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Musica in evoluzione tra streaming e vecchi vinili

Funziona così: gli album, al momento, o non entrano in borsa, o stanno tutti in una tasca, senza nemmeno essere di proprietà. La musica sembra non avere mezze misure. Nell’eterno combattere tra un formato e l’altro, nella continua evoluzione tecnologica che ha reso per anni il mercato discografico un girone dantesco, tra cassette da riavvolgere con la matita e cd a rischio usura, si affaccia un nuovo (precario?) equilibrio. Da un lato c’è lo streaming, che consente l’ascolto di milioni di brani in cambio di una connessione internet, e dall’altro il buon vecchio vinile, che rivive, almeno tra il pubblico, momenti di gloria. Tra i due opposti, un limbo.

A settembre 2014, nella classifica “Top of the Music” settimanale, realizzata da Fimi/Gfk, hanno fatto ingresso, per la prima volta, i dati dello streaming, integrati a quelli del download (cioè tracce e album acquistati e scaricati): insieme costituiscono ciò che viene definito “segmento digitale”. La Federazione industria musicale italiana, nei suoi conteggi, ha tenuto conto dei vari protagonisti di questo settore attivi nel nostro Paese come Spotify, Deezer, Google play, Juke, Napster, Play.me, Rdio, TIMmusic e Xbox Live. Si tratta di piattaforme web e relative applicazioni digitali per smartphone e tablet, che sono immensi archivi musicali.

Le modalità di fruizione per il pubblico cambiano a seconda del mezzo, ma si muovono principalmente su due binari: l’accesso gratuito, ma con inserzioni pubblicitarie e limitazioni in termini di tempo, o l’abbonamento mensile, che di norma costa 9.99 euro. In questo caso si possono ascoltare illimitatamente tutte le canzoni che il servizio offre, sia da computer, sia da mobile (attraverso il traffico dati). Tanto per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno, Spotify (lancio svedese nel 2008) conta attualmente più di 50 milioni di utenti attivi e oltre 12,5 milioni di abbonati, il tutto in 58 Paesi. Deezer invece, francese, ha 16 milioni di utenti mensili attivi, 6 milioni di abbonati paganti, in oltre 180 Paesi. Sempre restando in Italia, secondi i dati forniti da Deloitte per Fimi, nei primi 9 mesi del 2014 «il digitale, fortemente trascinato dai ricavi connessi ai servizi streaming cresce del 20 per cento, in particolare i servizi in streaming sono saliti del 109 per cento», si legge nella nota ufficiale.

Il concetto di cambiamento del paradigma di fruizione, “dal possesso all’accesso”, significa proprio questo: album e tracce non sono più nelle pile di dischi sparsi in casa e in auto, ma sono in uno spazio altro al quale si accede previa autenticazione e/o pagamento. Una gioia per i più compulsivi e curiosi – di solito i servizi sono dotati di algoritmi più o meno efficaci che consigliano all’utente musica nuova in base ai suoi gusti – e una quadratura del cerchio da trovare ancora, per gli artisti.

Mentre la maggior parte delle case discografiche ha ritenuto le piattaforme una valida alternativa al download illegale, molti sono gli artisti che si sono schierati contro, lamentando principalmente uno scarso rendimento economico rispetto al numero di ascolti sulle loro opere. La popstar Taylor Swift, per esempio, che ha ritirato il suo “1989” dalle piattaforme, ha venduto 3.661 milioni di copie, riporta Billboard analizzando gli ultimi dati Nielsen Music per gli States.

Sempre secondo quest’analisi, lo streaming è cresciuto del 54 per cento rispetto al 2013. La storia “artisti Vs streaming” offre sempre nuove puntate: Marty Bandier, Ceo di Sony/Atv, ha chiesto spiegazioni, per così dire, al servizio Pandora, in merito ai guadagni di Pharrell Williams. La sua “Happy”, tormentone 2014, propinato in ogni salsa, ha guadagnato 2.700 dollari a fronte di 43 milioni di ascolti streaming, ha detto Bandier a Digital music news. Pandora ha risposto che in realtà i soldi corrisposti ai titolari dei diritti per quel brano erano 150mila dollari in tre mesi e che, se le etichette hanno difficoltà di ripartizione royaltie al loro interno, beh, problema loro. E ancora, il tira e molla sulle condizioni economiche tra Youtube e l’agenzia Merlin, che rappresenta frotte di indipendenti, prima del lancio del servizio streaming Youtube music key, il cui impatto sul settore genera molta attesa.

In tutta questa baraonda, in un mercato sempre più affollato di servizi che se la giocano a suon di nuove funzioni di piattaforma, o nuove esclusive – per esempio TimMusic, per gli utenti Tim, si è accaparrato quella del nuovo disco di Marco Mengoni – il vinile fa la sua bella figura, portando a casa numeri che ridono in faccia agli altri supporti. Il più vecchio di tutti regge meglio degli altri. Freni chi pensa sia roba per fanatici hipster: la dicotomia streaming/vinile è più formale che sostanziale.

Il pubblico degli appassionati del supporto, dei booklet, dei contenuti speciali, sono gli stessi che negli anni hanno fatto produrre ai maggiori artisti (ma anche agli indipendenti), pacchi di cofanetti deluxe, edizioni speciali, copie firmate dalle madri degli artisti, inviti a cena con la band (le ultime sono volutamente parossistiche) e, appunto, vinili limitati. A ottobre, dal Medimex 2014 la Fimi faceva sapere che il trend di crescita del vinile prosegue la recente traiettoria in controtendenza con il comparto del fisico – in calo del 19 per cento invece il download, così come pure, anche se di poco, le vendite del supporto fisico, con un 4 per cento – e, pur rappresentando solo una piccola nicchia sull’intero mercato, ha registrato un +66 per cento. Nielsen conferma: + 52per cento delle vendite (9,2 milioni nel 2014, rispetto ai 6,1 milioni nel 2013).

Un’impennata così importante, da far emergere un problema non banale, secondo il Wall Street Journal: i macchinari sono vecchi, e quel tipo di industria, in realtà, non esiste più. Su questo si pronuncerà il tempo, ma intanto, come fa notare Rolling Stone, il mondo risponde. Discogs ha lanciato VinylHub (.com), per trovare i negozi di vinili in tutto il mondo. E questo, al momento, è un altro punto di contatto tra il digitale e il fisico.

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La Waterloo di Hollande

“La battaglia di Parigi”. “L’11 settembre della Francia”. Metafore e retorica bellicista, soprattutto italiana (“Siamo in guerra con l’Islam)”, hanno accompagnato il duplice attacco terroristico che ha insanguinato la capitale francese e scioccato l’Europa. Ma, a ben vedere, se una metafora storica meglio si adatta a quei tre giorni che hanno sconvolto il mondo, il riferimento è a Waterloo. La Waterloo dei servizi d’intelligence francesi e dei (cosiddetti) analisti dell’Islam radicale armato. I primi, hanno sottovaluto la pericolosità dei fratelli Kouchi, gli stragisti di Charlie Hebdo, i secondi avevano dato per finita, scomparsa, o comunque ridimensionata la nebulosa qaedista, concentrando tutte le attenzioni sullo Stato Islamico del “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi.

Niente di più errato. Perché quella che si è avviata con gli attacchi di Parigi è anche, e per certi versi soprattutto, una guerra nella guerra. Combattuta sul campo come su youtube, facebook, twitter: è la guerra per la leadership dell’Islam radicale armato, per la conquista della Umma (la comunità islamica). Una competizione condotta a colpi di attentati, videodecapitazioni, rapimenti, conquiste di territori in quelli che sempre più appaiono come “non Stati” (Yemen, Siria, Iraq, Libia, Somalia).

Una guerra che si proietta anche in Europa e incrocia la strage al Charlie Hebdo. E inchioda la Francia a un’amara, inquietante verità: sono 1.400 i cittadini francesi o residenti in Francia impegnati in Medio Oriente o in procinto di andarci. «Un grosso aumento in un tempo molto breve», spiega il primo ministro Manuel Valls. «Nella metà del 2012, quando ero ministro dell’Interno, erano solo una trentina di casi». Millequattrocento potenziali Said e Chérif Kouachi, e Amed Coulibaly.

L’incubo del proliferare del terrorista della porta accanto si è fatto realtà. Quella a cui abbiamo assistito è stata una corsa alla rivendicazione dell’attacco che ha visto impegnati i “fratelli-coltelli” della jihad globale. A chiunque si parasse sulla loro strada, i fratelli Said e Cherif Kouachi, gli autori del massacro al Charlie Hebdo, hanno ripetuto come un mantra, prima di essere fatti fuori dalle teste di cuoio francesi: «Siamo mujaheddin di al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap, ndr)», la branca ufficiale di al Qaeda che opera in Yemen e Arabia Saudita. E un’altra traccia porta nel “non Stato” yemenita, dove al Qaeda ha i suoi campi di addestramento più frequentati, ai quali si aggiungono quelli installati a Kirkuk (Iraq) e a Dayr az Zour (Siria): Said Kouachi, era stato addestrato in Yemen da al Qaeda nel 2011.

Stando a fonti governative yemenite, l’addestramento di Said è avvenuto nel periodo in cui molti giovani musulmani in Occidente si inspiravano ad Anwar al-Awlaki, un imam nato negli Stati Uniti e ucciso da un drone Usa nel 2011 nella penisola araba. E tra i giovani islamisti che incontrarono in Yemen al-Awlaki, c’era anche Said Kouachi. D’altro canto, diverse indagini in passato hanno accertato la presenza di elementi francesi nel Paese della penisola arabica, un’area dove al Qaeda rappresenta una forza consistente. Ed è anche certo che questa fazione ha più volte tentato di colpire usando militanti occidentali, molto di loro ispirati proprio dall’imam yemenita-americano Anwar al-Awlaki.

Altro indizio significativo: Inspire, la rivista online di Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), ha più volte fatto appello ai combattenti di Allah perché colpissero il settimanale francese per la vicenda dei disegni blasfemi. In questa guerra nella guerra, c’è anche da sottolineare che lo scorso novembre i jihadisti dell’Isis hanno lanciato uno specifico appello proprio a colpire la Francia, colpevole, agli occhi degli epigoni di Osama bin Laden di portare avanti una politica interventista, con l’obiettivo di voler “ricolonizzare” terre islamiche imponendo i propri valori. Una cosa è certa: al Qaeda ha riconquistato il centro della scena mondiale.

Offuscando il suo competitore nella guerra per la leadership dell’Islam radicale armato: il Califfo dello Stato Islamico (Is): Abu Bakr al-Baghdadi. Il campo di battaglia di questo scontro è il mondo. In particolare, l’Occidente. E in esso, l’Europa multietnica, dove è sempre più crescente la presenza dei musulmani, di seconda e terza generazione. Al Qaeda e l’Isis pescano nello stesso “mare”, e per tirare la rete dalla loro parte, devono alzare il livello dello scontro, spettacolarizzarlo: da qui le video decapitazioni, da qui l’attacco alla città dei Lumi e a un settimanale diventato il simbolo di una libertà di espressione che i “guerrieri di Allah” concepiscono come una minaccia mortale, non alla memoria del Profeta, ma alla loro idea di società, fondata sulla ferrea dittatura della sharia.

Ma una cosa lega i “fratelli- competitori”. Un’Europa islamofobica è quella che vorrebbero i tanti “califfi” che agiscono nel Grande Medio Oriente, molti dei quali prodotti dello stesso Occidente, non solo per scellerate avventure militari come le due guerre irachene, ma anche per l’applicazione   sul campo del vecchio assunto secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Così è stato per Saddam Hussein, armato dall’Occidente, anche con i gas con i quali ha massacrato i curdi, quando il “macellaio di Baghdad” era visto come un argine alla penetrazione khomeinista in Medio Oriente. E così è stato per Osama bin Laden e i suoi protettori Talebani, quando servirono per combattere l’esercito sovietico in Afghanistan. In questi giorni di rabbia e di dolore è imperativo ragionare. Ragionare e non cavalcare l’insicurezza e la paura che può impadronirsi di ognuno di noi.

Ragionare significa, ad esempio, fare i conti con gli errori commessi dall’Occidente, Usa ed Europa in primis, agli albori della guerra in Siria, quando quella rivolta popolare s’inquadrava ancora in quell’evento epocale che è stata, e che rimane, la “Primavera araba”. “La nuova generazione – rimarcava allora Olivier Roy, tra i più autorevoli studiosi francesi dell’Islam radicale – non è interessata all’ideologia: scandisce slogan pragmatici e concreti (“erbal”, via subito) ed evita richiami all’Islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni Ottanta. Rifiuta la dittatura e chiede a gran voce la “democrazia”.

Erano i ragazzi della “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia, erano i ragazzi di Piazza Tahrir in Egitto. Erano i loro coetanei siriani che scendevano nelle strade per invocare libertà e democrazia, ricevendo in cambio fucilate e cannonate da parte dell’esercito di Bashar al-Assad. La crescita del fondamentalismo, e delle sue componenti più estreme, è venuta “contro” e non “grazie” quelle rivolte. L’inverno jihadista non è la naturale successione alla Primavera araba. I leader occidentali l’hanno capito troppo tardi, se davvero l’hanno capito. La rottura del 2011 è nell’emergere di istanze di libertà che raccontano di un Islam plurale, in cui è possibile provare a coniugare modernità e tradizione.

L’agenda delle rivoluzioni post islamiste, i suoi attori principali, non avevano nulla a che vedere con il paradigma politico integralista. Volevano “globalizzare” i diritti, non la jihad. Sono stati abbandonati dall’Occidente, e attaccati dall’Islam radicale armato. Ma quei giovani – milioni di giovani – non sono svaniti nel nulla, tanto meno hanno ingrossato le fila dell’Esercito islamico o rafforzato i mille tentacoli della “piovra” qaedista. Sono loro l’investimento sul futuro.

Sono le organizzazioni della società civile che vivono in tanti Paesi arabi e musulmani, e che combattono, con le “armi” della non violenza, regimi teocratici e feroci tagliagole i cui capi – dal Califfato islamico di Siria e Iraq, alla martoriata, e colpevolmente dimenticata, Nigeria dei criminali di Boko Haram – chiedono loro di scegliere tra “fede e democrazia”, e non si fanno scrupolo di usare per le loro carneficine, inconsapevoli bambine-kamikaze. In questi anni – nel disinteresse dei Grandi della Terra – i miliziani qaedisti e dell’Is hanno rivolto le loro armi contro quelli che venivano considerati i nemici interni: donne e uomini musulmani, “colpevoli” di contrastare, anche solo non accettando i diktat della sharia, le indicazioni dei “guerrieri di Allah”.

Alzare i Muri è il regalo più grande che si potrebbe fare agli ispiratori, prima ancora che alla manovalanza, della jihad globalizzata. Costoro hanno paura dell’integrazione, temono la pace in Palestina, vivono e prosperano solo in una situazione di guerra permanente. La “normalità” li disorienta, li spiazza di questo Islam che non si arrende alle teocrazia, fanno parte le ragazze e i ragazzi dell’Onda Verde iraniana, così come le donne che combattono il regime oscurantista saudita rivendicando e praticando il diritto a guidare la macchina.

«Oggi salirò a bordo dell’aereo che mi riporterà a casa, in Pakistan, portando con me il manoscritto di un libro che sto scrivendo e che sarà pubblicato a breve. Si tratta di un saggio sulla riconciliazione dei valori dell’Islam e dell’Occidente, di una accalorata esortazione affinché l’Islam moderato e moderno emargini gli estremisti religiosi, riporti i militari dalla politica nelle loro caserme, tratti tutti i cittadini e specialmente le donne con parità e pienezza di diritti, scelga i propri leader con elezioni libere e irreprensibili, e garantisca un governo trasparente e democratico la cui priorità sia soddisfare le esigenze sociali ed economiche della popolazione». A parlare è Benazir Bhutto, in uno scritto del 18 ottobre 2007. «Mentre salgo su un aereo diretto in Pakistan, sono pienamente consapevole che i sostenitori dei taliban e di al Qaeda hanno pubblicamente minacciato di uccidermi – aggiungeva – il leader dei taliban Baitullah Mehsud ha dichiarato che i suoi terroristi mi daranno “il loro benvenuto” in occasione del mio ritorno, e non è certo necessario che io spieghi che cosa implicano queste parole.

Comprendo anche gli uomini di al Qaeda, che in passato hanno già cercato di assassinarmi due volte: il Partito popolare del Pakistan (Ppp) e io rappresentiamo tutto ciò che loro temono maggiormente, moderazione, democrazia, eguaglianza e parità tra uomini e donne, informazione e tecnologia. Noi rappresentiamo il futuro del Pakistan moderno, un futuro nel quale non c’è posto per l’ignoranza, l’intolleranza e il terrorismo». Il 21 dicembre dello stesso anno, il 2007, Benazir Bhutto viene uccisa in un attentato a Rawalpindi. Benazir Bhutto era una donna coraggiosa. Una donna islamica. Per questo era una duplice minaccia per gli integralisti. Molto più di quanti, al sicuro nelle loro case, predicano ora la guerra all’Islam.

Il pericoloso Tsipras visto da Berlino

Da quando Alexis Tsipras ha guadagnato punti nei sondaggi, l’Europa dei conservatori ha tuonato e i grandi guru della Politica hanno vaticinato che una sua vittoria potrebbe rappresentare un pericolo per l’Europa intera.

La preoccupazione più forte è stata espressa dalla Germania guidata da Angela Merkel dopo che il quotidiano tedesco Der Spiegel aveva per primo ipotizzato l’uscita della Grecia dall’euro (Grexit) come soluzione praticabile, non più un tabù. Le tesi a sostegno di questa ipotesi sono cresciute di giorno in giorno fino a quando, a seguito delle forti pressioni interne (Spd) e da parte di altri leader europei (Holland), la Merkel è tornata cauta su quest’ipotesi, malgrado la stampa continui a martellare su questo aspetto sostenendo che il rischio per la Germania di un’uscita dall’euro della Grecia sarebbe comunque «limitato» .

La “Thessaloniki-agenda”, come viene definita sui quotidiani tedeschi, prevede la ridiscussione del debito e della tassazione, un aumento del salario minimo, la creazione di 300mila nuovi posti di lavoro nel pubblico e privato, la distribuzione gratuita di medicinali a tutti i greci, distribuzione di beni alimentari per 300mila famiglie povere e un credito speciale per le famiglie con un alto debito.

Samaras in Grecia parla di un piano folle che condurrà al disastro e proprio questo scuote la destra teutonica e preoccupa Jean-Claude Junker. Così, con un linguaggio apocalittico molti commentatori e giornalisti si dicono preoccupati poiché Tsipras è un «estremista». La Germania dei conservatori si sente minacciata dai propositi di Tsipras ma è anche vero che i tedeschi stessi dimostrano ormai un certo grado d’insofferenza.

Quello che emerge dalla lettura dei commenti e delle analisi politiche è che i tedeschi chiuderanno i rubinetti. L’intervento a gamba tesa di Angela Merkel, sostenuto dal suo ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, può però essere letto in tanti modi, ma sono due i punti centrali:

  1. il bisogno della Cancelliera di far valere gli accordi presi in sede europea dalla Grecia con i precedenti governi, e dunque mantenere il ruolo di leader nell’Ue, continuando nella sua opera di “germanizzazione” dell’Europa, o egemonizzazione come denunciato dal sociologo tedesco Ulrich Beck e dallo storico inglese Brendan Simms;
  2. la necessità di riconquistare una fetta di elettorato perso negli ultimi tempi e ceduto al movimento della destra euroscettica di Lucke, l’Afd (Alternativ für Deutschland). I socialdemocratici dal canto loro non si espongono su Alexis Tsipras.

Il Pasok è dato al 3,5%: un fallimento totale. Certo è che l’ipotesi iniziale di un’uscita dall’euro della Grecia non è affatto piaciuta all’Spd. Così il vice cancelliere, Sigmar Gabriel (Spd) ha avvertito la Cdu: «L’obiettivo di tutto il governo federale, dell’Unione europea e del governo di Atene per sé è quello di mantenere la Grecia nella zona euro. Non c’era e non c’è alcun altra ipotesi». Ma non ha fatto mancare il suo monito ad Atene, a Syriza e Tsipras: «Wir sind nicht mehr erpressbar» ossia «non siamo più ricattabili».

Un altro esponente di spicco del partito socialdemocratico tedesco, il vice presidente Carsten Schneider, invita i partner di Governo Cdu e Csu, dalle colonne di Die Welt, a rispettare l’esito delle urne in Grecia qualunque sia il risultato.

Di fatto nemmeno i socialdemocratici gioiscono all’idea della vittoria di Tsipras, tuttavia non cedono al sentimento euroscettico e rigettano in modo forte l’idea di un’uscita dall’Euro della Grecia. Schneider si dice preoccupato per un simile scenario in cui secondo i suoi calcoli la Germania potrebbe perdere 60 miliardi.

La partita è dunque tutta interna alla Germania: Angela Merkel cerca di recuperare il consenso ceduto all’ala di estrema destra ed euroscettica rappresentata dall’Afd, con crescenti problemi interni di xenofobia e razzismo (come il movimento Pegida), mentre i socialdemocratici, partner di governo della Cancelliera, cercano di marcare la differenza senza però dare un appoggio diretto a Tsipras né alla sua Agenda. Ma lo invitano a «rispettare i patti».

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L’eroe di Clint Eastwood è un cecchino

Uscito nelle sale italiane il primo gennaio, il film di Clint Eastwood, America Sniper, è stato preceduto da polemiche su presunti finanziamenti da parte repubblicana e convinti elogi da parte di molta stampa americana.

Locandina American Sniper, leftE’ la storia di Chris Kyle, soldato dei corpi speciali Navy Seals, divenuto “Leggenda” per la mira straordinaria e la precisione impeccabile, grazie alla quale ha freddato 160 persone: questo il numero ufficiale, che in realtà potrebbe essere più elevato. Il biopic (a cui di recente la cinematografia statunitense ricorre sempre più frequentemente) è ispirato all’autobiografia del “cecchino” più letale della storia americana – come recita la tagline che promuove il film – edita in Italia da Mondadori.

Il tema è introdotto nel lungo flashback che vede Kyle bambino, educato dal padre a sparare ai cervi, a cui il devoto genitore insegna che gli uomini (le donne non sono contemplate) si dividono in tre gruppi: le pecore, i lupi e i cani pastore, che proteggono gli altri: su quest’ultimi è opportuno cada la scelta. Quando si parla di eroe della vicenda, si pensa in termini drammaturgici a colui che conduce la narrazione e muove gli eventi, ma, in questo caso, si tratta in senso letterale di un eroe americano, cresciuto nel segno della triplice alleanza “Dio, Patria e Famiglia”.

La vicenda è vista con lo sguardo di un regista conservatore, orgoglioso della sua appartenenza, narrata in modo semplice, se non proprio semplicistico, finanziata da un establishment, che preferisce eludere disinvoltamente le proprie responsabilità politiche ed economiche nei conflitti recenti, per privilegiare la retorica del combattente, che agisce per la salvezza dei commilitoni e il bene del suo Paese. E, in virtù di questa convinzione, all’inizio della carriera, colpisce, senza tremare, due bersagli mobili, un bambino e una donna, che portano una bomba rudimentale. Ma le tappe della formazione militare di questo giovane texano, devoto alla causa, il suo reclutamento, la sfiancante preparazione, la guerra, lo sbandamento del veterano, le difficoltà ad essere buon padre e ottimo marito, oltre che leale servitore dello Stato, non riescono a coinvolgere più di tanto. E non è la ripetitività dello schema a tenerci lontani dall’emozione, ma la mancanza di complessità e di umanità del tutto.

Eastwood, che in altri momenti ha analizzato con fine misura, virile compattezza e tocco romantico i miti della nazione americana, qui sdogana la guerra in Iraq con lo stesso facile manicheismo con cui la cinematografia statunitense degli esordi mostrava il conflitto tra cowboys e pellerossa. Al nemico, anche se vive nella sua terra e non è detto che persegua la morte, è negata ogni identità: è e resta un selvaggio, privo di spessore, parola, dolore e dignità.

In sintesi è il male, parola che in questi tristi giorni abbonda sulla bocca di molti sciocchi frequentatori del circo mediatico. Il bene, d’altro canto, nel film risulta essere la nazione americana, che si impegna a portare sull’altrui suolo la sua missione civilizzatrice e progressista e a vendicare le sue vittime. La sensazione è di trovarsi di fronte a un lavoro, in cui balena, coerentemente con la filmografia precedente, l’epica del dovere, della responsabilità individuale, dello spirito di abnegazione, ma rigidamente appiattita su posizioni conservatrici e certezze monolitiche, asfitticamente impotente di fronte alla diversità, di cui nemmeno si adombra un senso, tanto è forte la convinzione che coincida con un’ inferiorità atavica.

I silenzi storditi e le espressioni vagamente ottuse di Bradley Cooper, il corpulento attore protagonista, forse ci rivelano non tanto l’umanità dolente e l’intimità sofferta, intraviste da molta critica, quanto la sordità interiore e “l’assenza” mentale di chi ha aderito a un conflitto ambiguo, ingiusto, fatale per molti, così come l’esibizione di violenza e lo sfaldamento inevitabile che genera l’azione bellica restituiscono un po’ di verità alla grafica da videogame di certi passaggi combat movie e ad alcuni momenti di vita familiare esangui di affetti.

Left-Avvenimenti, la versione del nuovo editore Matteo Fago

Finora è emersa una versione parziale della vicenda Left-Avenimenti. Continuano a circolare sul web attacchi infondati contro Matteo Fago e la società editrice EditorialeNovanta. Dopo l’offertad’acquisto e la ripresa delle pubblicazioni a gennaio, il nuovo editore della testata fa chiarezza sulla vicenda.

“Ritengo sia utile una ricostruzione, perché i fatti sono stati raccontati in maniera parziale in modo da far credere che la realtà vera, il senso delle cose, sia diverso da quello che è. Se poi sono dei giornalisti a raccontare cose non vere penso sia, per loro, la peggiore delle credenziali. Non sono mai stato editore di Left prima del gennaio 2015. In alcune note sulla vicenda, diffuse dalla cooperativa di giornalisti che fino a dicembre 2014 pubblicava la testata, viene detto che io sarei stato l’editore o co-editore di Left e che, di punto in bianco, avrei deciso di lasciare a piedi la redazione.

La verità è che da marzo a dicembre 2014 Left è stato pubblicato dalla cooperativa Left avvenimenti scpl formata da giornalisti e poligrafici e che aveva in uso la testata di proprietà della Editrice dell’altritalia. L’assemblea della Left avvenimenti scpl ha scelto e votato Giovanni Maria Bellu come direttore responsabile nel marzo 2014 in completa autonomia. Era quindi la cooperativa, l’editore di Left. Io non sono mai stato socio della cooperativa e non sono mai intervenuto sulla linea editoriale, sempre decisa in piena autonomia dal direttore responsabile e dalla redazione. È anche da rilevare che la redazione, al contrario di quanto ora si sostiene, non mi ha mai considerato l’editore, tanto è vero che, il 15 dicembre 2014, ha votato la conferma del direttore Bellu per l’anno successivo con una maggioranza schiacciante (un solo voto contrario) senza ritenere necessario informarmi. La redazione è stata libera di fare le sue scelte in completa autonomia. Ritengo di avere anch’io il diritto di fare le mie scelte e quindi di aver deciso di non entrare in cooperativa.

Non è vero che avrei licenziato 8 giornalisti.

I giornalisti e poligrafici nonché soci della cooperativa Left avvenimenti scpl sono stati assunti con condizioni stabilite da loro stessi a marzo del 2014. Probabilmente, i costi delle retribuzioni che i soci della cooperativa si sono attribuiti, erano troppo alti, tant’è vero che, come abbiamo verificato in due diligence, gli stipendi sono stati pagati a singhiozzo fin dall’inizio della vita della cooperativa. Alla fine di dicembre, l’amministratore della cooperativa ha comunicato al liquidatore della cooperativa Editrice dell’altritalia, da cui aveva in “comodato d’uso” la testata, di non poter continuare con le pubblicazioni perché non c’erano più risorse finanziarie sufficienti. Inoltre, a causa dei troppi debiti accumulati (per quasi la metà retribuzioni non pagate ai soci-dipendenti nel corso dell’anno) e del patrimonio inesistente, non era possibile chiudere il bilancio 2014 a meno di una ricapitalizzazione da parte degli stessi soci della cooperativa. In assenza della ricapitalizzazione non c’era alternativa se non la chiusura delle pubblicazioni. I licenziamenti, se ci sono stati, sono stati disposti dalla cooperativa e non dal sottoscritto.

Accusarmi per non essere intervenuto a pagare i debiti fatti da altri e attribuirmi la responsabilità della chiusura e dei licenziamenti è quindi del tutto infondato.

Nel settembre del 2014 mi sono reso disponibile a fare da garante per i pagamenti della tipografia per evitare che Left interrompesse le pubblicazioni. In quei tre mesi abbiamo esaminato attentamente i conti della cooperativa per capire se fosse possibile un risanamento. Purtroppo le vendite che andavano sempre calando, i costi rimasti troppo alti e i debiti accumulati nel passato rendevano il risanamento non praticabile. Anche per questo motivo ho comunicato la mia decisione di non diventare socio della cooperativa. L’assurdità è che se non avessi fatto niente, il settimanale sarebbe fuori dalle edicole da 3 mesi e ora nessuno mi accuserebbe di nulla. Anzi, ora sarei per tutti il salvatore di Left.

Non è vero che – come invece è stato dichiarato in questi giorni dagli ex-editori della cooperativa Left Avvenimenti Scpl – il nuovo Left non avrà una redazione e vuole fare il giornale solo con collaboratori. Anzi è vero il contrario: EditorialeNovanta, la società che pubblica Left dal 17 gennaio scorso, sta assumendo personale giornalistico e poligrafico.

Da ultimo mi preme sottolineare che il nuovo Left non fruirà dei contributi pubblici all’editoria. Left vivrà delle vendite che riuscirà a fare senza nessun aiuto pubblico, al contrario di quanto avveniva per la cooperativa. Resto fortemente convinto che sia possibile fare informazione a sinistra in modo nuovo. È quello ho tentato di fare con l’Unità ed è quello che voglio fare con Left. Un’informazione che serva alla costruzione di una sinistra nuova, onesta, intelligente, indipendente, laica”.

Internet e serie tv, rivoluzione in corso

«C’est une Révolte?». «Non, Sire, c’est une révolution». Per l’universo delle serie tv la rivoluzione è iniziata 10 anni fa. Era il 2005 e youtube e megavideo facevano la loro comparsa sul web. Di lì a qualche anno, lo streaming online sarebbe diventato il mezzo principale per seguire i nostri telefilm preferiti, abbattendo colossi come Blockbuster e costringendo i grandi produttori di contenuti video ad adeguarsi alle nuove richieste del pubblico con servizi online on demand. Soprattutto avrebbe trasformato progressivamente i telefilm da prodotti minori, sicuramente meno nobili del cinema, in veri e propri cult. Con attori e premi Oscar entusiasti di passare dal grande al piccolo schermo e, addirittura, una sezione dedicata ai Golden Globe.

Questo a dimostrazione che ormai serie tv e cinema hanno pari dignità, e ancor di più che, se le produzioni televisive prendono in prestito dal jet set hollywoodiano attori e registi, anche nella città sacra del cinema si sta imparando molto dal serial. Non è un caso che proprio ai Golden Globe, solo una settimana fa, il premio Oscar Kevin Spacey abbia vinto la statuetta come miglior attore in una serie drammatica per la sua interpretazione in House of Cards – sicuramente uno dei telefilm di maggior successo dell’anno e, con i tempi che corrono, quasi un “manuale di istruzioni” per alcuni politici.

Come non è un caso che a scrivere e dirigere l’ultimo episodio del colossal spaziale Star Wars sia stato chiamato J.J. Abrams, genio indiscusso della narrazione a episodi e sceneggiatore di Lost e del fortunatissimo Fringe. O che andando al cinema a vedere The imitation game ci troviamo di fronte, un po’ straniti, allo Sherlock dell’omonima serie tv.

La verità è che nel mondo del piccolo schermo tutto è cambiato con l’avvento del “secondo schermo”: quello del pc, dei tablet o degli smartphone con cui twittiamo live i telefilm in onda o seguiamo via streaming le peripezie dei nostri eroi. Internet ha cambiato le regole del gioco. Ci ha portati verso una tv globale, dove i pubblici sono più influenti ed esigenti, dove l’offerta è pressoché infinita.

Nessuna epoca ha mai prodotto e consumato tante storie quante la nostra. Serie e Serial sono una mania, stagione dopo stagione, scandiscono i tempi della nostra vita. Ci raccontano gli eccessi e i compromessi del potere con il machiavellico Frank Underwood di House of Cards; le rivoluzioni tecnologiche che ci hanno convinto che la parola chiave per il successo sia start up (Silicon Valley); spaccati di attualità politica, come The Honourable Woman sulla questione israelo-palestinese o The Newsroom dove al centro della storia, per una volta, è raccontato il processo di costruzione di una notizia.

Insomma ci parlano di noi, ci aiutano immaginare altri universi possibili e ci raccontano di mondi lontani di cui altrimenti non avremmo saputo nulla. Pensateci bene, se non esistesse una serie come Silicon Valley come farei a spiegare a mia madre che cosa significa essere un nerd.

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La sinistra italiana vola ad Atene. A lezione da Syriza

Tutti insieme, a sciacquare i panni rossi sulle rive del Mar Egeo. Il 25 gennaio Alexis Tsipras e la sua Syriza si giocano le elezioni in Grecia, in un voto che potrebbe davvero “cambiare verso” all’Europa. In quei giorni gli esuli della sinistra italiana corrono ad Atene a fare il tifo per lui.

È un vero e proprio ritorno alla polis. Ci sono stati e ci saranno Stefano Fassina e Pippo Civati, per respirare un po’ di aria buona dopo mesi controvento tra gli spifferi del Nazareno. Ci sarà Nichi Vendola, con il quartier generale di Sinistra e libertà. Ci saranno, fisicamente o col pensiero, anche Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Curzio Maltese, Paolo Ferrero e tanti altri ancora tra politici, intellettuali e attivisti. La “cellula organizzativa” di questa sinistra italo-ellenica si chiama, ironicamente, “Brigata kalimera”. In greco significa “buon giorno”. In italiano si traduce con un auspicio per una nuova stagione politica.

Una primavera rossa che metta i primi fiori ad Atene per contagiare il continente. «Siamo già quasi 200 persone pronte a partire, un numero impressionante », spiega Raffaella Bolini, componente della presidenza nazionale dell’Arci, che ha passato le vacanze di Natale a coordinare biglietti aerei e camere d’albergo per la truppa che si imbarcherà dall’Italia. «Non solo parlamentari ed europarlamentari, soprattutto gente comune. E molti giovani. Andiamo a imparare come si fa la sinistra», sorride.

Già, come si fa? Pippo Civati è appena tornato da un viaggio proprio ad Atene, dove ha provato a studiare i segreti del successo di Syriza. Al ritorno, ha pubblicato una lunga riflessione sul suo blog: «Il movimento politico cresce solo all’aumentare della mobilitazione in campo sociale. Non è roba di Palazzo. Di Syriza mi ha colpito soprattutto il lavoro in campo sociale, parallelo e indipendente rispetto alla politica in senso stretto. Sarebbe provinciale disinteressarsene, fare finta di non vedere che sotdito il profilo politico europeo e anche nazionale ci sia bisogno di qualcosa che vada in quella direzione. La Grecia vive nella necessità di un esodo, di una transizione verso qualcosa di più umano e più sostenibile. Un percorso di riscatto che dovrebbe parlare anche a noi, perché ci riguarda. Molto direttamente». Civati ha di nuovo la valigia pronta: «Sarò ad Atene nei giorni del voto? Penso proprio di sì – sorride – anche se non vorrei portare sfortuna, in quanto gufo».

Con lui, anche Stefano Fassina. Da viceministro dell’Economia nel governo Letta ad ambasciatore della sinistra critica del Pd ad Atene. Nel suo primo viaggio ha provato a convincere gli interlocutori greci che le posizioni di Syriza sono «esportabili» nel partito di Renzi. Impresa titanica. Quasi quanto quella di una listarella della sinistra radicale ellenica che in pochi anni è passata dal 2 per centoal sogno di un trionfo nelle elezioni che terrorizzano mezza Europa.

Tutti sul carro di Alexis Tsipras, quindi. E su quello della Brigata Kalimera. Massimo Torelli è un altro degli organizzatori della spedizione e dell’appello “Cambia la Grecia, cambia l’Europa”. Il documento è stato firmato da oltre 1.300 persone, mentre Atene è diventata metà di un piccolo pellegrinaggio laico. «Parteciperemo alla chiusura della campagna elettorale giovedì 22 gennaio – spiega Torelli – mentre nei giorni successivi daremo una mano ai compagni di Syriza e ci faremo mostrare le esperienze di resistenza sul territorio, dalle mense popolari alle altre forme di welfare “alternativo” che la Troika non ha ancora estirpato. Domenica poi si tifa Tsipras». La convinzione è di assistere a una vittoria epocale: «C’è voglia di partecipare e di poter dire “io c’ero”. Sarà una specie di social forum europeo: le “brigate” arrivano da tanti Paesi diversi. Dopo Atene, sarà la volta della Spagna e di Podemos. È come una finale di Champions League – ride – sentiamo che è un appuntamento che può far girare la storia».

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Kaputt Mundi. Calapà racconta Mafia Capitale

È passato poco più di un mese dal giorno in cui Massimo Carminati è stato arrestato dai carabinieri del Ros. Di lì a poco, Roma svelava il cancro di una criminalità organizzata formata non da “balordi di quartiere” ma da pezzi della politica, della finanza, delle istituzioni e della società civile. Un vaso di Pandora che ha riversato sulla soleggiata Capitale una tempesta di vicende di una mafia senza santini, patti di sangue e baci sulle labbra, il cui core business è la cooperazione sociale.

Un anno «di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualchebufera di neve» è quello che si augura per il 2013 Salvatore Buzzi, fondatore della coop 29 giugno e figura chiave dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, nella quale è indagato anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno. A mettere ordine ai fatti, alle intercettazioni, alle relazioni dei giudici è Giampiero Calapà, giornalista del Fatto quotidiano: nell’instant book uscito in questi giorni Mafia Capitale, edito da La Nuova Frontiera, ricostruisce i tasselli di una «zona grigia», come la definisce l’ex procurator di Palermo Gian Carlo Caselli nella prefazione, «che si caratterizza per l’uso al massimo livello del pubblico in modo privato».

Perché un libro a pochi giorni dai fatti di cronaca riportati ampiamente sulla stampa?

Era necessario. Mafia Capitale non è un instant book che si brucia nello spazio di un mese: ha il valore di un documento straordinario perché racchiude il nucleo fondamentale di quella che è una nuova mafia. Mi sono confrontato con l’editore e ci siamo detti: «Che cosa si dovrebbe fare se fossimo in Sicilia a venti giorni dalla scoperta di Cosa nostra?». E abbiamo pensato di raccontare questa storia racchiudendola in un oggetto- libro che tenesse un filo unitario e permettesse al lettore, non solo romano, di capire quella che è stata la capitale d’Italia negli ultimi anni, una capitale schiacciata da un sistema di pax mafiosa.

A partire dal titolo, il libro insiste nel definire il fenomeno capitolino come “mafia”, quasi a frenare un tentativo di minimizzazione…

Sicuramente c’è stato. Il libro mostra come le modalità di azione criminale dei protagonisti di questa storia sono senza dubbio mafiose perché, come scrivono Caselli nell’introduzione al libro e il professore Enzo Ciconte nell’appendice, la mafia è il potere di intimidazione, corruzione, violenza e la capacità di condizionamento di un gruppo di persone in un territorio, a prescindere dai santini bruciati e dai riti di affiliazione, oggi saltati persino in Cosa nostra e riconoscibili solo nella ’ndrangheta calabrese. La piovra di Mafia Capitale ha teso i suoi tentacoli verso tutti i rami del potere economico e politico.

Nella relazione del gip il gruppo criminale è descritto come «il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera». Mafia Capitale può considerarsi un’eredità della Banda della Magliana?

Le basi dell’organizzazione di Mafia Capitale si sviluppano e diventano quello che sono da un retroterra culturale di radicalismo di destra, sicuramente non di sinistra, ma non può considerarsi un’eredità della Banda della Magliana: mafia capitale è qualcosa di molto più grande dell’organizzazione criminale sanguinaria e feroce che ha imperversato per le strade di Roma. Per altro, il ruolo di Carminati nella Banda della Magliana era quello di un esterno che prestava favori.

Attraverso la figura di Buzzi, però, gli affari sono arrivati a intaccare anche il centrosinistra…

Il cuore dell’organizzazione è nero ma un esame di coscienza politica, su tutto quello che non sono stati in grado di percepire, se lo devono fare tutti. Con Rutelli sindaco, dal 1993 al 2001, la 29 giugno si è aggiudicata 11 appalti, per oltre 500mila euro. Tra il 2001 e il 2008, con Veltroni, gli appalti sono arrivati a 65 per un totale di oltre tre milioni e mezzo di euro. Ma con Gianni Alemanno, a dirlo sono i giudici del riesame, mafia capitale prende il volo in quanto ad accumulo di potere: in cinque anni la cooperativa ottiene più di 100 appalti per oltre otto milioni di euro.

Il libro delinea una figura centrale negli equilibri illeciti, quella di Carminati, descritto come un “intoccabile” con un’inquietante capacità di penetrazione corruttiva…

Dalle carte emerge questo suo essere capo e padrone indiscusso delle attività criminali della città, riconosciuto anche da boss di caratura enorme come il camorrista Michele Senese. Carminati, dagli anni Ottanta a oggi, è stato condannato per rapine, mai per terrorismo nero, ed è uscito “pulito” anche dalle accuse sull’omicidio Pecorelli e sulla strage di Bologna. Questa volta è al 41 bis avvalorato anche dal riesame, l’impianto accusatorio è solido e, se dovessi fare una scommessa, direi che sarà difficile rivederlo fuori presto.

L’inchiesta “Mondo di mezzo” riuscirà a scardinare completamente il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici da parte di Mafia Capitale?

In parte ci è riuscita, sicuramente. Lo stesso Carminati, nel marzo 2012, era preoccupato dall’arrivo a Roma del nuovo procuratore capo Giuseppe Pignatone e in un’intercettazione dice: «Questo butterà all’aria Roma». La Procura ha dato un duro colpo alla struttura piramidale mafiosa e, anche se il percorso giudiziario di ognuno degli arrestati non si può prevedere, sarà molto difficile, anche con il migliore avvocato, riuscire a scardinare l’impianto d’accusa perché l’inchiesta è dettagliata, sono stati spesi anni di pedinamenti e intercettazioni ambientali.

Quali sono i tasselli che mancano?

Sono forse quelli del “mondo di sopra”. Non sappiamo se tutti i “ripuliti”, come li definisce Carminati, sono stati svelati. Certo è che non sono pochi i personaggi della vita politica e imprenditoriale di Roma già finiti sotto indagine o addirittura arrestati. Odevaine, ex vice capo di Gabinetto con Veltroni e poi scelto da Zingaretti alla guida della polizia provinciale, non è un personaggio di secondo piano della politica romana e non è trascurabile che Gianni Alemanno sia indagato con l’accusa di associazione mafiosa. Stiamo parlando di un ex sindaco di una grande capitale occidentale.

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Ebola non è invincibile

La guarigione di Fabrizio Pulvirenti lo conferma: Ebola può essere battuta. Il medico di Emergency, contagiato in Sierra Leone dal virus della famiglia dei Filoviridae, è guarito ed è stato dimesso a inizio gennaio dall’ospedale Spallanzani di Roma dove è stato curato. Quello del medico di Catania non è un caso né unico né raro, in Occidente.

A un anno dall’inizio dell’epidemia in Africa occidentale (febbraio 2014, in Guinea) le persone contagiate curate in Europa o in America sono state 24, così distribuite: 10 negli Stati Uniti, 3 in Germania e Spagna, 2 in Francia e Regno Unito, 1 in Norvegia, Olanda, Svizzera e, appunto, Italia. Le persone decedute a causa della febbre emorragica indotta dal virus di Ebola sono state 5.

Una mortalità alta (20,8 per cento), ma non paragonabile a quella, altissima, che si riscontra in Africa. Fino allo scorso 8 gennaio l’Organizzazione mondiale di sanità ha registrato 20.747 casi di infezione da Ebola, nel 99,8 per cento dei casi localizzati in tre soli Paesi: la Sierra Leone (9.780 casi); la Liberia (8.157 casi) e la Guinea (2.775 casi). Tra questi si sono verificati 8.235 decessi: una mortalità del 39,7 per cento. Ma, sostengono gli esperti dell’agenzia delle Nazioni Unite, si tratta di una mortalità sottostimata visto che quella reale si avvicina al 70 per cento. Anche perché la mortalità tra le persone contagiate che sono state curate in un ospedale tra Sierra Leone, Liberia e Guinea e di cui si è potuto documentare il decorso risulta del 60 per cento. D’altra parte tra gli 802 sanitari (medici o infermieri) contagiati, 488 sono morti: il 59,5 per cento, appunto. È molto probabile che nelle campagne e nei villaggi più remoti, dove non ci sono ospedali né cure e dove la malattia non è neppure diagnosticata, la mortalità sia superiore.

Nei primi mesi dell’epidemia – tra il mese di febbraio e il mese di agosto dello scorso anno – si sono verificati due atteggiamenti contraddittori ed entrambi pericolosi nell’opinione pubblica occidentale. Il primo è consistito nella sottovalutazione del fenomeno Ebola: è un fuoco epidemico – è stato detto – che presto si spegnerà e che, comunque, non travalicherà i confini dell’Africa. Il secondo è stato un atteggiamento di resa: il virus è imbattibile, non abbiamo una cura specifica, non abbiamo un vaccino e dunque non c’è nulla da fare se non tenersene lontani. Né l’uno né l’altro di questi atteggiamenti era fondato.

L’epidemia infatti non si è spenta, ma al contrario è esplosa, interessando sia altri tre paesi africani – Mali (8 casi), Nigeria (20 casi) e Senegal (1 caso) – sia altri due continenti, Europa (14 casi), America (10 casi). Anche se quasi tutti gli occidentali, come Fabrizio Pulvirenti, si sono contagiati in Africa e sono stati curati nei loro Paesi di origine. Ma, malgrado ciò, il virus si sta dimostrando meno invincibile del previsto. Ebola può essere fermato: l’epidemia sta rallentando la sua corsa.

Da Ebola si può guarire e, infatti, 8 su 10 delle persone curate in Occidente ce l’hanno fatta o stanno per farcela. Prendiamo il caso di Fabrizio Pulvirenti, curato con successo presso l’ospedale Spallanzani di Roma. Ce l’ha fatta anche in assenza di un farmaco specifico in grado di contrastare il virus di Ebola, grazie a terapie di supporto, a sieri e a quattro farmaci sperimentali le cui caratteristiche, come prevedono le linee guida dell’Oms, verranno rese noteentro la fine di gennaio.

Non sappiamo ancora quale peso relativo abbiano avuto i fermaci sperimentali. Ma tanto i medici clinici quanto i ricercatori sostengono che un aiuto formidabile, talvolta decisivo, viene fornito anche da terapie di supporto, come l’idratazione, che sono banali in un ospedale occidentale (anche condizioni di isolamento assoluto, come erano quelle di Pulvirenti); molto difficili da assicurare negli ospedali e nei centri di assistenza in Africa; praticamente assenti nei villaggi dove non c’è assistenza alcuna. È anche sulla base di questa consapevolezza che l’Oms sta organizzando in Sierra Leone, in Liberia e in Guinea una rete di centri di assistenza – la più diffusa e capillare possibile – che presidi non solo le città e i quartieri più poveri, ma anche i villaggi più remoti. Una rete, peraltro, integrata dai centri delle organizzazioni non governative, come Medici senza frontiere ed Emergency.

Anche dal fronte della ricerca giungono notizie positive. Lo scorso 23 dicembre, per esempio, Julie E Ledgerwood, del Vaccine research center di Bethesda (Stati Uniti), e un folto gruppo di suoi collaboratori hanno pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet i risultati di uno studio condotto su un gruppo di volontari con cui si dimostra che due vaccini – uno contro il virus di Ebola e l’altro contro il virus Marburg (un altro pericoloso membro della famiglia dei Filoviridae), contrariamente a quanto si pensava sono sicuri anche per le popolazioni africane.

La prospettiva che questi o altri vaccini in fase sperimentale o, anche, nuovi farmaci come quelli utilizzati per la cura di Fabrizio Pulvirenti, o anche il cosiddetto “plasma di convalescenza”, ovvero il sangue dei pazienti ammalati e guariti e, si presume, dotati degli anticorpi giusti, possano dimostrare di essere non solo sicuri, ma anche efficaci, dunque non è affatto remota. Ma qui sorgono le prime e più importanti difficoltà: mancano i medici, mancano gli infermieri, mancano le strutture, mancano i soldi. Non sarà facile creare una rete sufficiente di centri di assistenza e dotarla di tutti i mezzi necessari per debellare completamente l’epidemia se non ci sarà una nuova e più decisa mobilitazione delle autorità sanitarie, dei governi e dell’opinione pubblica internazionale.

Ma, dicevamo, l’epidemia sta rallentando comunque la sua corsa. Smentendo le previsioni più pessimistiche. Sulla base dei dati relativi ai mesi compresi tra luglio e settembre scorsi, i Cdc (Centers for deseases control and prevention) calcolavano che alla fine di gennaio 2015 nei tre Paesi del focolaio epidemico ci sarebbero stati oltre 45mila casi di contagio. A tutt’oggi, come abbiamo detto, l’Oms ne conta circa 21mila: meno della metà. E le notizie più aggiornate ci dicono che, con 250 nuovi casi a settimana, i contagi in Sierra Leone non sono più in aumento, ma si sono stabilizzati. Stabili risultano i nuovi contagi anche in Liberia. Mentre in Guinea, dove la corsa sembrava continuare, gli ultimi rilevamenti dimostrano che i nuovi casi sono diminuiti del 90 per cento, passando da 400 a 40. Non si conoscono i motivi di questo rallentamento.

Ma è evidente che un fattore importante, se non decisivo, è rappresentato dal sistema di contrasto che, in un modo o nell’altro, si è riusciti comunque ad approntare, grazie anche alla dedizione (che qualcuno non a torto definisce eroismo) dei medici e degli infermieri, locali e stranieri, che con notevole sprezzo del pericolo non sono scappati, ma hanno pensato e dimostrato che Ebola è un nemico pericolosissimo, ma non è imbattibile. In 500 hanno perso la vita. Ma, evidentemente, sono riusciti almeno a frenare l’epidemia.

Fabrizio Pulvirenti ha dichiarato di voler tornare in Sierra Leone. Non è l’unico tra i sanitari ammalati e guariti che ritornano al fronte. Sul sito dell’Oms c’è la storia di Rebecca Johnson, un’infermiera della Sierra Leone impegnata nella cura dei malati di Ebola presso la Police training school (Pts) Hastings I, che, dopo essere stata contagiata, è guarita ed è voluta ritornare al suo lavoro. Fabrizio e Rebecca sono una risorsa preziosa, con il loro coraggio contribuiscono a serrare le fila dei sanitari impegnati sul pericoloso fronte. Ma, forse, il loro eroismo non è sufficiente.

Oltre alle scelte di singoli o di singole organizzazioni, per battere definitivamente Ebola occorre un ulteriore e decisivo sforzo. Che non può che essere in primo luogo pubblico. Occorrono nuovi fondi e una sistema di intervento, non solo per contrastare l’epidemia, ma per ricostruire l’economia e il tessuto sociale dei paesi colpiti. A metà dicembre risultavano stanziati contro Ebola 1,4 miliardi di euro (460 milioni dagli Stati Uniti, 170 dal Regno Unito, 120 dalla Germania, 82 dalla Banca Mondiale, 460 da altri Paesi, 78 da gruppi privati). L’Unione europea si è impegnata a destinare un miliardo di euro contro Ebola. Questi fondi, probabilmente, sono ancora pochi. Ma quel che più conta è che lo sforzo non è coordinato. Ciascuno interviene per proprio conto. Mentre occorrerebbe un unico e autorevole centro di coordinamento. Questo centro già esiste: è un’agenzia delle Nazioni unite, l’Organizzazione mondiale di sanità. Il guaio è che a questa agenzia i governi destinano sempre meno fondi. Non capiscono che non è possibile battere Ebola e sventare tante altre minacce alla salute umana andando, come gli ingenui e superbi Curiazi, a combattere il terribile nemico ciascuno per conto suo.

Senza laicità non c’è umanità

Il sette gennaio è stato pubblicato Sottomissione, il libro in cui Michel Houellebecq immagina la democratica conquista musulmana del potere in Francia. Un testo di denuncia del declino dei valori della République e dell’arrendevolezza degli intellettuali, che darebbero via libera alla vittoria dell’islam nello “scontro di civiltà” prefigurato da Samuel Huntington.

Sempre il sette gennaio (coincidenza?) un commando jihadista ha assaltato la redazione del Charlie Hebdo massacrando dodici persone, tra le quali alcuni notissimi vignettisti. Un’azione di guerra concepita proprio nell’ottica dello scontro di civiltà. Perché gli estremisti islamici vedono come una civiltà aliena un giornale, dichiaratamente ateo e laico, che si permette di criticare impunemente ogni religione.

Gli identitaristi in servizio permanente ne hanno ovviamente approfittato per sfoggiare la retorica dei supposti valori cristiani della nostra civiltà. E dire che Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono letteralmente agli antipodi del Charlie Hebdo. I loro valori crescono invece sullo stesso humus che ha generato Anders Breivik, che nel 2011 fece strage di 69 giovani socialisti norvegesi.

Ha però sbagliato François Hollande a sostenere che gli attentatori non hanno nulla a che fare con l’Islam. E, con lui, tutti coloro che sostengono lo stesso concetto. La realtà è complessa ma non è nemmeno così complessa da essere sempre costretti a ricorrere a semplificazioni, a luoghi comuni, talvolta al falso conclamato, solo perché si dà un giudizio aprioristicamente favorevole alla religione. È anch’essa retorica, politically correct. Cos’erano, secondo costoro, i fratelli Kouachi, che hanno urlato di aver vendicato la memoria di Maometto: atei? Desiderare ardentemente il martirio è un fenomeno religioso o agnostico? Un gruppo terrorista che si chiama “Stato islamico” si ispira inevitabilmente all’Islam, anche se non rappresenta certo tutto l’islam.

La maggior parte dei musulmani europei è pacifica, ma i musulmani europei che uccidono civili in nome della propria fede non lo sono affatto. Perché i testi sacri sono come i supermercati, ci si trova di tutto: parole che inneggiano alla pace come parole che inneggiano alla guerra. E i fedeli che li leggono e li interpretano possono a loro volta essere pacifici o estremisti, a seconda del contesto o dell’epoca storica in cui vivono.

Le Brigate Rosse erano terroristi di sinistra che cominciarono a perdere nel momento in cui la sinistra cominciò a riconoscerlo. Gli attentatori di Parigi erano imbevuti di Islam, e i movimenti a cui facevano riferimento non saranno sconfitti finché non lo si dirà apertamente. Prendiamone onestamente atto, e cerchiamo di agire sempre senza ipocrisia. Sempre.

Tra la carneficina al Charlie Hebdo e la partecipazione alla grande e bellissima manifestazione di Parigi, Matteo Renzi ha per esempio trovato il tempo di recarsi negli Emirati Arabi in visita di Stato. Uno dei tredici Paesi in cui l’ateismo è punibile con la morte: negli Emirati i redattori del Charlie Hebdo avrebbero potuto essere legalmente uccisi anche senza aver pubblicato una sola vignetta. In Arabia Saudita, altro nostro “alleato”, la legge equipara esplicitamente l’ateismo al terrorismo.

Non sconfiggeremo i jihadisti facendo business con Paesi che nutrono le loro stesse convinzioni. Una parte del mondo scherza purtroppo con il fuoco credendo e giocando allo scontro di civiltà. La chiave per impedire che divampi realmente è capire che i valori coltivati dai vignettisti del Charlie Hebdo sono universali.

Senza laicità, senza libertà di espressione, la civiltà umana non può in alcun modo progredire, e dobbiamo quindi fare di tutto per irrobustirle. Al di fuori di esse c’è soprattutto inciviltà: quella di chi ha voluto spezzare le matite di Charb e Wolinski e quella di chi vorrebbe spezzare le reni agli “sporchi musulmani”. I fatti di Parigi sono lì a ricordarcelo. Impietosamente. Ma da essi si può ripartire per aprire una nuova era di diritti.

*segretario nazionale Uaar

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