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Torna la terra dei Sogni

The Sandman è stata l’opera con la quale lo scrittore Neil Gaiman si è fatto strada e poi affermato nel pantheon dei migliori autori di fumetti americani, prendendo parte a quella che venne definita la British invasion dei Comics.

A venticinque anni di distanza la DC comics decide di omaggiare una delle sue pubblicazioni più importanti, raccontandoci, sempre attraverso la magistrale penna di Gaiman, i fatti che precedono gli eventi narrati in Preludi e notturni, il primo episodio della serie. Per illustrare questo importante ritorno, è stato chiamato alle matite J.H. Williams III, un artista che con il suo Promethea (insieme ad Alan Moore) ha letteralmente ridefinito i confini del linguaggio fumettistico, facendo incetta di Eisner Awards.

Fumetti, Sandman, leftIl primo numero di Sandman Overture dal punto di vista narrativo è poco più di una galleria di personaggi, un excursus sui protagonisti della vecchia serie, pur gettando al contempo i semi della trama di questa nuova avventura in sei puntate.

Rincontriamo il protagonista, Morfeo re del Sogno, girovagare nei sogni di un fiore, e il terribile essere da lui creato, il Corinzio. Fanno la loro comparsa anche altri due membri della famiglia degli Eterni, fratelli di Morfeo: Destino, portatore del libro che contiene tutti gli eventi passati, presenti e futuri dell’umanità, e Morte, giovane sorella di Sogno, uno dei personaggi più riusciti e amati da parte del pubblico.

Prima della chiusura dell’albo, che riserva una sorpresa per tutti i lettori del Sandman originale, c’è anche il tempo di passare al castello di Sogno e rincontrare i suoi fedeli aiutanti Lucien e Marv testa di zucca, impegnati al solito nelle pulizie della biblioteca di Morfeo.

Sul versante grafico, invece, ci troviamo di fronte alla migliore sperimentazione alla quale Williams ci aveva abituati con Promethea: tecniche miste (bianco e nero, colore e pittura), sequenze di vignette incorniciate in disegni che a loro volta fanno parte e dialogano con gli avvenimenti descritti nelle pagine, illustrazioni che tirano in ballo il lettore stesso, facendogli vestire i panni dei protagonisti dell’albo (un effetto Droste al contrario), fino ad arrivare alla conclusiva pagina pieghevole a quattro facciate, a dimostrazione che con questi autori non bisogna dare nulla per scontato.

Un ritorno tanto inatteso quanto ben accolto, un’operazione commemorativa e commerciale che farà la gioia di tutti, case editrici, autori e lettori, un ultimo breve sguardo alla terra dei sogni e alle gesta di Morfeo, creazione fra le più riuscite della letteratura a fumetti contemporanea.

Il labirinto Art Bonus

Vi ricordate l’Art Bonus, voluto dal ministro dei Beni culturali (Mibac), Dario Franceschini, che garantiva agevolazioni fiscali ai soggetti privati e alle imprese che avessero donato soldi per il restauro del patrimonio artistico del Belpaese? Non sta andando bene. «Non ci sono più alibi, è un intervento a cui tutto il mondo guarderà», aveva commentato il numero uno del Mibac presentando il progetto che avrebbe dovuto attrarre i «mecenati garantendo loro grandi incentivi fiscali».

L’alibi, invece, è stato servito su un piatto d’argento dalle regole applicative del decreto legge del 31 maggio 2014, n. 83 (l’Art Bonus) e dalla burocrazia che è sempre dietro l’angolo pronta a rendere difficile la vita. L’andamento negativo è stato confermato anche da fonti addentro al mondo della cultura le quali ribadiscono che i loro stessi commercialisti hanno avuto difficoltà nel capire il testo e le regole applicative del decreto. Figurarsi quindi il privato cittadino o la piccola e media impresa che devono commissionare la lettura (interpretazione) del testo a dei professionisti, sottraendo quindi una parte dei soldi che si sarebbero potuti versare invece di pagare l’onorario degli esperti.

Insomma, un insieme di regole troppo complesse rischia di soffocare sul nascere il Bonus. La vera scommessa insita nel decreto «per la tutela del patrimonio culturale» era quella di avvicinare anche le piccole realtà al mondo della cultura, sensibilizzando il nascere di una coscienza artistica collettiva. Almeno queste erano le intenzioni del ministro Franceschini prima che l’iniziativa venisse appesantita oltremisura fornendo così un “alibi”: il cittadino si stufa quindi di dover leggere e rileggere la normativa per capirci qualcosa e non ha nessuna voglia di sottoporla ad un commercialista, così anche chi avrebbe voluto donare 50 euro al museo si demoralizza in partenza.

Al momento il numero delle adesioni è basso ma bisognerà aspettare la prossima dichiarazione dei redditi per avere un quadro della situazione. Infatti lo staff dei Beni culturali ha ammesso che «ad oggi non si sa quanti e quali siano gli investimenti complessivi e per non dare un dato parziale sarà necessario un riscontro con le dichiarazioni dei redditi. Questo perché ci sono alcune realtà – vedi i Comuni – che non sono sotto stretto controllo del ministero e quindi per avere un feedback bisognerà aspettare». Resta da chiedersi come sia possibile che se qualcuno ti dà dei soldi, non lo sai subito, almeno per quel che riguarda le realtà che sono di tua pertinenza diretta.

È come se per sapere se qualcuno ti ha fatto un bonifico, dovessi aspettare l’arrivo a casa dell’estratto conto annuale. Senza dati di riferimento il Bonus, così come è, comunque esclude in partenza i piccoli e medi potenziali investitori. Quel che è chiaro è che soltanto i grossi gruppi finanziari hanno le capacità e il personale necessario a percorrere le vie burocratiche obbligatorie per la fruizione dell’Art Bonus. Il ministro forse l’aveva capito subito quando a giugno scorso affermò: «Mi aspetto che ci sia la corsa da parte delle grandi imprese italiane. Se non ci fosse lo troverei scandaloso, in quel caso lo Stato andrà avanti». E i “grandi”, solo qualcuno, hanno risposto.

Esempio ne sono i recenti «interventi per la conservazione e nuova fruizione dell’Arena di Verona», dove Unicredit e Fondazione Cariverona finanzieranno, con sette milioni di euro ciascuno, il vasto progetto: ma ammesso che questi gruppi possano essere annoverati come soggetti privati in senso stretto, comunque sono grandi società che al loro interno hanno interi team di commercialisti ed esperti che studiano, a prescindere dall’Art Bonus, le dinamiche e le leggi in materia di finanza. Oltretutto si tratta di gruppi che già fanno donazioni in diversi settori, quindi nessuna novità sostanziale.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 17 gennaio

Liberté, liberté chérie

Per una volta, l’Europa ha avuto un cuore e una testa; e li ha trovati a Parigi, non nelle nebbie dei Paesi Bassi o nelle gelide banche di Berlino. Liberté, liberté chérie: parola tanto amata da spazzare via per un giorno la paura e far ritrovare il senso di che cosa significa essere europei. Libertà di opinione, di stampa e di manifestazione, libertà di religione e di criticare la religione: conquiste di secoli di errori e di violenza, di guerre di religione rispetto alle quali quello che sta accadendo nel mondo islamico è ben poca cosa.

E se fosse la volta buona, se finalmente la costruzione europea ritrovasse la strada perduta? I sogni sono necessari se si vuole disperdere il grumo di paure e di odio che cerca di penetrare nel tessuto quotidiano della nostra società. Soffiando sul fuoco del sospetto e della paura si possono costruire grandi carriere politiche. In Italia c’è chi ci vuole persuadere che ci sono milioni di islamici pronti a tagliarci la gola, che il nemico sta sul nostro stesso pianerottolo. Ebbene, almeno per un giorno questa gente ha dovuto starsene ai margini della vita collettiva. Ma li ritroveremo subito: siedono in Parlamento, hanno messo insieme un bel pacchetto di voti, dispongono di potenti veicoli di propaganda. Ci vogliono persuadere che solo la purezza di sangue, solo la chiusura delle porte di casa possono salvarci.

Ed ecco, immancabili, dalle colonne del Corrierone, gli appelli alla rinascita di una religione civica, alla quale naturalmente è presupposto l’appoggio della Chiesa: e gli attacchi a chi oggi, al vertice della Chiesa dice e fa cose dissonanti dai loro desideri. Riscopriamo così quello che abbiamo sempre saputo: i ritardi italiani, le contraddizioni di chi inneggia alla libertà “alla francese” ma ne resta lontanissimo. Qui di religione ce n’è una sola. Agli altri, quelli che vengono da fuori, è imposta nelle nostre scuole una brodaglia catechistica a senso unico; se vogliono riunirsi per pregare debbono contentarsi di qualche garage in affitto. E l’eccidio di Charlie Hebdo si tradurrà per loro in altre umiliazioni.

Nei giorni scorsi abbiamo sentito parlare molto di religione, poco di politica, meno ancora di diritti umani. Pochi hanno provato a immaginare la condizione di spirito con cui i milioni di musulmani che riempiono le nostre nazioni europee hanno ascoltato e vissuto le notizie dell’attentato contro Charlie Hebdo. Eppure c’è ancora fra di noi chi ha nella memoria personale o familiare frammenti di ricordi e di immagini della condizione degli emigranti italiani negli Stati Uniti allo scoppio della seconda guerra mondiale. C’erano tra loro molti esuli politici; e molti ebrei esuli dall’Italia per le leggi razziali. Erano fuggiti dall’Italia in cerca di libertà – di religione, di idee,di lavoro. A partire dalla dichiarazione di guerra del 1941 vennero considerati nella categoria di enemy alien, come “nemici interni” divennero sospetti, persero il lavoro, furono messi in campi. E chi si ricorda che dalla plebe disprezzata e sfruttata emigrata dall’Italia e dalle condizioni dei ghetti dove furono costretti a vivere nacquero sì tanti ottimi cittadini americani ma nacquero anche criminali e bande di mafiosi ? Di questo dovremmo ricordarci, oggi che l’Europa che conosciamo è il Paese abitato da milioni di musulmani che hanno come e più dei cittadini di antica data un interesse permanente alla pace e alla crescita del benessere e dei diritti.

Perché i diritti esistono solo se sono di tutti: altrimenti sono privilegi. Noi non siamo in guerra contro la religione musulmana. Abbiamo di fronte la minaccia di un pugno di terroristi e la propaganda di bande di assassini che cercano la radicalizzazione dei conflitti e si servono della religione sfruttando gli errori e i crimini dell’Occidente. è così che nuovi gruppi di potere si sono insediati in territori devastati da decenni di guerre fomentate e condotte dal nostro Occidente. Le armi che usano sono quelle ricevute dagli Stati Uniti che gliele fornirono per far combattere da terzi le loro guerre, da quella afgana contro l’Unione Sovietica in poi, per il petrolio e per l’egemonia mondiale.

Per fanatizzare le masse hanno a disposizione la leva della religione: e l’Europa sa o dovrebbe sapere quanto sangue sia stato versato e quanta violenza abbia partorito la nostra religione prima che si levasse la voce di Voltaire, prima che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino irradiasse da Parigi luce nuova sulla società europea. Non basterà una giornata come quella parigina dell’11 gennaio 2015 a cambiare le cose. Ma è già tanto che la risposta europea all’attentato di quattro terroristi antisemiti sia stata quella dell’immensa folla che ha sfilato per le vie di Parigi sotto il segno e la parola d’ordine della libertà.

I nostri guai sono cominciati a partire da un’altra domenica, quella del 16 settembre 2001 quando George Bush annunziò al mondo: «Questa crociata, questa guerra al terrorismo durerà molto». Oggi, se l’Europa ridiventasse finalmente una realtà politica e non solo bancaria, potrebbe essere arrivato il momento di dichiarare che non abbiamo bisogno di crociate, perché la guerra al terrorismo si combatte con gli strumenti della cultura e della libertà: per tutti, anche per gli islamici che sono tra noi.

Luciano Canfora sulle elezioni in Grecia: serve un’alleanza mediterranea

Nuove forme di schiavitù, smantellamento dello stato sociale, perdita di potere dei parlamenti nazionali e razzismo in agguato. Questo lo scenario della nuova Europa disegnata dalla politica della ormai famosa Troika (Bce, Fmi e Commissione Ue) di cui la Grecia è stata la prima vittima sacrificale con costi altissimi per i suoi cittadini. Una vera catastrofe umanitaria in quella che è stata la culla del pensiero filosofico occidentale. Sarà perché è uomo di sinistra oltre che grande filologo, storico e studioso della classicità, ma Luciano Canfora negli ultimi anni si è speso molto nel denunciare la deriva della politica europea e lo stato di abbandono in cui si è trovata la Grecia.

Professor Canfora, nel libro pubblicato da Laterza È l’Europa che ce lo chiede. Falso!, ha parlato della devastante politica dell’austerity. Alla luce di quanto sta accadendo nelle ultime settimane, con le elezioni greche imminenti, pensa che una vittoria di Syriza possa portare un cambiamento in quella politica?

Certamente, questo è il proposito di Syriza. Poi, se possa riuscirci, è un altro discorso. La volontà di far questo c’è, Tsipras è una persona molto determinata, però se questo si trasformerà in decisioni positive effettive non dipenderà solo da lui. Dipenderà dai ricatti di cui sarà oggetto. Sarà ricattato dalla Merkel, dalla Bce, dalla Bundesbank: non invidio la sua posizione. Comunque il primo problema sarà quello di vincere le elezioni, cosa di cui dubito.

Per quale motivo?

Ci sono ancora un po’ di giorni per manipolare l’elettorato e ce la metteranno tutta per manipolarlo, dopo di che il 26 gennaio vedremo il risultato.

Pensa quindi a una reazione dell’avversario Samaras e al fatto che l’opinione pubblica possa essere influenzata dall’esterno?

Di solito le elezioni le vincono coloro che si è deciso le debbano vincere, difficile credere che le elezioni si svolgano allo stato puro, in nessuna parte del mondo. Abbiamo alle spalle due secoli di esperienze elettorali e quindi lo possiamo dire con una certa sicurezza. Anzi, dirò di più, voglio richiamare quella frase geniale di Antonio Gramsci: se le classi dirigenti perdono le elezioni a ogni morte di papa vuol dire che in passato sono state proprio inette, perché hanno in mano tutto per vincere. Ciò non toglie che ogni tanto gli elettori cambino o si ribellino, speriamo che avvenga con Tsipras.

Gli ultimi anni per la Grecia sono stati terribili e la classe dirigente non ha dimostrato grandi capacità di governo.

In questo caso si tratta di un Paese semicoloniale, perché tutto sommato la Grecia è stata schiavizzata dalle potenze più forti d’Europa, nel cinismo degli altri Paesi mediterranei, Italia, Francia e Spagna. Noi siamo complici dell’oppressione che viene esercitata sulla Grecia perché speriamo di avere le briciole, l’elemosina, l’occhio benevolo dei forti, Germania e Paesi nordici. Un comportamento canagliesco – falliremo anche noi ad un certo momento – ma siamo convinti di farla franca, tanto chi ne va di mezzo sono i greci. Stiamo a vedere.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 17 gennaio

Like Matt Busby

Alexander Matthew Busby era nato nel maggio del 1909 in un borgo di minatori alle porte di Bellshill a 10 miglia da Glasgow. I genitori erano originari della Lituania e suo padre rimase ucciso dalla fanteria tedesca durante la Battaglia di Arras.

Il piccolo Matt aveva 8 anni, altri tre zii morti nella Prima guerra mondiale, tre sorelle, una madre pronta a convolare a nuove nozze ed un unico lavoro a portata di mano. Ma tra la miniera di carbone e il campo da calcio non c’era partita nei sogni del ragazzo che, a tempo debito, non ci pensò due volte a salutare le sorelle, la madre e il patrigno, decisi ormai ad emigrare in America.

La paga da minatore in tasca gli bastava per non morire e una squadra dilettante in cui farsi le ossa era la vera ragione per vivere. I suoi idoli si chiamavano Alex James e Hugh Gallacher: i migliori attaccanti del calcio scozzese. Eppure fu l’odiata Inghilterra a mettere per prima gli occhi sul talento del diciottenne, chiamato a firmare un contratto con il Manchester City. Era il 1928, anno d’oro per la Nazionale di Scozia reduce da uno storico trionfo per 5-1 a Wembley, il tempio degli eterni rivali. L’attacco era guidato proprio da James e da Gallacher.

L’esordio di Busby con la maglia del Manchester City avvenne nel novembre del ‘29 come interno sinistro. Dalla stagione successiva, l’allenatore Peter Hodge gli arretrò il raggio d’azione valorizzandone tecnica e visione di gioco. Durante il campionato ‘35-‘36, Busby perse la titolarità a vantaggio di Jack Percival e, a soli 25 anni e con tanto ancora da dare, venne ceduto al Liverpool piuttosto che ai cugini dello United.

In pochissimo tempo, divenne titolare sia in campo sia nei cuori della kop, la curva dei tifosi di Anfield. Giocò per altre tre stagioni, giusto il tempo di fare da chioccia al giovane Bill Shankly. Era il 1939. Hitler invase la Polonia e il Governo inglese sospese tutti i campionati. Molti calciatori del Liverpool finirono nel Reggimento Reale di fanteria. Il trentenne Busby fu invece chiamato a collaborare come allenatore nei reparti sportivi dell’esercito.

L’antica amicizia con Louis Rocca, dirigente del Manchester United che aveva già provato ad averlo come giocatore, segnò la svolta nella sua carriera e nella storia del club costretto a spartirsi il Maine Road con il Manchester City fino al ‘49 causa l’inagibilità dell’Old Trafford bombardato dai tedeschi. Busby ottenne un contratto di cinque anni per realizzare il suo progetto di squadra vincente.

Appena la macchina si rimise in moto, guidò i Red Devils alla conquista di tre campionati e di una coppa d’Inghilterra. Nel febbraio del ‘58, a Monaco di Baviera, l’aereo su cui viaggiava la comitiva dopo una trasferta di coppa, si schiantò in decollo e otto dei suoi ragazzi, tra cui Duncan Edwards, morirono nell’incidente. Matt Busby sopravvisse, gli venne somministrata per due volte l’estrema unzione ma non ne volle sapere.

Ricostruì il gruppo intorno ad un altro superstite eccellente: Bobby Charlton affiancandogli in attacco Denis Law e George Best, il giocatore più difficile da gestire per un allenatore. Quel collettivo vinse un’altra FA Cup, altri due campionati e la prima Coppa dei Campioni di una squadra inglese. Era il ‘68, lo stadio era Wembley e l’avversario sconfitto il Benfica di Eusebio.

Pochi mesi dopo, i Beatles cantavano: Dig it… like Matt Busby…

Un Presidente fuori dal Palazzo

Ci vuole molto a capire che dopo la manifestazione di Parigi – C’était le 11 janvier – l’Europa non può restare lo stesso coagulo di egoismi e rimozioni che era? Che la politica in Italia non può continuare a discutere se il decreto fiscale di Natale sia stata una regalia a evasori e imbroglioni, di aziende pubbliche e private, o anche un cadeau, merce di scambio, per mister Berlusconi?

Sarò franco, la fase che abbiamo alle spalle, quella che ha portato Matteo Renzi prima a scalare il Pd poi a Palazzo Chigi, ha rappresentato una reazione vitale alla subalternità a Berlusconi, all’appiattimento su Napolitano, alla sottovalutazione dello schiaffo che Grillo e i 5 stelle ci diedero nelle elezioni del 2013. Volontà di potenza, rinnovamento generazionale e politique d’abord.

Ma la crisi è profonda: disoccupazione, sfida terroristica, rischi di guerra in Crimea e né Italia né Europa si salveranno senza valori, idee di lunga lena, un’ispirazione che guidi la politica. Forse il grigio Hollande risorgerà perché ha saputo puntare, con coraggio, sulla risposta del popolo e su una certa idea della Francia.

Tsipras rischia di vincere, il 25 gennaio, le elezioni in Grecia, mentre a Podemos viene accreditato in Spagna un vantaggio di 5 punti sul Psoe e di 9 sui Popolari che governano. Il semestre italiano di presidenza dell’Unione è stato light, senza residuo né sostanza. Perché ha giocato sulla furbizia. Facciamo quel che vuole la Merkel perché conviene anche a noi. Però chiediamo che l’Europa allenti i cordoni della borsa, diciamo crescita anziché rigore. Non funziona: l’Europa deve cambiare davvero. Ha ragione Draghi a dirlo, e fanno bene Iglesias e Tsipras che lo ripetano. Non resisterà neppure l’Euro, senza una gestione solidale dei debiti nazionali. Il debito – l’ha ricordato Lucrezia Reichlin sul Corriere – è conseguenza di azioni volontarie di debitori e creditori. Perciò quando il suo peso diviene intollerabile, sia debitori sia creditori devono accettare rinunce. Però l’Europa deve contare di più, non di meno. Non ci piacciono i burocrati di Bruxelles? Bene, devolviamo più sovranità all’Unione, in cambio di elezioni europee e di controlli democrati. È l’idea che ha messo in piazza il popolo di Parigi, la direzione della storia.

Ora il semestre si è consumato, Napolitano si dimette e noi discutiamo se si debba prima votare il nuovo Presidente della Repubblica o la legge elettorale, Italicum 2.0. Prima o dopo, meglio dire come e perché. Che legge elettorale vogliamo? Qualcuno s’è accorto che il bipolarismo (centrodestra berlusconiano, centrosinistra anti berlusconiano), grazie a Renzi, è ormai un ricordo? Che in prima lettura è stata approvata una legge Costituzionale che supera il bicameralismo? In Germania il Cancelliere è forte anche se – o forse proprio perché – il Bundestag si elegge in modo proporzionale. Non ci fidiamo? Vogliamo comunque una legge maggioritaria? Bene, allora torniamo al collegio uninominale, quello della legge Mattarella o al doppio turno alla francese. Invece, l’Italicum 2.0 che elegge il presidente del Consiglio con il premio (se supera il 40 per cento) o con il ballottaggio, ma i deputati con la proporzionale, con i capolista bloccati, le candidature plurime, una redistribuzione nazionale dei resti e ben cento eletti in forza del premio ottenuto dal premier. Questo no, più che una legge costituirebbe un insulto alla Costituzione. La quale può sopportare anche una Riforma Presidenziale, ma non la costruzione de facto, senza contrappesi né poteri di controllo, di un sistema plebiscitario, che concentra visibilità e poteri in un solo uomo.

Veniamo al Presidente. Proprio perché è in corso una trasformazione politica e costituzionale, che sposta molti poteri a Palazzo Chigi e li affida alla persona del premier – cosa, se non questo, ha dimostrato la triste vicenda del decreto natalizio? – serve un Presidente che garantisca chi sta fuori dal Palazzo e non il Palazzo. Un Presidente amico dei lavoratori che hanno protestato contro il Jobs act, dei portatori di handicap che soffrono per la riduzione dei servizi, dei precari e dei giovani senza lavoro, di artigiani e commercianti sommersi dall’onda delle tasse. Un Presidente con una sua idea dell’Europa e della Costituzione. Del Pd? Non per forza. Ci serve un Presidente di garanzia. Per tutti.

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Occorre indubbiamente onestà. il futuro di left

Occorre indubbiamente onestà per ricostruire e portare avanti Left. Occorre onestà e anche memoria di ferro per ricostruire la storia di questo settimanale. Occorre onestà per dire cosa è Left e come nacque al principio del 2006. Occorre onestà per ricordare la storia dei tre porcellini che andarono alla ricerca della casetta di mattoni che non volasse via al primo soffio del lupo o al primo incendio doloso.

Occorre onestà per raccontare di quei tre porcellini che cercarono il senso della T che veniva dopo la L, la E e la F e che formava la parola inglese Left. Significava, disse uno dei tre, Sinistra e insieme cose lasciate, dimenticate. E occorre onestà per ricordare che i lupi incontrati sono stati tanti. E tanti.

Per nove anni, ogni volta disprezzando e poi mentendo, hanno tentato di dire che la casetta di mattoni era loro. Che senza di loro saremmo morti. Anzi che la nostra vita non aveva alcun valore prima che loro arrivassero. Occorre indubbiamente onestà per riconoscere che molti, tanti, non sono mai stati Left. Non si sono mai neanche riconosciuti in Left. Per anni ci hanno chiesto di tornare ad Avvenimenti. Perché Avvenimenti è più bello, perché Avvenimenti è più famoso, perché Avvenimenti lo conoscono tutti ci dicevano. Insistenti.

Molti, tanti di quelli che oggi si intestano l’identità di Left non hanno neanche mai capito perché i tre porcellini avessero deciso di rischiare tanto. E di affrontare i lupi. E quali lupi. E quando l’hanno capito, hanno deriso, umiliato, svalutato, deformato. Insultato. Per anni. E allora occorre indubbiamente onestà nel ricordare perché nacque Left.

L’idea era quella che “prima” o “per” trasformare il mondo bisognasse trovare la via per trasformare se stessi. L’idea era quella di provare a formare o trasformare la sinistra esistente (o non ancora esistente?), l’idea era quella di scrivere delle cose dimenticate dagli altri, di rendere popolari le cose che non lo erano sino a quel momento. L’idea era quella di raccontare un altro mondo, altre idee. Di fare un altro viaggio, un altro giornalismo, di dare altre notizie. In un altro modo.

L’idea era quella che la libertà vera è il “dovere di essere esseri umani” e che “il rifiuto della neutralità è sapere”. L’idea era quella di costruire un giornale rigoroso, leale, lineare, coerente. Ed era quella di raccontare in tutto il Paese il cambiamento, il conflitto, la cultura, la diversità, la legalità, la giustizia, l’innovazione, la laicità, i diritti, con le nostre parole. Chiare. L’idea era quella di essere appassionatamente di parte. Partigiani di una parte grande, immensa, all’aperto.

Ho sognato una riunione di redazione all’aperto. Ed eravamo in tantissimi. L’idea è questa.

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“Al lupo al lupo” non ha funzionato

La retorica del Grexit non è durata neanche una settimana. Ci avevano provato già nel 2012, ma nessuno casca nel medesimo tranello. Vince la realtà questa volta. Hanno provato a descriverlo come un comunista sfascia tutto. Soprattutto sfascia Europa. Lui invece, Alexis Tsipras leader della Syriza greca, ha in mente un modello di sviluppo semplicemente keynesiano, sostenuto cioè da fondi pubblici. Questo proviamo a raccontarvi in questo primo numero del 2015.

Gli errori del Fondo commessi dal 2010, la devastazione compiuta in questi anni dalla Troika in Grecia e quale rivoluzione “possibile” rappresenti la vittoria di Syriza alle prossime elezioni politiche del 25 gennaio. Certamente non l’uscita dall’euro, ma un deciso cambio di rotta, che prevede il taglio drastico del debito e l’apertura di spazi finanziari per sostenere un piano nazionale di ricostruzione.

E poi le speranze e gli auguri al leader greco del filologo Luciano Canfora; la lunga intervista di Umberto De Giovannangeli al premio Nobel Desmond Tutu e un lungo sfoglio dedicato ai tragici fatti di Parigi. La follia dei nuovi scafisti che abbandonano le navi piene di migranti in balìa delle onde e il lungo e documentato articolo su i progressi fatti nella cura di Ebola. Non solo è possibile guarire ma nel continente africano il virus rallenta la sua corsa. E per finire, il bel libro di Rodotà su solidarietà e disuguaglianze e tante nuove rubriche. Social, musica, buon vivere, fumetti, teledico. Buon inizio a tutti e grazie!

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Atene fa paura. Alla Bce

Un terremoto politico di dimensioni europee. Dal risultato delle elezioni di domenica 25 gennaio uscirà un governo che, per la prima volta da quando è esplosa la crisi del debito, dirà un chiaro e sonoro no alla politica di austerità. Lo dirà con un argomento forte e difficilmente confutabile: la catastrofe umanitaria provocata per quattro lunghi e terribili anni in Grecia.

Un Paese dell’Eurozona ridotto in condizioni da sottosviluppo con 1,3 milioni di disoccupati (27%), la metà della popolazione sotto la linea della povertà (meno di 5.000 euro l’anno), il ceto medio distrutto con un Pil che è sceso del -26% in sei anni. Una guerra contro il popolo greco. Sarà un incubo per il blocco di potere tra la destra neoliberista e le centrali finanziarie che hanno dominato nell’Ue fino a oggi, del tutto incontrastate.

Finora, la collaborazione tra popolari e socialisti nelle istituzioni europee ha sostanzialmente ridotto le critiche alla politica economica in vigore a timide prove di sganciamento (Hollande) o a mere dichiarazioni verbali (Renzi). Ora si tratterà di affrontare un governo che la contesta in toto, si rifiuta di applicarle e pone il debito al primo posto, chiedendo tagli e condizioni di sviluppo per iniziare la restituzione. E non solo. Il nuovo governo greco ha in mente un tipo di sviluppo di tipo keynesiano, sostenuto cioè da fondi pubblici, agli antipodi rispetto a quello imposto dalla troika (Bce, Fmi e Commissione europea), sostanziamente complementare rispetto alle forti economie del nord Europa Alexis Tsipras, il leader della Coalizione della sinistra radicale (Syriza), ritiene giustamente che l’affermazione del suo governo non si limiterà a porre su nuove basi i rapporti tra Atene e Bruxelles.

l’articolo integrale su left in edicola sabato 17 gennaio

Il Nobel Desmond Tutu: giustizia, non vendetta

Ovunque c’è un popolo che soffre, un popolo oppresso; ovunque si fa scempio dei diritti umani, ovunque i poveri, gli indifesi, vengono depredati da poteri corrotti e senza scrupoli. Ovunque una comunità rivendica libertà e giustizia, lui è dalla loro parte. È una vita dalla parte dei più deboli quella di Desmond Tutu, 84 anni, premio Nobel per la Pace 1984, assieme a Nelson Mandela, per la sua lotta contro il regime dell’apartheid. Primo arcivescovo nero di Città del Capo, tra gli altri riconoscimenti internazionali ha ricevuto il premio Albert Schweitzer per l’Umanitarismo nel 1986; il premio “Pacem in Terris” nel 1987; il premio per la Pace di Sydney nel 1999; il premio per la Pace Gandhi nel 2007; la Medaglia presidenziale per la Libertà (Usa) nel 2009 e il premio Templeton nel 2013. Tutu è da sempre sostenitore del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

E oggi, in un Medio Oriente in fiamme e con il terrorismo qaedista che colpisce nel cuore dell’Europa con l’“11 settembre” francese, acquista ancor più valore, ciò da lui più volte ribadito pubblicamente: «Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei». Nel sostenere la campagna internazionale per il boicottaggio economico d’Israele, Tutu ha affermato: «Chi continua nei propri affari economici con Israele, contribuisce a perpetuare uno status quo assolutamente ingiusto. Coloro i quali contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele stanno affermando che tanto gli israeliani quanto i palestinesi hanno lo stesso diritto a dignità e pace».

Per le sue prese di posizioni a sostegno dei diritti del popolo palestinese, Lei è ritenuto dai falchi israeliani un nemico dello Stato ebraico.

Trovo profondamente ingiusta questa accusa che provoca in me un sentimento di dolore. Per mia fortuna, posso annoverare tra i miei più cari amici persone di fede ebraica. E così vale per tanti cittadini israeliani. Io non ho mai messo in discussione il diritto di Israele a vivere all’interno di frontiere sicure. Ma questo non giustifica ciò che Israele ha fatto e continua a fare a un altro popolo per garantire la propria esistenza. Le mie visite in Terrasanta sono state per me un viaggio nel passato, un doloroso viaggio nella memoria, nel dolore. Ha riaperto antiche ferite. Nell’umiliazione dei palestinesi ai check point ho rivisto ciò che noi neri provavamo in Sudafrica quando un ufficiale ti impediva di passare. Un’umiliazione sistematica, quella praticata da membri delle forze di sicurezza israeliane, che non risparmia neanche le donne e i bambini. Ho visto madri pregare inutilmente per potersi recare in un villaggio vicino per poter assistere gli anziani genitori impossibilitati a muoversi. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell’apartheid. Ai miei amici israeliani ed ebrei non mi stancherò di ripetere che Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni, i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica.

Le autorità israeliane ribatterebbero che loro esercitano il diritto di difesa…

In passato, anche recente, ho condannato chi in Palestina è responsabili dei lanci di missili e razzi su Israele. Costoro non fanno altro che alimentare il fuoco dell’odio e rafforzare gli estremisti che usano strumentalmente la causa palestinese per propagandare odio e seminare terrore. Io sono contro ogni forma di violenza. Ma occorre essere chiari, il popolo di Palestina ha tutto il diritto di lottare per la propria dignità e libertà. Penso alle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza, non solo con le armi ma anche con l’embargo che dura ormai da anni, una punizione collettiva contraria non solo al Diritto umanitario ma anche alla Convenzione di Ginevra. Penso al Muro in Cisgiordania, alle terre espropriate ai palestinesi per costruire insediamenti o ampliare il Muro. Lo Stato d’Israele agisce come se non esistesse un domani. Ma non esiste una sicurezza fondata sulla sofferenza inflitta quotidianamente a un altro popolo.

Una lezione che i Grandi della Terra sembrano non avere inteso. Cosa si sente di dir loro?

A loro, ma anche a ciascuno di noi, perché ognuno nel proprio ambito è padrone dei suoi atti e dei suoi silenzi, direi che chiudere gli occhi di fronte a ingiustizie come quelle perpetrate verso il popolo palestinese, vuol dire essere corresponsabili di quelle ingiustizie. Non agendo hanno scelto di stare dalla parte dell’oppressore. Oggi si torna ad agitare lo spettro della guerra al terrorismo. Una guerra che tutto giustificherebbe, anche l’uso sistematico della tortura. Ma la guerra al terrorismo non sarà mai vinta se continueranno a esserci persone, in ogni angolo della terra, pronte a commettere atti disperati a causa della povertà, della malattia e dell’ignoranza.

Vorrei restare sul tema dell’uso della tortura nella lotta al terrorismo. Lei è stato promotore, assieme ad altri 11 Nobel per la Pace, di un appello al presidente Obama su questo delicatissimo tema.

Va dato merito al presidente Obama di aver ammesso che gli Stati Uniti hanno fatto uso di tecniche di tortura negli interrogatori di presunti terroristi. Questa ammissione rappresenta il primo passo verso la fine di uno dei capitoli più tristi e inquietanti nella storia degli Stati Uniti. Ma la trasparenza da sola non basta. Vanno perseguiti i responsabili di quegli atti, così come il presidente Obama deve dar seguito alla promessa, finora inevasa, della chiusura di Guantanamo. Questo è un obbligo che l’America ha verso il mondo. Perché il suo cattivo esempio è stato utilizzato per giustificare l’uso della tortura dai regimi di tutto il mondo: se lo fa l’America perché non possiamo farlo anche noi? La tortura è sempre e comunque un atto spregevole, diabolico, ingiustificabile, contro cui è un dovere, oltre che un diritto, ribellarsi. Non c’è niente di peggio che rassegnarsi alle ingiustizie. Questi sono giorni di letizia e di festa per i cristiani nel mondo. Ma anche in questi momenti, bisogna chiedersi come si possa israeliano fare a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. La speranza non deve abbandonarci mai, ma a essa deve accompagnarsi la determinazione ad agire per dare un senso concreto a parole come giustizia, fratellanza, solidarietà. E non c’è niente di più educativo che ascoltare la voce dei poveri.

Il Summit mondiale dei Nobel per la Pace svoltosi dal 12 al 14 dicembre scorsi a Roma, è stato dedicato a Nelson Mandela, a un anno dalla sua scomparsa. Se c’è un uomo che può rinverdirne la memoria, questo indubbiamente è Lei. Cosa ha reso davvero grande Nelson Mandela?

Vede, non sono pochi nella Storia a essere ricordati come vincitori. C’è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito. Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell’apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l’idea, dalla quale è nata “La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall’allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, che operò dal 1996 al 1998, oggi presieduta da Tutu, ndr) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c’è futuro.