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Stefano Rodotà e la costruzione umana

A pochi giorni dai drammatici eventi che hanno scosso la patria di “liberté, égalité, fraternité” è d’obbligo condurre una seria riflessione sulla dissoluzione cui stiamo assistendo dei legami umani. Per non soccombere a un realismo disperato e cinico, Stefano Rodotà prosegue quella riflessione sui diritti, che aveva iniziato con Il diritto di avere diritti, nel suo nuovo libro Solidarietà. Un’utopia necessaria (ed. Laterza).

Etimologicamente parlando la parola rimanda sia a “solido” che a “compatto”, dunque ciò che nella compagine sociale garantisce resistenza e unità. Ciò che fa sì che gli esseri umani stiano insieme fra di loro, diventando così più resistenti e forti; quel collante che tiene uniti i pezzi là dove questi ultimi si perdono, si staccano, si corrompono. Stefano Rodotà richiama l’attenzione su uno di quei principi costituzionali che, nella storia, ha avuto un percorso assai intermittente, fino a essere in pericolo di vita oggi nel mondo liquido del XXI secolo.

Come se gli uomini, di fronte all’aumentare esponenziale delle disuguaglianze e all’abbattimento dei confini degli Stati Nazione rispondessero con un sempre maggior isolamento, con una sempre maggiore quantità di odio verso coloro che non sono “noi”. Se crescono le disuguaglianze – nota Rodotà – aumenta l’infelicità. Gli uomini si ritrovano a scontrarsi l’uno contro l’altro nelle periferie delle città, nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, in cui prevale un’assurda contrapposizione tra vecchi e giovani, tutelati e non tutelati. Il tutto a favore dei pochi ricchi, dei pochi potenti, dei pochi privilegiati che hanno interesse che le persone si rifugino impaurite nelle proprie case, nei propri recinti.

Più si è divisi e più si è deboli, non si chiede niente e non si lotta. Alla liquidità, alla flessibilità, alla lacunosità attuale Rodotà contrappone la solidità, la stabilità e la certezza di un principio. Se la modernità occidentale si è venuta a costituire intorno a quel «tutti gli uomini nascono liberi e uguali», è poi a partire dall’800, dalle lotte operaie e dalle organizzazioni mutualistiche, che si è imposta la solidarietà, che tra ’800 e ’900 si è separata dalla fraternità della Rivoluzione francese e dall’assistenza del cristianesimo generando il cosiddetto “Stato sociale”.

l’articolo integrale su left in edicola sabato 17 gennaio

Forza Emma

Una delle volte che l’abbiamo intervistata, alla domanda: «Perché voi Radicali cavalcate, spesso solitari, tutte le più importanti battaglie per i diritti civili?», lei ci rispose secca: «La domanda da porsi sarebbe: perché non lo hanno fatto gli altri? Per noi i diritti civili sono sempre stati questioni sociali, non temi per ricchi o di serie B».

Emma Bonino è così, non sa cosa sia la paura oppure non ha tempo per lei. Si stupisce sempre delle domande che le fai, ha le idee chiarissime e le battaglie per i diritti civili le ha fatte tutte. Sempre in prima linea.

Left e tutti i suoi collaboratori ed editorialisti sono con lei, nella battaglia contro il cancro. Che nulla della sua forza e della sua passione politica le toglierà.

left torna in edicola, la nota di Matteo Fago

In questi giorni ci sono state dichiarazioni da parte dei giornalisti della cooperativa Left avvenimenti scpl su di me e il mio operato. Io “non gradirei” i lavoratori della Cooperativa che editava il settimanale Left. Tutto ciò è completamente falso.

I lavoratori della cooperativa Left avvenimenti scpl sanno bene che da parte di EditorialeNovanta c’è stata la disponibilità a parlare con tutti, ribadita al fiduciario sindacale Cecilia Tosi il giorno 8 gennaio alla vigilia dell’assemblea della cooperativa. Alcuni hanno risposto, altri no. O meglio hanno risposto con attacchi gratuiti nei quali si dice che io sarei un pericoloso personaggio che, dopo aver fatto fallire l’Unità, ora fa fallire Left.

È avvilente leggere il falso e fa male. Perché la verità, come tutti sanno, anche quelli che mi attaccano, è che ho cercato sempre di fare tutto il possibile e l’impossibile, sia con l’Unità che con Left. Senza mai chiedere nulla in cambio.

Se si vuole ricostruire la storia di questi mesi allora bisogna farlo in maniera trasparente ed imparziale.

  1. La cooperativa che ha editato il giornale in questi mesi è nata a marzo del 2014 e fin dall’inizio ha avuto bisogno di aiuto finanziario. I soldi necessari per fare l’offerta di acquisto della testata ed avere il comodato d’uso dalla liquidazione della precedente cooperativa (Editrice dell’Altritalia soc. coop.) non sono stati messi a disposizione dai soci della nuova cooperativa ma da un privato che si è reso disponibile a prestare 36.000 euro senza nessuna garanzia e senza essere socio della Left avvenimenti. La cooperativa non ha mai avuto alcun capitale sociale significativo.
  2. I soci lavoratori hanno fatto delle valutazioni economiche errate. Spese del personale elevate e una mancata previsione della significativa riduzione dei contributi pubblici all’editoria. Questo ha comportato uno squilibrio economico fin dai primi mesi di attività, per arrivare velocemente al default della stessa Cooperativa neonata.
  3. A settembre ho deciso di dare delle garanzie finanziarie per permettere a Left di continuare a stampare e quindi essere in edicola, dato che il precedente tipografo si era detto non più disponibile per i tanti insoluti precedenti.
  4. Successivamente, mentre valutavo il modo con cui poter editare il settimanale, ho chiesto alla cooperativa di rafforzare la direzione con una persona di mia fiducia, nonché fondatrice dello stesso settimanale nel 2006, Ilaria Bonaccorsi.

Non c’è mai stata da parte mia ingerenza di alcun tipo nei confronti della direzione di Giovanni Maria Bellu, né ostilità verso nessuno. Semmai il contrario.

Da parte mia e di EditorialeNovanta, c’è la volontà di lavorare sodo per costruire il futuro di Left e non per far chiudere questo settimanale. Questo è sempre stato il mio unico obiettivo. Nel pieno rispetto delle persone e dei lavoratori. Vorrei che lo stesso venisse riservato alla mia persona.

Tutte le porte rimangono aperte.

Matteo Fago

Sabato 17 gennaio il settimanale left torna in edicola

A seguito delle polemiche sollevate dalla cooperativa Left scpl, editrice del settimanale “Left” da marzo a dicembre 2014 e che vogliono coinvolgere la nostra società, EditorialeNovanta, ribadiamo che si tratta di attacchi e accuse totalmente false e infondate.

La realtà dei fatti è che la nostra Società ha presentato nei giorni scorsi al liquidatore della Editrice dell’Altritalia soc.coop. in liquidazione, proprietaria della testata Left-Avvenimenti, formale offerta d’acquisto secondo le procedure previste dalla legge. Il liquidatore, prendendo atto della sospensione delle pubblicazioni e della rinuncia all’uso della testata da parte della cooperativa che ha editato nel 2014 il settimanale, ha ufficialmente affidato il “comodato d’uso” a EditorialeNovanta.

La nostra società ha accettato la proposta del liquidatore e si è impegnata a riportare il settimanale in edicola nel più breve tempo possibile, al fine di non procurare ulteriore perdita di valore alla stessa. Così come promesso e annunciato sabato prossimo 17 gennaio Left sarà in tutte le edicole. In merito poi alle polemiche sollevate in questi giorni dai soci lavoratori della cooperativa Left scpl e che hanno coinvolto Matteo Fago, socio di EditorialeNovanta, c’è da sottolineare che nessun atto è stato mai stipulato per un ingresso della nostra società o di Fago tra i soci della cooperativa.

Fago, per sua iniziativa personale, come riconosciuto nel comunicato dagli stessi soci della cooperativa, “ha garantito la continuazione della pubblicazione da settembre a dicembre” senza chiedere o pretendere nulla nella gestione della società o sulla scelta dei contenuti editoriali e politici, sempre decisi liberamente dal direttore responsabile e dalla redazione nelle ultime tredici settimane. Purtroppo, anche il supporto offerto da Fago non ha prodotto risultati in termini di vendite, diffusione e “visibilità” del settimanale tanto che si è giunti alla sospensione della pubblicazione.

Il Presidente e Amministratore Delegato
Roberto Orlandi

Il castello di Sammezzano all’asta, petizioni e raccolte fondi per salvarlo

Il castello di Sammezzano, gioiello di architettura in stile moresco, rischia di essere svenduto.  Riserbo sull’asta che non si è tenuta il 24 maggio, quando il castello doveva essere battuto a partire da un prezzo di 15 milioni di euro. Le aste dell’ ottobre 2015 sono andate deserte.  Così anche a marzo 2016  quando  era stato ad essere battuto all’asta di nuovo a prezzo ribassato.

Mugello potrebbe perdere  uno dei suoi luoghi più immaginifici e suggestivi. Perché il complesso, oltre al maniero comprende altre dodici costruzioni e un parco di 65 ettari dove si trova il bosco di sequoie più grande d’Italia, con esemplari secolari e altissimi.

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Questo spettacolare castello, un’Ahlambra toscana con 365 sale, sorge a Reggello, a pochi chilomentri a nord di Firenze e fu ideato da un personaggio singolare come il marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragon (amante dell’arte e repubblicano della prima ora) che ne modificò la struttura preesistente adeguandolo alla moda ottocentesca dell’Orientalismo, riprogettandolo e orchestrando personalmente questo caleidoscopio di stucchi e piastrelle decorate. Il prezzo base dell’asta è di 22milioni e 200mila euro e, dopo l’interrogazione parlamentare alla Camera di Lorenzo Becattini  del Pd, nella seduta del 7 ottobre 2015  parlamentari del movimento cinque stelle si sono rivolti al ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini chiedendo un interessamento dello Stato, dal momento che  la Castle spa, la società inglese, che nel 2001 l’aveva rilevato da un fallimento, ha deciso di dismetterlo.

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Negli anni, all’incapacità di gestione del privato che aveva lasciato il castello vuoto hanno cercato di supplire associazioni spontanee di cittadini: volontari toscani hanno costituito un’associazione, il comitato FPXA, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, riscoprendo e raccontando la storia di questo castello e del marchese cosmopolita che lo ideò, organizzando visite guidate e facendo interventi di piccola manutenzione e tutela della immaginifica facciata che ricorda il mausoleo indiano Taj Mahal, guidando turisti e curiosi alla scoperta della sala dei Pavoni, della galleria tra la sala degli Specchi e l’ottagono del Fumoir e delle altre sale arabeggianti da cui sono stati colpiti molti registi,  compreso, di recente, Matteo Garrone che  qui ha girato alcune scene del su film presentato a Cannes, Il racconto dei racconti.

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Selma Hayek in una scena de Il racconto dei racconti di Matteo Garrone

Sperando che lo Stato faccia un’offerta pubblica per il castello ed il suo parco storico, si accende  la mobilitazione on line per salvare il Castello: la raccolta fondi lanciata da un giovane sangiovannese ma soprattuto ha fatto già il giro del web; ed è nata a fianco anche una petizione on line, che ha già superato le 2.700 sottoscrizioni.

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[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

La rivolta di Viviane, contro il tribunale rabbinico

Dovremo scrivere una storia del cinema attraverso le ribellioni delle donne. Non ne troveremmo molte. Dovremmo guardare nei film di Dreyer (vale la pena riascoltare le parole di Gertrud «ho molto sofferto, ma ho amato») o piangere nel finale de La notte di Antonioni insieme alla protagonista che legge una lettera d’amore a un uomo fatuo. Rivedere Bergman, forse Mizoguchi, o qualche raro film come Ipazia o Diavolo in corpo. Ormai è chiaro a tutti: nel rapporto fra un uomo e una donna c’è un convitato di pietra. Talvolta manifesto, altre volte meno visibile.

Film, Viviane, Ronit, leftIn Viviane, splendido film di Ronit (che è anche la magnifica protagonista del film) e Shlomi Elkabetz, esso è visibile e invisibile allo stesso tempo. Una donna, Viviane, vuole separarsi da un marito che non ama e da cui non si sente amata. Punto. No, nessun punto. In Israele ci si sottopone a un lungo processo, perché la donna non è libera di decidere il proprio destino. La libertà della donna la può, se vuole, concedere il marito. E il tribunale rabbinico.

Viviane è maledettamente decisa a non voler più sottostare a quell’inferno matrimoniale. Sente l’odio sulla sua pelle e qualcosa che va oltre l’odio. Lo dice: «Tu vuoi il mio annientamento». Vallo a spiegare alla corte rabbinica. La stessa che siede lì marmorea da secoli nella assoluta convinzione che la donna è il male e che il suo ventre è destinato solo per la procreazione e la cura dei figli di Israele. Che cos’è rivoluzionario? Una donna che smette di credere che il talamo nuziale sia un altare inviolabile e il proprio uomo emanazione di Dio. Una donna che guarda nella direzione opposta. Come Viviane.

I registi tengono la macchina da presa all’altezza dello sguardo dei protagonisti facendo muovere le teste come se assistessero a una partita di tennis. Senza pallina. Come nel finale di Blow up. In questa vicenda paradossale e kafkiana (vengono in mente i tribunali dell’Inquisizione nell’atto di accanirsi contro le streghe prima di mandarle al rogo), scopriamo l’assassino ma fortunatamente il “cadavere” è fuggito con piedi e caviglie gonfie fuori dal labirinto della Legge. Il cinema si riscatta con questo film perché fa emergere l’immagine di una donna che si ribella, profanando quell’istituzione con il tocco femminile di una maglietta rossa e il gesto irreversibile di sciogliersi i bellissimi capelli neri.

La regia disegna con maestria la forma del film. L’ambiente angusto di un’aula di giustizia da cui il mondo sembra escluso è inquadrato con la fissità ieratica delle icone bizantine. Le movenze della protagonista esplorano un ampio recitativo che va da un casto naturalismo a pose che rimandano al cinema muto. Il tempo inesorabile e inviolabile delle istituzioni religiose è reso con l’insistenza delle scene, che si ripetono sempre uguali al fine di sfiancare ogni forma di rivolta. E lo spettatore vi è trascinato dentro. Viviane accompagnata solo dal suo onesto e vigoroso avvocato, compie una lotta senza pari contro una corte ottusa perché non umana, emanazione di una legge che è volontà di un Dio unico e assoluto, che ha eletto e circoscritto il suo popolo in uno spazio sacro in cui la donna rappresenta la vera minaccia.

Se il noir finisce nella nebbia

lI noir sta al cinema come il teorema alla scienza. Se è ben dimostrato la struttura regge altrimenti cade. Neve rossa di Ray, Il mistero del falco di Huston, Rapina a mano armata di Kubrick, Delitto perfetto di Hitchcock Mona Lisa di Neil Jordan o il recente Revanche di Götz Spielmann sono ottimi esempi di calibrate strutture narrative. Altro elemento essenziale di un “noir” è lo scavo nella dimensione sessuale dei protagonisti. Torbida o passionale, perversa, sadica o malata, una tale indagine non può mancare in un film del genere.

Film, Neve, leftI materiali messi a punto da Stefano Incerti per Neve facevano ben sperare rispetto al presente corrivo del cinema italiano. Una coltre di neve imbianca un’anonima provincia italiana e ne fa da sfondo alla vicenda. In essa si muovono i nostri protagonisti: Donato, un uomo qualunque e Norah una bellissima ragazza dalla pelle scura e dalla incerta professione. La storia prende avvio dal loro incontro. Donato dice di essere lì per una breve vacanza sulla neve, Norah è stata appena scaricata da un balordo che pare non avere nessuna intenzione di lasciarla perdere. Due vite segrete, ai margini del mondo, che i protagonisti tengono ben strette. Donato insegue qualcosa, Norah fugge da qualcuno.

L’abitacolo della station wagon diventa il loro rifugio, poi una camera d’albergo con due letti singoli. Donato sta cercando di mettere le mani sul malloppo di una rapina finita in tragedia; lei è interessata all’affare. I due hanno le belle facce di Roberto De Francesco ed Esther Elisha.

Tuttavia al film manca il coraggio del regista e dello sceneggiatore di affondare le mani nella neve, preferendo scivolarci sopra troppo comodamente, mentre avrebbero potuto affilare gli strumenti per scavare a fondo nella storia che avevano creato.

Il cinema italiano oggi appare così, come una serie di tentativi di autori a cui manca il coraggio e di altri le cui provocazioni sembrano tratti distintivi di una nuova onda. Incerti con questo film è più onesto di Virzì che col suo ributtante Il capitale umano vuole farci credere di smascherare un mondo da cui non scosta nemmeno le tendine di casa.

Si confronti Neve con il film austriaco Revanche di Spielmann, un capolavoro passato quasi inosservato sui nostri schermi qualche anno fa. Lì un ex detenuto si innamora di una prostituta e con lei fugge via dal prosseneta. Con una rapina cerca di finanziarsi la fuga, ma durante lo scontro a fuoco un poliziotto di provincia uccide la ragazza. Il resto del film si produrrà nel tentativo da parte del protagonista di vendicarsi di quell’uomo in divisa arrivando perfino ad ingravidare la moglie. Anche lì destini alla deriva sullo sfondo di una provincia vuota e fredda. Ma che intelligenza in quel film e quale audacia!

Incerti e Fogli lasciano colpevolmente i due protagonisti in mezzo al guado, impiegandoli a mezzo servizio affidando al direttore della fotografia Pasquale Mari il compito di dare contrasto ad una storia che finisce per annoiare come capita quando fra un uomo e una donna ciò che poteva succedere non accade e i discorsi perdono via via di forza ed intensità.

Elena Cattaneo: senza ricerca non c’è cambiamento

«La scienza si fa nei laboratori ma non è dei laboratori. È della gente». Scienziata di fama mondiale nel campo delle cellule staminali e da poco più di un anno senatrice a vita, Elena Cattaneo, non ha mai rinunciato alla possibilità di fondere la passione per la ricerca con l’impegno civile. Un impegno che dato il ruolo istituzionale ora si traduce anche in messaggio politico. In un ambiente parlamentare iperconcentrato (così almeno pare) solo sulla necessità di far quadrare i conti – e poco importa se il costo da pagare è una feroce disoccupazione giovanile e la distruzione della prospettiva di un lavoro adeguatamente remunerato per intere classi di lavoratori – il suo linguaggio si distingue per semplicità e concretezza.

«È nella ricerca fondamentale, nei liberi pensieri in ogni campo del sapere che un Paese civile deve investire», racconta a Left nel fare una sorta di bilancio della sua esperienza in Senato e di un 2014 cadenzato, come vedremo, da strenue battaglie in difesa della cultura scientifica e da importanti traguardi raggiunti nel campo della ricerca sul Parkinson e la Corea di Huntington. «È stato un primo anno intenso e di scoperta delle istituzioni» spiega la scienziata che all’Università degli Studi di Milano dirige il laboratorio Cellule staminali e malattie neurodegenerative. «Nell’apprezzare la complessità del processo legislativo – prosegue – ne ho anche toccato con mano i limiti. Mi sono subito dovuta confrontare con una proposta di riforma costituzionale, cui ho cercato di contribuire sostenendo l’opportunità di dotarsi di un Senato che fosse “anche” della Conoscenza negli ambiti da cui dipende il futuro: innovazione, scienza e tecnologia; per poi promuovere e portare a compimento una Indagine conoscitiva sulla vicenda Stamina. Penso che questa indagine abbia aiutato a rivelare l’inconsistenza se non la pericolosità del cosiddetto metodo e confido che possa porre le premesse – anche normative – affinché non si ripeta più una storia analoga». Da scienziata, Elena Cattaneo, ha subito denunciato la nebulosità del “metodo” elucubrato da Davide Vannoni, esperto di marketing laureato in lettere e filosofia. Sin da quando nel 2013 il ministro della Salute Balduzzi autorizzò per decreto la somministrazione di Stamina ad alcuni malati. Una denuncia costante, prove e dati alla mano, con il sostegno della comunità scientifica internazionale poiché il metodo non esisteva e la proposta di brevetto era già stata bocciata negli Stati Uniti.

Il caso Vannoni, che a luglio è stato rinviato a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e varie altre ipotesi di reato, e lo sdoganamento ottenuto da Balduzzi poi ratificato dal Parlamento, è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi in cui la politica ha intaccato la sua già traballante credibilità. Dai soldi pubblici spesi per il metodo Di Bella, al veto imposto dal ministro Sacconi alla ricerca sulle staminali embrionali, perché le istituzioni italiane cadono in questa trappola? «È la società tutta che cade in questa trappola che avviluppa anche la politica con esiti disastrosi non tanto per la comunità scientifica, quanto per il Paese sia sotto l’aspetto economico sia, soprattutto, democratico.

La politica – osserva Elena Cattaneo – ne è un epifenomeno, grave nella misura in cui anziché porsi all’avanguardia nella comprensione dei fenomeni ed elaborazione delle politiche pubbliche finisce per inseguire una attualità rumorosa e ombelicale che non aiuta nessuno». Come se ne esce? «Credo che prima di tutto si debba “conoscere e far conoscere” alle persone. Se si difetta nella fase di apprendimento e di formazione (dalla scuola dell’obbligo alle università), di cultura scientifica, di una educazione al metodo, di un approccio analitico alle questioni del mondo, il cittadino non avrà gli strumenti per difendersi, per distinguere il ciarlatano dal competente. Inoltre la possibilità di aumentare la conoscenza dei fenomeni e dei meccanismi della natura sarà vissuta come una minaccia dello status quo e della sicurezza pubblica e non per quel che è: un potenziale strumento per accrescere il benessere collettivo».

Secondo la senatrice, a tutti sin da bambini, nelle scuole primarie, dovrebbe essere raccontato cosa è la scienza e qual è il suo metodo: «Sviluppando il senso sociale dell’impegno nella ricerca del sapere si può partecipare al cambiamento. E forse così cresceranno generazioni che pretendono dai loro rappresentanti di investire in conoscenza. Questa – aggiunge – deve essere una scelta strutturale e non di piccola convenienza momentanea, quando qualcuno vuole qualcosa in cambio in termini elettorali. Da scienziato e in collaborazione con alcuni senatori che vengono dalla politica, sto cercando di proporre questa visione, quasi ossessivamente, a chi di conoscenza e prove non ne vuol proprio sapere. Perché i fatti e la loro verifica spesso non vengono considerati un valore ma un disturbo alle proprie convinzioni».

La convinzione che il messaggio di svolta a un certo punto possa essere recepito deriva dall’esperienza sul campo. Da tempo i risultati di laboratorio hanno spazzato via i pregiudizi e le false accuse circa la pretesa irrilevanza scientifica degli studi sulle cellule staminali embrionali sollevati in epoca di referendum sulla Legge 40. E oggi siamo al punto che è stata appena sperimentata con successo nei topi affetti dal Parkinson una strategia cellulare che permette di recuperare le capacità motorie attraverso il trapianto di neuroni ottenuti da staminali embrionali umane. Il risultato, che apre la strada a futuri test clinici sull’uomo, è stato pubblicato su Cell Stem Cell dal gruppo di Malin Parmar dell’Università svedese di Lund, membro dei consorzi europei NeuroStemcell e NeuroStemcellRepair coordinati da Elena Cattaneo. I ricercatori sono riusciti a trasformare staminali embrionali umane in neuroni capaci di rimpiazzare quelli distrutti dal morbo di Parkinson, malattia neurodegenerativa tra le più diffuse che solo in Italia colpisce oltre 200mila persone. Si tratta di un’ulteriore conferma per chi pensa che quella delle staminali embrionali sia una strada da continuare a percorrere.

«Le staminali embrionali umane – spiega Cattaneo – possono formare tutti i diversi tipi cellulari che compongono il nostro organismo. Sono uno strumento importantissimo per capire come si formano i nostri tessuti e come degenerano. Negli ultimi tre anni si è capito come istruirle affinché generino per esempio, proprio i neuroni che muoiono nel Parkinson. Molte informazioni essenziali a tale scopo sono state ottenute da un’altra ricerca fondamentale che mirava a capire come si formassero proprio quei neuroni nel cervello umano. Queste informazioni sono state poi applicate alle staminali embrionali in vitro dai ricercatori svedesi che hanno così ottenuto quello che nessun altro con nessuna staminale (tanto meno adulta) è mai riuscito ad ottenere in ambito di malattie neurologiche: hanno trasformato quelle cellule in neuroni autentici della giusta tipologia, poi hanno dimostrato che dopo il trapianto essere sopravvivevano, differenziavano, inducevano recupero nell’animale sperimentale ed erano in grado anche di connettersi con il tessuto ricevente attraverso una estesa serie di ramificazioni. Questo sembra dire che potrebbe essere possibile riparare i circuiti danneggiati in una malattia come il Parkinson. Anche a Milano – conclude la scienziata – cerchiamo di ottenere i neuroni che degenerano nell’Huntington. Abbiamo studiato la loro formazione in vivo nel cervello umano. I risultati sono stati resi pubblici a novembre su Nature Neuroscience, dopo 4 anni di lavoro di 17 ricercatori da 6 gruppi diversi in due Paesi europei. Si collabora e si conquista. Per tutti».

Un giallo stile Settanta

Non amo i gialli o noir, preferisco vederli al cinema, dove tutto si conclude entro un paio d’ore e non devo subire una macchina narrativa inutilmente complicata per scioglimenti finali quasi sempre deludenti. Ma ci sono eccezioni. Provate a mettere come detective un tenente colonnello cinquantenne degli alpini, friulano, per di più fidanzato con una writer romana di 23 anni, e già vi ritroverete con un elemento decisamente straniante.

Libri, Paolo Restuccia, Strategia del tango, leftPaolo Restuccia, regista de “Il ruggito del coniglio” e co-responsabile della scuola di scrittura “Omero”, ha inventato un bel personaggio, lievemente anacronistico ma del tutto credibile, per il suo La strategia del tango (Gaffi): Ettore Galimberti. E poi lo ha inserito in una intricata vicenda giallistica dai risvolti politici che per qualche aspetto mi ricorda i b-movie poliziotteschi degli anni 70, ad esempio il piccolo grande classico “La polizia ringrazia” di Steno (quando lo scoprirà Tarantino?). Stessa atmosfera claustrofobica, dove chiunque può tradirti e dove è il potere stesso a ordire le trame.

Il finale, che non posso (deontologicamente) svelare, è un beffardo happy end, liberatorio e cruento. Le qualità del libro sono un humour a tratti irresistibile (di un sardo, divenuto carabiniere, si dice: «forse perché scartato alla leva dei banditi»), poi un romanticismo appena dissimulato, la descrizione di una struggente storia d’amore – tra Ettore e Giulia – controintuitiva e al tempo stesso verosimile, e infine il pluringuismo dell’autore, la sua passione per diletti, gerghi, lingue straniere, strofe di canzoni (la colonna sonora spazia da Gardel al rap di Coolio).

La descrizione naturalistica – meticolosa (le macchie di cibo che ornano le tovaglie, le incrostazioni verdastre sullo spazzolino da viaggio) – e la sua fisionomia di “giallo da camera”(con pochi esterni) evoca il miglior Maigret televisivo d’antan. In fondo la certezza che sperduti nella folla metropolitana ci siano tanti Ettore Galimberti, con le loro contraddizioni ma fondamentalmente integri, è motivo di conforto civile. Alla fine Giulia esce di scena, però sappiamo che non è morta: si manifesta con le sue tag rosse sui muri, un po’ misteriosamente. Come l’utopia, che si può rappresentare non direttamente (diventerebbe retorica), ma solo evocandola.

“Valorizzare” vuol dire cavar soldi?

Oltre ai crolli di Pompei e alle devastazioni del clima, il 2014 ha portato la riforma Franceschini. Riforma, parola abusata da una politica che assomiglia al dantesco rigirarsi senza requie del malato per “fare scherma” al suo dolore.

Ma una parola può dire tante cose. Prendiamo ad esempio “tutela”. Nell’art.9 della Costituzione si legge : «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Si noti che qui la tutela riguarda il paesaggio e il patrimonio storico e artistico: boschi e colture, colline e spiagge, insieme a gallerie e musei, a pitture, sculture e siti archeologici. E ancora: quella tutela era inscindibile dallo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Nel legame fra tutti questi elementi si rivela lo sguardo lucido e l’intuizione lungimirante dei Padri costituenti. Senza lo sviluppo del sapere diffuso e della ricerca scientifica e tecnica non si dà vera tutela di musei e gallerie e siti archeologici, senza archivi e biblioteche non ci sarebbero documenti e libri per conoscere come si sono costituiti quegli assetti del paesaggio e come sono nate quelle opere d’arte.

Nell’Italia devastata del dopoguerra, dove tra le rovine ricominciava a vivere un popolo di analfabeti, i membri dell’Assemblea costituente affidarono alla Repubblica appena nata un compito immenso: elevare i livelli culturali, promuovere la ricerca, garantire la protezione (“tutela”) del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Durante la guerra e l’occupazione tedesca, c’erano stati tanti episodi di tutela: operai a difesa degli impianti industriali, archivisti, studiosi e semplici cittadini a difesa di codici antichi e di opere d’arte. Tanti segni di un senso di responsabilità verso quello che era sentito come un patrimonio comune. E’ una storia che non è mai stata raccontata e che bisognerebbe scrivere, oggi che ognuno saccheggia e privatizza quel che può.

Lo dicono statistiche inesorabili: in quest’ultimo anno, chiacchiere governative a parte, il paesaggio continua a essere la vittima di una cementificazione che procede alla velocità di 480 metri al minuto, secondo gli ultimi dati della Coldiretti. Della ricerca scientifica e tecnica è meglio non parlare. Dello stato di biblioteche e archivi nemmeno.

Intanto al posto di “tutela” è subentrato il termine “valorizzazione”. Al ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo c’è una “Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale”. Valorizzare vuol dire cavar soldi. Pompei, Colosseo, Uffizi sono le principali “macchine da soldi” – una definizione di Matteo Renzi, rivelatrice come poche della cultura dei nostri governanti. E di fatto la riforma del ministero introdotta quest’anno ha sganciato le “macchine da soldi” da tutto il resto, abbandonato a una crisi senza fine.

Nella miriade di archivi, biblioteche e musei che sono il patrimonio dell’Italia reale manca il personale, si ricorre al volontariato, nelle grandi biblioteche piove sui libri (accade a Firenze), dovunque si alzano barriere davanti al diritto dei cittadini di accedere ai servizi. L’attenzione del ministro è concentrata sull’ennesimo giro di valzer dei dirigenti all’interno di una geografia semplificata che promuove pochi grandi poli turisticamente fondamentali.

Un tempo si pensò che le Regioni potessero salvare il patrimonio culturale. Oggi tocca ai sindaci che si arrangiano come possono, appaltando a privati i monumenti, le strade e i ponti in cambio di soldi. A Roma si pensa in grande: per esempio, perché non trasformare il Colosseo in uno stadio con spettacoli veri? Anche perché i gladiatori ci sono già: quei giovani disoccupati mascherati da gladiatori che chiedono monetine agli ingressi dei monumenti romani sono un buon esempio degli sbocchi che l’Italia offre oggi al patrimonio vivo del Paese, i suoi figli. O almeno a quelli tra di loro che non hanno fatto a tempo a prendere posto sulla carrozza di prima classe di una politica diventata affare privato.

Proprio sullo scorcio dell’anno 2014 tra i dettagli minori dello scandalo della mafia capitolina è emersa una piccola storia rivelatrice delle strategie amorali dell’italiano eterno, quello del “tengo famiglia”. Alla Direzione generale per la valorizzazione siede oggi la signora Anna Maria Buzzi, sorella di Salvatore Buzzi, braccio destro del capo della “mafia capitolina”. Una famiglia che si occupa dei figli: nasce così la petulante candidatura della figlia di Anna Maria in un concorso presso lo stesso ministero della mamma, concorso falsato dagli interventi dello zio. La corruzione è entrata nel Dna del Paese, ha svuotato il “diritto di avere diritti” difeso da Stefano Rodotà e cancellato fino in fondo l’etica del “dovere di avere doveri” vanamente predicata da Luciano Violante nel suo parallelo intervento. è solo un minuscolo dettaglio nella storia di disastri e infamie dei beni culturali – il vero romanzo criminale italiano.

Tanti auguri per l’anno che viene. Ma se un lettore ci chiedesse: “Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?”, noi come il venditore leopardiano, risponderemmo: “Signor no, non mi piacerebbe”.