %, nel 2011 sono scese al 36,4 per cento. In Italia una famiglia su tre è ormai costituita da una sola persona: erano il 24,9 per cento del totale nel 2001 mentre nel 2011 sono arrivate a 31,2 % (7 milioni e 667mila). Le cause sono il progressivo invecchiamento e quindi l’alto numero di vedovi (4 milioni e 600mila nel 2011) ma anche la libera scelta di vivere da soli e un massiccio aumento delle separazioni e dei divorzi. In dieci anni, dal 2001 al 2011, il numero dei matrimoni falliti è quasi raddoppiato: da 1 milione e 530mila a 2 milioni e 658mila. Le famiglie di unioni libere, con o senza figli, interessano circa 2 milioni e mezzo di persone. Mentre aumenta il numero delle famiglie (da 23 milioni e 216mila del 2006-2007 a 24 milioni e 979 mila del 2012-2013) si assiste ad un progressivo calo del numero dei loro componenti. Nel 1951 erano 4, per passare a 3,3 nel 1971 a 2,6 nel 2001 fino ai 2,4 del 2011, con punte massime in Campania (2,8) e minime in Liguria (2,1).

La crisi si fa sentire e provoca negli ultimi anni quello che l’Istat definisce un “ricompattamento” dei nuclei familiari. Un fenomeno nuovo, che si può spiegare soprattutto con il progressivo impoverimento. Nel 2013, il 12,6% delle famiglie è in condizione di povertà relativa (3 milioni 230 mila) e il 7,9% lo è in termini assoluti (2 milioni 28 mila). Accade quindi sempre più spesso, che figli disoccupati anche con prole, tornino sotto lo stesso tetto dei genitori. Nell’ultimo quinquennio sono state circa mezzo milione le persone che sono andate a vivere in famiglie con più nuclei. Una, nessuna, centomila famiglie. Il che è anche ovvio, visto che le relazioni tra esseri umani mutano, e molto, nel corso del tempo.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014

 

Un “sacro” contratto a tempo indeterminato

È impossibile storicamente tenere distinta l’idea di famiglia da quella di matrimonio. Sin dal principio, la famiglia fu regolata dal matrimonio. Anzi, molto più drasticamente, non fu ritenuta lecita l’esistenza di alcuna famiglia al di fuori del vincolo matrimoniale. Per secoli, nell’antichità, si trattava di complicati accordi tra famiglie, spesso avversarie.

Veri e propri “negoziati di nozze”, in tutto simili alla stipula di un contratto, nelle quali la donna, spesso bambina, era merce trasferita da un nucleo all’altro, una vera e propria “derrata” trattata su un mercato matrimoniale. A questa secolare consuetudo la Chiesa cattolica applicò, come fosse un ricamo sovrapposto, l’idea di un rapporto “monogamico” creato da Dio e indissolubile, fondato su valori teologico-ecclesiastici neanche troppo sofisticati, del tipo: «Unitevi nel timore di Cristo, le mogli obbediscano ai mariti come al Signore» (Efesini 5, 31 ) o «Sarai sotto il potere del marito, ed egli ti dominerà». (Genesi III, 16 ). E’ poi col IV Concilio lateranense (a. 1215 ) che la Chiesa perfezionò il suo “piano regolatore”: impose l’uso delle pubblicazioni (per evitare i matrimoni clandestini); stabilì che il matrimonio è un sacramento; ratificò la sua indissolubilità anche agli effetti civili, salvo per morte di uno dei due coniugi; e richiese il consensus libero e pubblico degli sposi, da dichiarare a viva voce in un luogo aperto (ufficialmente per scongiurare ratti e unioni combinate).

Un matrimonio a vita quindi, basato sul consensus. Purtroppo “il ricamo” del matrimonio consensuale non cambiò mai i rapporti di forza sociali esistenti. E neanche tentò di farlo. La dottrina morale della Chiesa continuò a considerare buono il matrimonio in cui il marito “regnava” e la moglie “obbediva” incondizionatamente. Il matrimonio e la famiglia erano cornice obbligata dell’esistenza femminile. Le donne sposate venivano poste sotto la tutela dell’ “amministrazione matrimoniale” del marito. E dietro al velo pesante di questa “tutela” esercitata da padri, mariti e poi confessori si nascondeva un controllo feroce e, a quel punto, indispensabile. Perché in realtà il matrimonio “doveva arginare la libido” per garantire la nascita di figli “legittimi”, che voleva dire “eredi” legittimi. Per la Chiesa, il corpo femminile doveva essere controllato in modo particolare, doveva essere riservato esclusivamente alla “fecondazione” da parte del marito. Così la dottrina matrimoniale impose l’inseparabilità delle unioni matrimoniali, in nome di un amore coniugale (dilectio o caritas) dichiarato “ufficialmente” fondamento del matrimonio cristiano.

Ma è tristemente evidente, anche dall’affannata ricerca di una definizione precisa di questo sentimento (che non trovano mai!), quanto fosse poco spontaneo il nesso tra amore e matrimonio. La mancanza di amore infatti non era riconosciuta da chierici, confessori e giuristi, motivo sufficiente per mettere fine ad un matrimonio. E d’altra parte la presenza di amore non era riconosciuto dagli stessi, motivo sufficiente per celebrare un matrimonio. Non va mai dimenticato che per la Chiesa cattolica, sulle orme di Paolo di Tarso, il matrimonio era l’unica soluzione per quelli che non potevano raggiungere il “livello superiore” rappresentato dalla verginità o dalla continenza, uomini o donne che fossero!

L’“amore” coniugale si fondò invece su quella strana idea di giustizia che non poteva che adeguarsi al diverso grado di virtù attribuita ai coniugi; se il marito è amato di più è perché è dotato di una maggior razionalità, e quindi più virtuoso, mentre la moglie, naturalmente inferiore, deve ricevere una quantità d’amore inferiore, adeguata alla sua natura. Così recita Tommaso d’Aquino: «Il marito ama più della moglie e ama di un amore più nobile, dal momento che il marito sta alla moglie come il superiore all’inferiore, come il perfetto all’imperfetto, come chi da e chi riceve, come il benefattore e il benefatto, il marito da alla moglie la prole e lei la riceve da lui» (Summa theologiae, a. 1265-1274 ). La donna deve essere oggetto passivo dell’amore del marito, ma responsabile. Deve evitare che il marito si perda nella libidine e insieme non deve farsi amare troppo per non suscitare quella medesima libidine.

E cosa rimaneva alle giovani donne, oziose e vagabonde “per loro stessa natura”(!), che volevano sottrarsi al pugno di ferro dei progetti matrimoniali? Nulla, per secoli. Se non se stesse e la fuga. Spesso senza lieto fine. Un esempio per tutte, forse il più noto, è Chiara d’Assisi fuggita di soppiatto, nella nebbia di una notte, per sottrarsi alle minacce e alle percosse del proprio genitore. E finita in convento.

E così, quella che ancora oggi viene spacciata come la famiglia “naturale”, quella sancita dal sacro vincolo del matrimonio nata nel Medioevo e benedetta ancora oggi dal papa, è forse quanto di più innaturale esista: un contratto commerciale trasformato in un “sacro contratto” a vita, che prevede l’amministrazione matrimoniale maschile e la messa “in tutela” del genere femminile.