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Corrotti nel Dna. Intervista a Roberto Saviano

Governo, Pd, cooperative, destra. Roberto Saviano non fa sconti a nessuno. Mafie e corruzione sono il frutto avvelenato di un Paese che per troppo tempo ha finto di non vedere – di non vedersi – per colpa «della complicità, dell’inadeguatezza e dell’inedia della classe politica che rappresenta il peggio del peggio in Italia». Sono gli ultimi giorni del 2014 e la nostra conversazione non può che girare attorno a uno degli scandali più recenti: Mafia Capitale. Un pretesto per raccontare il potere attraverso la lente di un sistema che non è solo romano. Funziona così in tutta Italia. Dove politica, impresa e criminalità organizzata a volte rischiano di confondersi in una comunione marcia di interessi. «Fino a che il governo non deciderà di contrastare il segmento economico delle organizzazioni criminali, i loro metodi e le loro prassi resteranno un modello vincente e come modello vincente modificheranno – lo hanno già fatto – il dna anche culturale del nostro Paese».

Saviano, nel suo editoriale Il Paese che vive nella Terra di mezzo ha scritto: «In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste». Ecco, chi sono quelli che “non vogliono vedere”?

Chi non vuole vedere è chi crede che le mafie siano storie di paese che coinvolgano solo chi spara e chi viene sparato. Non vuole vedere chi considera il giornalismo italiano un giornalismo sano quando per molta parte è condizionato, infiltrato, ridotto a strumento che una volta smascherato pensa che si possa risolvere tutto con una dichiarazione pubblica. Non vuole vedere chi ha consentito all’imprenditoria vincente delle cooperative di fare affari in maniera tutt’altro che trasparente, mediando e stringendo alleanze con la politica, in un meccanismo che se pur senza prove ufficiali tutti conoscevano e riconoscevano, ma che nessuno era disposto a denunciare. Ma non vuole vedere anche questo governo che riduce la propria attività antimafia alla scelta di probiviri. Sono convinto che in fondo rifugga la questione criminalità organizzata per non esserne macchiato, perché si sente in qualche modo estraneo alle logiche criminali e non vuole affrontarle, perché teme che in questa melma si rischi moltissimo, che in questa melma ci si possa lordare, insozzare, finanche affondare.

La procura di Roma ha scelto la linea dura – e per certi versi rivoluzionaria – contestando il 416 bis anche al mondo politico. Per intenderci, Dell’Utri e Matacena sono stati condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, Alemanno viene considerato affiliato a un’organizzazione. Crede che un’accusa del genere possa reggere fino al terzo grado di giudizio?

Dire adesso come si concluderà questo processo è impossibile. Personalmente credo che le accuse reggeranno perché conosco il lavoro di Giuseppe Pignatone, so che le accuse sono circostanziate e sorrette da prove concrete. L’opinione pubblica come sempre è stata inondata di intercettazioni telefoniche e ambientali, alcune pertinenti altre di colore, ma l’inchiesta, le accuse e gli arresti si sono basati sul riscontro di quei dialoghi, sull’effettivo passaggio di denaro in cambio di favori. Il reato contestato e per cui sono stati condannati Dell’Utri e Matacena, ovvero il concorso esterno in associazione mafiosa, indaga un terreno molto delicato, getta luce sulla zona grigia, sull’anello di congiunzione tra mondo politico e mondo mafioso. Nel caso di Alemanno, e di altri politici coinvolti nell’inchiesta, sta passando l’idea che la Procura abbia adottato la linea dura perché tendiamo a identificare l’associazione di tipo mafioso con armi, morti, sparatorie e sangue. In molti casi è così, ma in moltissimi casi – direi nella stragrande maggioranza dei casi – si tratta di intimidazioni, di assoggettamento, di omertà finalizzata all’acquisizione «in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».

Proprio come Dell’Utri e Matacena, neanche loro sono protagonisti di fatti di sangue…

E difatti il concorso esterno è proprio un reato che configura un appoggio non di tipo militare. È parte proprio della definizione di partecipazione esterna avere un ruolo che porta vantaggio all’organizzazione senza esserne parte.

Eversione nera e organizzazioni mafiose. Un binomio che non stupisce più. Cominciano a diventare tante le inchieste in tutta Italia – basti pensare a Mokbel e Guaglianone – che scoprono legami forti tra questi due mondi. Da dove nasce questa comunione di interessi?

No certo, è un binomio che non stupisce più. In realtà credo tutto dipenda da una serie di fattori. Il primo è che finita la fase di contrasto ideologico, i legami instaurati tra parti dello Stato e comparti extraparlamentari, i più estremisti, spesso utilizzati per i lavori sporchi, tendono a trasformarsi in legami d’affari. L’estremismo di destra, non tutto ovviamente, ha spesso vantato una certa capacità operativa militare che è tornata utile in certi frangenti politici. Da qui a operazioni di tipo differente, meramente economiche, il passo è breve e, aggiungerei, naturale. La grande eredità che i gruppi di destra portano alle mafie è anche l’interlocuzione con parti dei Servizi. È il segmento più inquietante dell’inchiesta “Mafia capitale” e forse il meno discusso: uomini con auto intestata alla Questura di Roma che avvertono Carminati delle indagini. Chissà se mai sapremo…

Ma Mafia Capitale non è soltanto Massimo Carminati. È anche – e soprattutto – Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse considerato l’esempio vivente della capacità rieducativa del carcere. Invece, per la Procura, la coop 29 giugno era il business più remunerativo dell’organizzazione criminale. Una macchina alimentata col carburante delle tangenti e della corruzione. Sarebbe bastato dare un’occhiata al lungo elenco di appalti che la società di Buzzi riusciva a ottenere con estrema facilità per insospettirsi. Eppure a nessuno è venuto in mente. Tutti ingenui o tutti complici?

Il mio intervento sul ministro Giuliano Poletti è stato volutamente male interpretato perché in questo Paese per eludere le risposte si distorcono le domande. Io ho chiaramente detto che il problema non era la foto; tutti possiamo trovarci in situazioni sconvenienti, sarebbe paradossale attribuirgli responsabilità unicamente per la presenza a quella cena. Il discorso è molto diverso, quella foto è servita a descrivere in maniera plastica una questione di fondamentale importanza: perché il Presidente di Legacoop nazionale non si è reso conto che dietro gli appalti che Buzzi riusciva a ottenere con grande facilità c’era qualcosa che non tornava. La domanda che io ho posto a Poletti è: aveva mai avuto qualche sentore, qualche dubbio, aveva mai chiesto approfondimenti? La risposta più sensata sarebbe stata ammettere che il Presidente di Legacoop non ha alcun potere e quindi sarebbe scaturita da parte del Paese una riflessione più ampia su come in Italia molte cariche siano semplicemente onorarie, su come prevedano guadagni e onori, ma pochi oneri e soprattutto nessuna responsabilità. Ecco perché è fondamentale far sembrare le domande capziose, perché si possano eludere le risposte.

Primarie per la selezione del candidato sindaco e del presidente della Regione. Primarie per l’elezione del segretario federale, regionale e nazionale. Parlamentarie per la nomina di una rosa di candidati alle Politiche. La sinistra è passata dalla “rivoluzione permanente” “all’elezione permanente”. Un metodo democratico, certo, ma anche pericoloso: perché costoso (servono finanziamenti spesso poco trasparenti) e dunque facile preda di infiltrazioni mafiose. Adesso Matteo Orfini dice di voler fare pulizia interna. Una scelta tardiva?

Io credo che sia un colpo di teatro. L’ennesimo. Faccio un esempio per spiegarmi. Alle primarie per le Regionali in Campania, il Pd candiderà Andrea Cozzolino al quale aveva annullato le primarie a sindaco di Napoli nel 2011. Avevo già posto tempo fa questa domanda al Partito democratico in occasione della candidatura di Cozzilino alle Europee, oggi la ribadisco sperando ingenuamente in una risposta: il Pd candida Cozzolino alle Regionali, lo fa nonostante i brogli del 2011 o quelle primarie annullate erano legittime? In realtà intorno alle primarie non esiste una regola precisa che consenta un controllo serrato, non sarebbe nemmeno giusto sottoporle a inutili moralismi o a bracci di ferro, dovrebbe piuttosto esistere una cultura della legalità come naturale costruzione delle cose. Le primarie sono uno strumento di democrazia quando c’è già una maturità di dibattito democratico, ma oggi sembrano piuttosto una scorciatoia per dare l’impressione di una partecipazione politica che in realtà non esiste, l’astensionismo alle Regionali in Emilia Romagna lo dimostra. Da tempo penso che le primarie non servano al Pd per allenare il proprio muscolo democratico, ma siano l’ennesima partita a scacchi a vantaggio di chi è più furbo e più organizzato.

Qualcuno continua a invocare le dimissioni del sindaco Ignazio Marino, ritenuto quantomeno «incapace» nei casi più clementi. Lei cosa pensa?

Ignazio Marino non si è accorto di chi aveva intorno, spesso persone che non avevano commesso reati, ma che erano avvicinate e avvicinabili. Sicuramente Marino aveva tutti gli strumenti per poter lanciare un allarme, ma probabilmente gli mancava una vera consapevolezza e questa è una senz’altro una responsabilità enorme, non legale ma politica.

Secondo lei il Comune di Roma andrebbe sciolto per infiltrazioni mafiose?

Secondo me sì, andava sciolto per infiltrazioni mafiose e azzerato tutto.

Il problema della corruzione è dovuto al crollo dei valori nella politica e nell’amministrazione o si tratta di una questione “strutturale”? Cioè: la persona onesta che si imbatte nel mezzo di certi meccanismi trova strumenti adeguati per reagire senza rischiare di perdere tutto?

La questione morale c’entra poco, è una questione di meccanismi. Fino a che il governo non deciderà di contrastare il segmento economico delle organizzazioni criminali, i loro metodi e le loro prassi resteranno un modello vincente e come modello vincente modificheranno – lo hanno già fatto – il dna anche culturale del nostro Paese. Ci si ripete spesso che per farcela bisogna compromettersi, che il merito non viene premiato, questo è il danno peggiore che le mafie hanno fatto al nostro Paese e la responsabilità è della complicità, dell’inadeguatezza e dell’inedia della classe politica che rappresenta il peggio del peggio in Italia.

Lei ha scritto: «Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo». L’osservazione ha carattere generale, ma nel leggerla è inevitabile pensare a certi atteggiamenti di giornali ed esponenti del centrodestra nei suoi confronti, che la presentano come una sorta di predicatore della sinistra. Si sente colpito da quel “tiro al bersaglio”?

Credo che chiunque sia pulito in Italia e sia allo stesso tempo esposto, diventi per forza di cose bersaglio. Conseguenza di una sfiducia motivata dall’effettiva impossibilità di ottenere risultati, ecco perché passa l’idea che chiunque ce la faccia abbia venduto l’anima al diavolo. E qualunque smagliatura verrà considerata assai peggio del più grave dei crimini. In realtà non mi riferivo a me, ma alla parte migliore del Paese che spesso sconta una diffidenza intollerabile e diventa bersaglio. Il centrodestra e molti giornali di quell’area, in questi anni, mi hanno molto criticato con scarso successo. Dai loro attacchi si esce fortificati e con la consapevolezza che il tiro a bersaglio è un meccanismo tipico dei Paesi sottosviluppati e non se ne uscirà mai finché sarà preclusa ogni possibilità di realizzazione personale.

Il voto e il vuoto. L’analisi di Nadia Urbinati

L’anno che si sta per concludere ha avuto due luoghi negativi per la Sinistra: l’abbandono da parte del suo partito ufficiale della filosofia del lavoro come condizione della cittadinanza democratica; e l’esplosione dell’arbitrio e dell’illegatilità, croniche malattie della politica nazionale che lambiscono in forme preoccupanti anche il Pd.

Questo partito, che va fiero del consenso del 40% alle elezioni europee del maggio scorso, è sembrato disposto a barattare la partecipazione dei suoi simpatizzanti e militanti con la vittoria elettorale. Matteo Renzi ha mostrato di gradire più la quantità dei voti che la qualità della partecipazione dei militanti e simpatizzanti. Una scelta che sta bene insieme alla vocazione maggitarista, da lui tradotta con lo slogan: “La sera delle elezioni si deve sapere chi ha vinto”. Numeri certi, e contati con la logica non della rappresentanza delle voci ma del peso proporzionalmente distribuito in base a chi ha la voce più forte, alla maggioranza: questa la filosofia del partito elettoralistico maggioritarista che il Pd ha abbracciato nel 2014.

Con qualche effetto collaterale, per esempio la diserzione delle urne da parte di un numero crescente di elettori, come si è visto a cominciare proprio dalle elezioni europee e soprattutto da quelle regionali, e in una regione “rossa” come l’Emilia-Romagna. Il paradosso è che un partito che vuole essere solo elettorale, che mobilita elettori per ogni tappa del suo percorso a partire dalle primarie, perde elettori. O meglio, perde quei cittadini che non vogliono essere considerati solo elettori. L’elettoralismo, si è detto, sancisce la modernità della sinistra, la sua normalità che deve poter fare a meno di un’identità ideale e anche di troppa partecipazione. Che cosa ha a che fare questa trasformazione con i due luoghi negativi dai quali sono partita? Molto, ha molto a che fare.

In primo luogo perché la debilitazione di valore del lavoro porta con sé o sta insieme a una debilitazione della politica, di quella che dovrebbe curarsi di mantere il lavoro un luogo di giustizia e di diritti. Il lavoro non è la stessa cosa dei “lavori” come recita il famoso Jobs Act. Oggetto della legge e della cura della politica deve essere il lavoratore, perché è lui il soggetto dei diritti. Ma spostare l’attenzione dal lavoratore ai lavori significa lanciare il seguente messaggio: il lavoratore si deve allenare a passare da una fatica ad un’altra, senza curarsi di perfezionare quel che fa ma badando a raccimolare qualche soldo. I lavoratori, secondo la filosofia del Pd, sono come itineranti nel mercato del lavoro, il vero luogo di attenzione del legislatore. Il mercato del lavoro chiede il prodotto che la politica gli consegna: un lavoratore a basso costo, pronto a rinunciare ai diritti ovvero a una visione di stabilità di condizione e di appartenenza. Lavori senza lavoratore vuol dire mano d’opera senza sindacalizzazione: la porta aperta allo sfruttamento, alla legittimazione dell’arbitrio.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 27 dicembre 2014

L’annus horribilis del lavoro

Il 2014 si sta chiudendo con il record assoluto di disoccupazione mai registrato in Italia: a ottobre abbiamo raggiunto 3 milioni e 400mila in cerca di lavoro. Non ci sono mai stati tanti disoccupati in questo Paese e tuttavia le cifre non bastano a descrivere la gravità della situazione. Il tasso di disoccupazione, che misura l’intensità del fenomeno, nel corso dell’anno ha toccato il 13,6 per cento, probabilmente il livello più elevato da quando si misura il dato viene misurato, considerando che i criteri sono diventati più selettivi e i disoccupati non sono tutti coloro a cui manca un lavoro (e un reddito), ma solo coloro che hanno compiuto un’azione di ricerca di lavoro nell’ultimo mese.

Se vogliamo dar loro una faccia, dobbiamo sapere che per oltre la metà sono uomini e che si tratta in larga prevalenza di persone adulte. A queste si aggiungono altre 2 milioni di persone che cercano un lavoro da tempo, ma che nell’ultimo mese non hanno effettuato una specifica azione di ricerca, per questo non sono classificate tra i disoccupati. Si tratta soprattutto di donne, anche loro in larga parte adulte. Non sono “scoraggiate”, come le definiscono le statistiche e i commentatori sbrigativi, non lo sono più di tanti altri in un Paese stremato da una crisi infinita e profonda. Sono semplicemente la dimostrazione che è impossibile cercare lavoro tutti i mesi per anni e anni e che da nessuna parte si trova scritto dove, come e quanto bisogna cercare un lavoro che non si trova.

Nel 2014 lo storico squilibrio territoriale italiano è cresciuto ulteriormente e sempre nella stessa direzione, cioè a svantaggio del Mezzogiorno, mentre la questione meridionale è stata cancellata dall’agenda politica e dalla riflessione pubblica non perché risolta ma per lasciare il posto a una questione settentrionale impellente. I dati indicano però che nel Sud ci sono 400mila disoccupati in più rispetto al Nord, benché vi siano 7 milioni di abitanti in meno. A livello nazionale, il tasso di occupazione nel 2014 è rimasto attorno al 55,5 per cento: significa che in media nel nostro Paese su 100 persone tra i 15 e i 64 anni quasi 45 non hanno un lavoro. Sono troppe le persone che non lavorano, troppe rispetto ai Paesi europei con cui solitamente ci confrontiamo, troppe rispetto all’esercizio universale della cittadinanza, troppe per il funzionamento di un sistema di welfare che garantisca istruzione, salute, previdenza e assistenza pubblica di qualità. Ci dicono infatti che non possiamo permetterci un welfare state universalistico, ma ciò che non dovremmo permettere – per molte ragioni, tra cui l’articolo 1 della Costituzione – è un’occupazione scarsa e sempre più precaria.

Le distanze tra Nord e Sud nei livelli di occupazione sono aumentate pur essendo già ampie e ormai il divario è diventato un abisso: nel 2014 nelle otto regioni del Nord il tasso di occupazione si è mantenuto vicino al 64 per cento, mentre nelle otto regioni del Sud non ha raggiunto neppure il 42 per cento: dietro queste cifre ci sono livelli di benessere economico e sociale molto distanti, che sembrano appartenere a Paesi diversi, perfino lontani. Ma bisogna considerare anche il genere per cogliere pienamente la dimensione delle disuguaglianze tra cittadini e cittadine: al Nord 72 uomini su 100 in età da lavoro hanno un’occupazione, al Sud non più di 53 su 100; al Nord lavorano quasi 57 donne su 100, al Sud non più di 30 su 100. Tra un uomo che vive in una regione del Nord e una donna che vive in una regione del Sud – dello stesso Paese – si sono consolidate opportunità di vita e destini lavorativi enormemente diseguali.

Entro la fine dell’anno quasi certamente si supererà il miliardo di ore richieste e autorizzate di cassa integrazione guadagni. Sarebbe il secondo anno di seguito e questo la dice lunga sulla persistenza delle difficoltà del sistema produttivo dell’Italia. Secondo le stime della Cgil, i lavoratori “a zero ore” sono circa 540mila e in meno di un anno avrebbero perso complessivamente 3 miliardi e 590 milioni di reddito al netto delle tasse, pari a 6.680 euro ciascuno. Se sottraessimo i “cassintegrati” dagli occupati, la base occupazionale si ridurrebbe ulteriormente. Se invece li sommassimo ai disoccupati segneremmo un record ineguagliabile per decenni. Il cosiddetto “posto fisso”, cioè il lavoro dipendente con contratto a tempo indeterminato e orario a tempo pieno di cui quasi l’intera classe politica invoca e prepara la fine da almeno un quarto di secolo, riguarda ormai solo poco più del 53 per cento degli occupati totali, mentre il lavoro a termine continua ad aumentare e sfiora l’11 per cento dell’occupazione complessiva. I lavoratori a tempo parziale (e a retribuzione e contribuzione parziale) sono ormai 4 milioni, per il 75 per cento donne, il 18 per cento degli occupati totali. Tra i lavoratori indipendenti, che in Italia sono più numerosi che altrove, pesa la quota di quelli pseudo-autonomi, occupati in collaborazioni e prestazioni d’opera più o meno occasionale.

Il 2014 finisce male: nessuna politica è proporzionata alla gravità della situazione descritta, e il Jobs act produrrà nuovi problemi e altri danni al lavoro.

Grandi Opere, un coro di no

«Un fiume di soldi affidato al famelico cartello delle grandi imprese – cooperative comprese – che non ha aumentato di un millimetro l’efficienza del sistema infrastrutturale e ha depredato le casse dello Stato». Così l’urbanista e scrittore Paolo Berdini descrive la cosiddetta “cultura delle grandi opere”, dalle colonne del quotidiano il Manifesto.

Definizione tranchant? Parrebbe di no, considerando il numero delle “grandi opere” mai completate nel nostro Paese: ben 395, secondo il censimento che compie Sergio Rizzo sul Corriere della sera. Opere che hanno, a vario titolo, garantito profitti alle ditte appaltatrici. Emblematico è il caso del Ponte sullo Stretto, intorno al quale si sono recentemente riaccese le polemiche: il progetto è costato all’erario circa 350 milioni di euro, tra oneri e uscite in favore della società Stretto di Messina. Senza che, del Ponte, ci sia alcuna traccia.

Le lungaggini della burocrazia, le infinite varianti di progetto e gli innumerevoli ricorsi al Tar non rappresentano certo gli unici “effetti collaterali” delle grandi opere. Gli scandali dell’Expo di Milano, del Mose a Venezia, della metro C di Roma – tutti ugualmente segnati da episodi di mafia e corruzione – dimostrano che l’equazione “grande opera = malaffare” ha un carattere più strutturale che eventuale.

E infine il terzo grande tema, l’ambiente: cementificazione selvaggia, deroghe ai piani paesaggistici, trivellazioni, fanno rima con dissesto idrogeologico. Anche qui l’almanacco del 2014 annovera diversi episodi tragici e rivelatori, come le alluvioni di Genova e Carrara.

IL GOVERNO

Quale rotta si è dato il governo Renzi in questo primo anno di vita? Con l’approvazione del decreto Sblocca Italia dello scorso novembre – ha rilanciato politiche azzardate circa inceneritori ed estrazioni petrolifere. E ha dimostrato di voler tirare dritto sulle grandi opere. I 6 miliardi recentemente promessi dal premier per l’eventuale realizzazione delle Olimpiadi del 2024 confermano il metodo “emergenziale” e altamente discrezionale della gestione dei fondi pubblici. Insomma, anche per Renzi il rilancio dell’economia passa attraverso investimenti di breve periodo e continuano a essere le corsie preferenziali nelle le quali la politica ipotizza una exit strategy dalla crisi.

C’È CHI RESISTE

Poteva anche andare peggio. Come sostiene il collettivo di scrittori Wu Ming: l’opera quotidiana di migliaia di attivisti durante il 2014 è riuscita a salvarci da ulteriori scempi economico-ambientali. «Se si facesse l’elenco di quanti progetti dannosi e demenziali sono riusciti a bloccare e di quanti spazi dimenticati sono riusciti a riutilizzare – scrivono su Giap, il loro blog – ne verrebbe fuori la mappa di una resistenza che ha impedito e impedisce ogni giorno il collasso “psicogeologico” dell’Italia». Pattuglie di cittadini che ogni giorno combattono contro la megamacchina cementificatrice alimentata da facili profitti. La lotta più emblematica, in questo senso, è forse quella dei NoTav. Per loro, il 2014 è iniziato con le manifestazioni e i presidi di sostegno organizzati in tutta Italia il 22 febbraio. Poi, a marzo, è arrivata la condanna dei costruttori della “Baita Clarea”, il rinvio a giudizio di Erri de Luca per istigazione a delinquere a giugno, per giungere, infine, alla recente condanna di quattro attivisti a 3 anni e 6 mesi per l’attacco del 13 e 14 maggio 2013 al cantiere di Chiomonte, assolti dall’assurda accusa di terrorismo, in quanto «il fatto non sussiste».

Distogliendo lo sguardo dalle condanne, però, la vittoria per il movimento sembra avvicinarsi e l’ipotesi della realizzazione del corridoio 5 tra Torino e Lione si fa sempre più remota. Persino le convinzioni di un pasdaran proTav, come il senatore democratico Stefano Esposito, vacillano: «Se costa davvero 7 miliardi, meglio rinunciare», ha detto lo scorso ottobre.

I COMITATI DEL “NO”

I NoTav sono solo una delle realtà “del no”. È un lungo elenco quello dei comitati territoriali: i No Tangenziale Sud-ovest di Asti, i No Tangenziale Esterna Milano, i NoSat, che si oppongono all’istituzione dell’autostrada tirrenica in Maremma, e il comitato Opzione Zero, che osteggia la costruzione dell’autostrada romea Orte-Mestre. Oppure la rete di comitati NoTriv, nemici delle trivellazioni petrolifere selvagge in Basilicata o in Irpinia. E ancora i NoTap salentini e i NoTubo abruzzesi, che contrastano la realizzazione di gasdotti. Senza contare i movimenti NoExpo e i comitati No Ponte e NoMuos siciliani. Una galassia che si allarga ancora di più se si estende il concetto di “grande opera inutile” anche a opere meno grandi ma altrettanto “inutili” e nocive, come inceneritori, rigassificatori, centrali elettriche a carbone. Un fronte ampio, eterogeneo e frammentato, che però non manca di avanzare proposte comuni su modelli di sviluppo alternativi. Altro che espressione delle pulsioni “nimby” delle comunità locali, in grado soltanto di dire “no”, come sostengono gli «alfieri dello sviluppismo», così battezzati dal collettivo Wu Ming.

LA PROPOSTA

A unire le lotte e tradurle in una proposta “forte” che possa condizionare il dibattito pubblico – secondo il collettivo emiliano – ci potrebbe pensare Ugo. Non un supereroe, ma un acronimo: unica grande opera. Ossia «un serio investimento di denaro, energie, intelligenza collettiva, per evitare catastrofi e riqualificare il territorio, che rimane risorsa primaria e che rappresenterebbe in realtà un risparmio sulle ecocatastrofi future». L’investimento converrebbe anche sul piano economico: la mancata manutenzione del territorio ci costa 3,5 miliardi l’anno (secondo un rapporto Ance-Cresme), e ne basterebbero solo 1,2 ogni anno, per 20 anni, per «rimettere in sicurezza il territorio italiano», come dice Salvatore Settis.

Wu Ming, oltre che il nome, lancia anche una data: 8 dicembre 2015, decennale della “battaglia di Venaus”. Data significativa in Val Susa: 30mila persone si opposero allo sgombero, riconquistando il presidio perduto e costruendoci sopra un villaggio.

La proposta è chiara – non prevede il «rituale concentramento nella Capitale» – e vorrebbe innescare il «manifestarsi contemporaneo e incontrollato di tutte le realtà, ognuna secondo le modalità che preferisce». L’8 dicembre sarebbe la fine di un percorso di un anno, nel quale poter organizzare laboratori, incontri e inchieste. Una vera e propria «data “gravitazionale”», per fare alzare il tiro alle varie rivendicazioni e permettere finalmente ai comitati di compiere un ulteriore salto di qualità.

Il compito della sinistra

Se misuriamo la politica sulle vere grandi emergenze del nostro tempo – il riscaldamento climatico e i disastri del nostro territorio, la violenza e le guerre, la disoccupazione e la miseria crescente, l’emergenza democratica che allontana i cittadini dai partiti e dalle istituzioni – questo anno così pieno di eventi è un anno perso.

Sul riscaldamento climatico assistiamo ancora a un profluvio di parole e di impegni generici. La vulnerabilità ai disastri ambientali del nostro territorio è aumentata, mentre si continua a pensare alle Grandi opere e aumentano i rischi di cementificazione. Il prezzo del petrolio sembra ancora il fattore dominante per le prospettive di uscita dalla crisi e il petrolio è ancora al centro delle guerre che insanguinano il mondo. Assieme all’intolleranza religiosa e al fanatismo, che crescono col crescere delle disuguaglianze nel mondo. E non siamo ancora capaci di disinnescare la mina del Medio Oriente, riconoscendo finalmente lo Stato palestinese e pretendendo da Israele la fine delle occupazioni di territori non suoi. Precondizione per avviare un dialogo di pace nella regione, decisivo per lo sviluppo economico, sociale, civile dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

La politica che governa si occupa di ridurre i diritti dei lavoratori e di deregolare ulteriormente il mercato del lavoro, mentre ci sarebbe bisogno di un grande piano per l’occupazione, con grandi investimenti pubblici ed una vera politica industriale. Si resta schiavi di quel debito che è stato generato da una crescita distorta – si pretendeva che la gente guadagnasse di meno e consumasse di più – e dalla finanziarizzazione dell’economia. Si fa quel che è necessario per stare, magari in maniera un po’ più flessibile, dentro i vincoli del monetarismo dominante e non si fa quello che è doveroso per ridurre la miseria e creare nuovo lavoro. La gente disillusa da Grillo, semplicemente non va più a votare.

I partiti, anche quelli di sinistra, non sono stati capaci di vedere e denunciare il malcostume che fatalmente prospera in una politica evaporata sul terreno dei contenuti e dei valori e in cui crescono figure strane che tentano di ricavare il massimo per se stessi nel crepuscolo della politica. Legalmente e illegalmente. Facciamo sempre prevenzione postuma, sia dei disastri ambientali che del malcostume politico. Dopo gli uragani e dopo la magistratura.

Eppure sono queste emergenze – quella ambientale, quella sociale, quella democratica – che animano quello che si muove nella società. Nelle tante esperienze di cittadinanza attiva, nei tanti comitati contro il degrado urbano e per la difesa del patrimonio culturale e paesaggistico del nostro Paese, nella cultura dei beni comuni, nella promozione di nuovi diritti di cittadinanza, nell’impegno per rinnovare e rendere più inclusiva la scuola pubblica. E nelle lotte che il sindacato, che sembra avere acquisito una nuova vitalità, mette in campo perla difesa dei diritti dei lavoratori, per l’uguaglianza, per l’occupazione. E a cui partecipano assieme ai lavoratori occupati i giovani disoccupati, i precari, gli studenti. La cosa del governo Renzi che pare più riuscita è proprio questa, la rinascita come soggetto sociale e politico del sindacato dei lavoratori. Peccato che sia un effetto indesiderato. Eppure questo movimento è la sola speranza che il disagio crescente per il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro non diventi benzina per il populismo reazionario. Coma sta succedendo da tante parti in Europa.

Il compito principale di una sinistra rinnovata dovrebbe essere proprio quello di tenere insieme in un progetto comune queste emergenze, così diverse dall’emergenza del debito e della moneta in cui le élite dominanti vorrebbero farci vivere. Mostrare il filo rosso che lega l’impegno per la pace e per il dialogo fra le religioni e fra i popoli e lo sviluppo sostenibile. Fra la messa in sicurezza del territorio e la salvaguardia dell’ambiente e la possibilità di creare nuovo lavoro, e nuova cultura, e nuova ricerca. E mostrare che assumere come priorità la dignità del lavoro può essere il filo che collega il lavoro dipendente e l’autonomo di nuova generazione, e oltre il lavoro il diritto di scegliere, liberi da stereotipi, i propri modi di amare, di vivere e morire. E riavvicinare i cittadini e le istituzioni, locali e nazionali, rendendole permeabili a questi bisogni e a questi valori. Collegare in un progetto unitario quello che in questa direzione si muove in Europa, a partire dai punti e dalle esperienze più alte della sinistra europea, vecchia e nuova, è il contributo più alto che da sinistra è possibile dare per rilanciare l’europeismo democratico.

L’anno che verrà ci dirà se questo progetto è perseguibile dentro il quadro dei partiti e delle forze politiche esistenti. O se sarà necessario pensare alla nascita di un nuovo soggetto politico capace di tenere insieme quelli che sono stati e che sono gli attori di queste sfide, dentro e fuori i partiti, nella sinistra politica e nella sinistra sociale.

2014, l’anno del Califfo

Anno 2014. Anno del “Califfo” e della nascita del primo Stato jihadista al mondo. L’anno di Ali Bakr al-Baghdadi. L’anno di un terrorismo che si fa holding, con un impero petrolifero che occupa un’area grande più o meno come la Gran Bretagna, e che comprende circa trecento pozzi petroliferi nel solo Iraq, mentre in Siria, lo Stato Islamico ha il controllo del 60 per cento della capacità produttiva del Paese, con la bandiera nera che sventola sulle province di Aleppo, Raqqa, Al Hasaka e Deir Ezzor.

Il prezzo che lo Stato islamico ottiene per il combustibile di contrabbando è scontato – dai 25 ai 60 dollari per un barile di petrolio, che si vende normalmente per più di 100 dollari – ma i profitti totali derivanti dal combustibile superano i tre milioni di dollari al giorno, rileva Luay al-Khatteeb, della Brookings Institution in Qatar. Fuori dall’Iraq, la holding jihadista dell’Is ha guadagnato centinaia di milioni di dollari dal contrabbando di antichità: gli oggetti sono venduti in Turchia, sostiene al-Khatteeb. Altri milioni arrivano dal traffico di esseri umani con la vendita di donne e bambini come schiavi del sesso. Altre entrate arrivano da estorsioni, riscatti di ostaggi rapiti e furti di materiali provenienti dai paesi dell’Is, beni sequestrati dagli estremisti.

2014: l’anno che nel Grande Medio Oriente segna la dissoluzione di Stati-nazione che restano tali solo sulla carta: Iraq, Siria, retti da governi centrali che non hanno più il controllo di gran parte del territorio nazionale. E sembra solo l’inizio di un effetto domino devastante. Altri Stati “artificiali” come la Libia, lo Yemen, la Giordania, il Bahrein, l’Oman e l’Arabia Saudita potrebbero disgregarsi del tutto. L’anno dell’Is, che riempie i vuoti prodotti dall’implosione dei suoi nemici.

2014: l’anno dei tagliagole che ostentano la loro spietatezza, infieriscono sul nemico, massacrano i prigionieri, sgozzano gli ostaggi. E poi distribuiscono via Internet i video delle decapitazioni, terrificanti strumenti di propaganda e di proselitismo per il “Califfo Ibrahim”. Oggi alla decaduta suggestione panaraba si sostituisce quella, ben più aggressiva e mobilitante, della Umma, la comunità musulmana che spazza via gli Stati-nazione coloniali. Il 2014: l’anno della piovra qaedista che estende i propri tentacoli in un numero crescente di Paesi: Siria, Iraq, Libia, Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Somalia, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Australia, Canada, Bosnia, Croazia, Albania, Algeria, Tunisia, Mali, Marocco, Libano, Giordania, Filippine, Tagikistan, Azerbaigian, Kenya, Tanzania, Nigeria, Kashmir in India e Cecenia in Russia. Comunque si concluda questa vicenda, una cosa resta agli atti: l’ascesa dell’Is narra anche (perché in qualche modo ne è il frutto avvelenato) il fallimento delle politiche dell’Occidente nella regione, il lascito di avventure militari – a cominciare dalle due guerre irachene – che pretendevano di stabilizzare il Medio Oriente ma che, al contrario, lo hanno reso una polveriera (nucleare) pronta a esplodere, con conseguenze devastanti che andrebbero ben oltre i confini regionali.

La svolta del 2014 nel Grande Medio Oriente non è nel segno della speranza di un consolidamento dei processi democratici. Ciò che si respira non è una salubre aria di libertà, ma è il tanfo opprimente delle fosse comuni, delle pulizie etniche, degli esodi biblici, dell’orrore che corre sul web, delle decapitazioni esibite dai “guerrieri di Allah”, dei bambini trucidati in Pakistan. La spietatezza non conosce confini, in una gara in cui l’asticella dell’orrore si alza sempre più. Nulla sarà come prima.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 27 dicembre 2014

Le “frontiere mobili” dell’Europa

All’indomani di due stragi con centinaia di morti – i naufragi del 3 ottobre 2013 a Lampedusa e dell’11 ottobre nella zona Sar (ricerca e salvataggio) maltese – il 2013 si chiudeva con l’avvio della missione Mare Nostrum. Un’operazione che nei primi mesi del 2014 consentiva la drastica riduzione delle vittime in mare e interventi di soccorso in acque che negli anni precedenti avevano inghiottito migliaia di vite umane. L’aumento degli arrivi si era verificato già nei mesi estivi, mentre l’attenzione prevalente sembrava concentrarsi sulle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare, piuttosto che sugli interventi di salvataggio in mare.

La campagna elettorale, giocata sul ruolo di “attrazione” che avrebbero giocato le unità dell’operazione Mare Nostrum, spostava l’opinione pubblica dall’orrore per i corpi sprofondati nelle acque di Lampedusa alla preoccupazione per l’ennesima “invasione”, anche se appariva sempre più evidente come la maggior parte dei migranti soccorsi in mare fossero richiedenti asilo. L’aumento degli arrivi, la saturazione dei centri di accoglienza in Sicilia, la scelta di non utilizzare Lampedusa e il suo aeroporto come luoghi di soccorso e smistamento rapido dei naufraghi determinavano una ripresa delle stragi in mare, anche perché gli interventi di salvataggio delegati alle navi commerciali non potevano risultare tanto efficaci quanto quelli operati dai mezzi di soccorso di Mare Nostrum.

Secondo l’Unhcr, mentre nel primo semestre di quest’anno si erano contate “solo” 500 vittime, tra morti e dispersi, questo numero saliva a 2.500 alla fine di settembre, e si arrivava a oltre 3.400 morti alla fine di novembre.

In Europa, intanto, si assisteva all’ennesimo balletto di competenze: Alfano dichiarava che Frontex Plus, con l’operazione Triton, avrebbe sostituito Mare Nostrum; mentre la Commissaria europea Malmstroem sosteneva, al contrario, che Frontex non avrebbero sostituito le navi di soccorso italiane. Alla fine veniva chiarito che le attività svolte dai mezzi di Frontex, soltanto due mezzi navali e qualche ricognitore, non si sarebbero spinte più a sud di 30 miglia dalle coste di Lampedusa e Malta. L’Italia a questo punto prorogava per due mesi l’operazione Mare Nostrum, fino a dicembre, e faceva ricorso alle navi fornite da Frontex anche in operazioni di salvataggio molto più a sud di quanto previsto a Bruxelles.

Il 2014 si è caratterizzato anche per il continuo collegamento tra i movimenti dei migranti verso la “Fortezza Europa” e gli accordi bilaterali o multilaterali (sottoscritti direttamente con l’Ue, come nel caso del Marocco o della Tunisia) destinati a bloccare le partenze e a facilitare le procedure di riammissione. “Frontiere mobili”, dunque, perché i processi di esternalizzazione dei controlli e, secondo la prospettiva annunciata da Alfano, anche del diritto di asilo, nei Paesi di transito, ha permesso di estendere a dismisura le “frontiere” europee, nel tentativo di bloccare le partenze verso l’Europa.

Ma le “frontiere mobili” hanno anche una proiezione interna, e corrispondono a pratiche di accoglienza, di confinamento e di inserimento – e spesso di discriminazione quando manca l’inserimento – all’interno del nostro Paese. In molti centri di accoglienza le procedure non venivano avviate per tempo, o le persone non ottenevano i documenti di soggiorno previsti dalla legge, con sperimentazione di pratiche di esclusione che adesso emergono solo per effetto delle indagini disposte dalla magistratura nell’inchiesta “Mafia Capitale” e in altre che stanno per essere avviate. Si può parlare dunque di “frontiere mobili” perché le nuove frontiere del Mediterraneo non sono muri: cambiano in continuazione a seconda delle diverse situazioni presenti nei Paesi di origine, di transito e di destinazione. L’unica preoccupazione torna a essere quella sicuritaria, nella totale assenza di strategia globale non solo sui controlli di frontiera o in materia di protezione internazionale ma sul complessivo fenomeno migratorio. L’Europa non ha avuto una strategia neanche sugli ingressi per lavoro: nel 2000 c’era già, dopo Tampere, un’ipotesi di riaprire le possibilità di visto per lavoro, una prospettiva sfumata progressivamente anche per effetto della crisi economica.

Cosa si può fare? Non si può certo continuare ad attendere che le soluzioni arrivino dall’alto, da Roma o da Bruxelles. Dobbiamo quindi studiare delle forme d’intervento diretto: attraverso la rete, i collegamenti con associazioni e avvocati, mettere in moto le autorità costiere per le attività di salvataggio. Possiamo già prevedere che molti potenziali richiedenti asilo resteranno bloccati nei Paesi di transito. Occorre procurare degli strumenti di difesa per queste persone, spesso interi nuclei familiari, prima che arrivino nel nostro territorio. Anche per questo dovremo assegnare una maggiore responsabilità alle organizzazioni come l’Unhcr e l’Oim, oltre che alle diverse agenzie delle Nazioni Unite, che possono operare in Paesi nei quali gli spazi di azione per i cittadini solidali che si schierano dalla parte dei migranti sono sempre più stretti.

Morto un Putin se ne fa un altro

«E’ tutto un complotto», ha sbottato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov alle Nazioni Unite. «L’obiettivo principale delle sanzioni occidentali è un rovesciamento di regime a Mosca!». La teoria della cospirazione è una costante della storia russa: dai tempi dello zar tutte le disgrazie del Paese vengono attribuite al volere di nemici esterni, sempre occidentali e possibilmente plutogiudaici massonici.

La colpa di Obama and friends, nel 2014, è quella di sostenere i “fascisti” ucraini, quelli che hanno rovesciato il filo russo Yanukovic e distrutto la sacra unione tra Kiev e Mosca. Ma in passato gli occidentali hanno complottato in mille altri modi: riconoscendo il Kosovo per favorire le dichiarazioni di indipendenza all’interno della Federazione Russa, sostenendo i “cattivi” ceceni per alimentare la disgregazione del Caucaso, aiutando la Georgia per minare i confini meridionali del Paese. Per non parlare di tutti quelle organizzazioni di infiltrati euro-americani che si fanno chiamare ong e poi invece di fare del bene ai diseredati si mettono a sostenere i sovversivi.

Le teorie del complotto hanno sempre fatto breccia nel cuore del popolo russo, anche perché l’Occidente ha fatto ben poco per smentirle. Dagli aiuti del finanziere Soros alle rivoluzioni arancioni allo sventolare i diritti umani solo quando serve vincere un negoziato, gli Usa non hanno mai brillato per coerenza. E la diffidenza partorita dalla guerra fredda non si è mai dissolta, tanto più quando i russi se la passano così male come quest’anno. A novembre 2014 un numero nefasto ha unito i tre vertici della crisi moscovita: 62. Sono gli anni che ha compiuto Putin, i dollari che costava un barile di petrolio e il valore di scambio di uno svalutatissimo rublo. E quando ci si mette anche la cabala a fare il gioco del nemico, il complotto plutogiudaico è servito.

La crisi ucraina ha buttato la Russia in ginocchio. Il 2014 si chiuderà con una crescita prossima allo zero e il 2015 sarà segnato dalla recessione. Americani e europei hanno “punito” i russi con sanzioni che hanno limitato l’accesso delle loro banche ai mercati occidentali e le importazioni di beni tecnologici. Mosca ha risposto con misure restrittive sull’agroalimentare europeo. Ed ecco che il valore del rublo ha cominciato a crollare e l’inflazione a salire. E per 144 milioni di cittadini russi gli smottamenti economici rievocano sempre lo stesso spettro: la crisi degli anni Novanta, quando la mala gestio della transizione tra comunismo e capitalismo ridusse alla fame la maggior parte della popolazione.

È stato Putin a risollevare il Paese con un paio di guerre in Cecenia e la nazionalizzazione di gas e petrolio, ottenuta tramite eliminazione degli oligarchi avversi. Ma oggi Putin non combatte contro i cattivi caucasici, oggi mina l’integrità territoriale di un vicino prezioso della Ue. E il mondo finanziario sa che l’Occidente non se ne starà a guardare. La fiducia degli investitori cala e le riserve russe non sono così elevate da garantire la stabilità del Paese di fronte a una crisi come quella del 2008. Eppure il presidente ha cercato di rassicurare i suoi elettori proprio sostenendo che la Russia ce la può fare da sola. Nel suo discorso alla nazione del 4 dicembre ha promesso che sosterrà il rublo e la piccola e media impresa facendo ricorso ai fondi di riserva, ha parlato di innovazione e persino di una timida liberalizzazione, ma non ha fornito dati certi né annunciato misure abbastanza drastiche da convincere i suoi concittadini. Allora ha provato a conquistarli promettendo di colpire i corrotti come se fossero traditori della patria, colpevoli di attentato alla sicurezza nazionale. Ma le sue parole suonano poco credibili a un popolo assuefatto alle bustarelle da un secolo.

E la sfiducia dei russi sembra confermata dai fatti: il 9 dicembre la Banca centrale è intervenuta per risollevare il rublo acquistando 4,5 miliardi di dollari, eppure la valuta russa ha continuato a crollare, scendendo addirittura a 54,25 rubli per dollaro. Il prezzo del petrolio scende e il costo di mantenere la Crimea a sale. Il presidente non sembra avere un piano B rispetto alla strategia di sempre: massicce esportazioni di risorse energetiche. E la sua debolezza emerge quando prospetta la collaborazione col nemico di sempre: gli Usa. Si tratta di lotta al terrorismo e alla diffusione del virus Ebola, ma anche di una nuova cooperazione per la crisi in Siria.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 27 dicembre 2014

L’arte del bene comune

Le sue sculture concave, su specchi d’acqua, accendono magnetici fuochi, in grigi paesaggi di provincia del Nord Europa. A Chicago, invece, la superficie riflettente del suo gigantesco “fagiolo” cattura l’immagine di grattacieli e di passanti, restituendole rovesciate, deformate, aprendo il Millennium Park ad un orizzonte onirico e imprevisto. Sono i “sortilegi” dell’arte in spazi pubblici, quando sculture, fontane e installazioni non si limitano a celebrare l’esistente, ma riescono addirittura a ridisegnare l’intorno. È questo il caso delle sculture – installazioni dell’anglo indiano Anish Kapoor, ma anche di tanti altri artisti di talento, che dopo la fine della scultura intesa in senso celebrativo e monumentale, hanno trovato forme e linguaggi nuovi per fare opere site specific, che sovvertono l’ordinario in maniera creativa, coinvolgendo i cittadini in modo invisibile e profondo.

Di questo tema, vastissimo, si è occupata Anna Detheridge in Scultori della speranza, un bel libro uscito nel 2012 per Einaudi e ora alla base dell’attività formativa dell’associazione no profit Connecting Cultures, fondata dalla giornalista e studiosa. Che precisa: «Quando parliamo di Public Art , non volendo essere superficiali, dobbiamo specificare i diversi ambiti. E avere ben presente che dalla metà degli anni 60 in poi lo scenario è diventato più complesso: si è sviluppata una sensibilità nuova.

Il mondo è più mediatico. Lo vediamo attraverso una “finestra” già selezionata per noi. Per cui identificare l’arte tout court con le antiche tecniche non è più corretto». Per parlare di Public Art, insomma, non basta mettere una scultura in una rotatoria. «Anche perché spesso è fatta dal cugino del sindaco. E gli esiti sono terrificanti», chiosa Detheridge. Occorre invece che le opere, qualunque sia la loro forma, abbiano un rapporto con il contesto inteso non solo in senso architettonico ma anche sociale. «Un artista deve saper valutare se lo spazio in cui interviene è vuoto o pieno, se c’è troppo rumore ecc. Per dare risposte adeguate. Tutto questo richiede non solo una sensibilità ma anche una specifica formazione». Solo così l’arte pubblica può innescare anche un processo di coesione, di interrelazione. «Fare arte negli spazi pubblici non vuol dire andare verso l’altro in termini assistenziali o puramente sociali» sottolinea Detheridge. «Un artista dovrebbe dire: siamo in questo luogo, condividiamo questo spazio e vediamo cosa possiamo fare insieme. Perché la partecipazione abbia un senso per te e per me».

Anche per questo Anna Detheridge considera semplicistico propagandare, come è stato fatto nei giorni scorsi a Roma dall’assessorato alla cultura, interventi di Street Art nei quartieri più a rischio, come un progetto di recupero delle periferie e di lotta al degrado. «È chiaro che ai gravissimi problemi di disonestà e di criminalità non basta rispondere con graffiti o sculture. Ciò che può fare l’arte è offrire una nuova visione e avviare la possibilità di un cambiamento. Ma l’arte ha a che fare con la relazione,con la sensibilità. Aspetti che evidentemente questo sistema criminale ha completamente calpestato».

In generale, però, in Italia«non mancano esempi in cui gli artisti sono riusciti a costruire, non solo dei luoghi ameni, ma davvero vivi e di scambio», assicura Detheridge. Magari dove meno te lo aspetti. In provincia o in piccoli borghi del Chianti, con iniziative come Arte all’Arte. Un intervento riuscito è, secondo la studiosa, quello realizzato da Alberto Garutti al Teatro comunale di Peccioli in provincia di Pisa. «Non si tratta propriamente di un’opera di ristrutturazione – precisa Detheridge -. È il risultato di una relazione. L’artista qui ha fatto qualcosa di specifico, proprio per gli abitanti della zona. Non si tratta di fabbricare oggetti in più, ma di tessere rapporti. In questo modo un’opera diventa un dispositivo e il risultato estetico non è più la sola cosa che conti».

Un classico esempio di questo tipo di arte pensata come avvio di un processo potenzialmente trasformativo è quello del gruppo Stalker al Corviale, dove per lungo tempo architetti e artisti hanno lavorato con la popolazione. «Purtroppo, in Italia, questo tipo di intervento non ha alcun tipo di definizione e non viene riconosciuto. Così – denuncia Detheridge – queste realizzazioni vengono disperse, inficiate. Perché non se ne comprende l’importanza e nessuna istituzione le promuove. Ma anche se si tratta di segni apparentemente effimeri avevano la speranza, l’intenzionalità, di cambiare le cose, di ampliare un pochino la sensibilità . Fare il processo all’architettura oggi non serve. Alla fine del modernismo costruire una casa lunga 1 km forse non era un’idea così brillante. Ma è anche vero che Corviale è stato abbandonato dalle istituzioni, si è lasciato che diventasse un ghetto».

Nel libro Scultori della speranza Anna Detheridge ricorda casi in cui edifici storici, invece, hanno assunto significati importanti per una comunità e che sono stati recuperati e ricostruiti con ogni sforzo possibile. Quello più emblematico riguarda il ponte di Mostar in Bosnia, che fu fatto saltare nel 1993, diventando l’icona della città. «L’aspetto più emozionante di questo ponte è che appare più simile a una scultura collettiva che a un’opera classica», osserva Anna Detheridge nel suo libro.

l’articolo integrale su left in edicola sabato 27 dicembre 2014

Alla ricerca del luogo perduto

Un anno fa in questi stessi giorni Matteo Renzi aveva appena vinto le primarie e si accingeva a tranquillizzare l’allora premier Enrico Letta con un tweet destinato a entrare nella storia del machiavellismo alle vongole. Nel Partito democratico era in pieno svolgimento l’assalto al carro del vincitore e già molti di quelli che avevano creduto alla “rivoluzione renziana” cominciavano ad avere più di un dubbio attorno alla sua effettività.

Negli uffici delle procure di Roma, Venezia e Milano si accumulavano le carte che di lì a qualche mese avrebbero svelato al Paese che Tangentopoli era Disneyland in confronto. E in qualche milione di italiani sempre più smarriti maturava lo stato d’animo che li avrebbe indotti a sommarsi a quegli altri milioni di “già disgustati” che da tempo avevano deciso di disertare le urne. Sullo sfondo si udiva uno sciabordare d’acqua a tratti coperto da grida disperate di aiuto e molti di noi s’aggrappavano come naufraghi all’operazione Mare Nostrum. Ci dicevano, come a dire il vero altre volte in passato: “Ma sì, a volte riusciamo a essere ancora un grande Paese”.

Un anno dopo, oggi, ci aggiriamo più annoiati che smarriti tra le macerie. Ormai assuefatti all’idea che un luogo dove ritrovarsi non solo non c’è mai stato, ma non sarà facile trovarlo. Perché se prima il distacco dei partiti dalla società era avvertito come un problema, adesso è teorizzato e anche praticato come metodo moderno e addirittura innovativo. Se le cose non quadrano, si invia il commissario. Come se non bastasse, tra i contestatori più visibili di questa versione sbarazzina del centralismo burocratico, troviamo anche quanti l’avevano praticato in modo solo un po’ più ipocrita quando erano maggioranza e lasciavano proliferare quel sistema marcio che oggi mette in difficoltà i loro pur astutissimi e innovativi successori.

Nel frattempo, mentre guidavamo l’Europa, e “mostravamo i pugni” in economia, abbiamo disciplinatamente accettato la richiesta europea di interrompere i salvataggi in mare, anzi di limitarli alla distanza di 30 miglia dalla costa, e siamo in attesa della prossima catastrofe umanitaria per completare l’inventario dei sinonimi di “vergogna”.

Salutiamo, più precisamente mandiamo alla malora, questo 2014, con la speranza che nell’anno che verrà quel luogo, un luogo, prenda o riprenda forma. E, soprattutto, che sia meglio frequentato. Auguri.