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In Grecia al voto una generazione tra speranza e disillusione

Oggi ad Atene i seggi saranno aperti fino alle 19. Per strada, gli umori sono contrastanti: intorno ad alcuni partiti organizzati c’è grandissimo entusiasmo, un sentimento che scema lentamente allontanandosi da queste realtà e confondendosi nelle strade della capitale.

In realtà, l’affluenza al voto rischia di essere deludente. Sono molti quelli che non hanno più fiducia nei rappresentanti politici, oppure ritengono la Grecia troppo debole internazionalmente per risultare significativa a livello europeo. I dubbi sono legittimi. Specialmente in un paese in cui il tasso di mortalità infantile è aumentato del 42,8% negli ultimi otto anni, e la disoccupazione giovanile supera il 50%. A differenza del Bel Paese, qui la crisi per un ragazzo del ceto medio ha significato lavorare  magari 12 ore al giorno per pagare l’assistenza sanitaria a un genitore disoccupato, o ritrovarsi di punto in bianco senza più corrente elettrica dentro casa. Per questo oggi molti ragazzi non andranno a votare.

I riflettori di tutto il mondo sono puntati su Syriza, primo partito nei sondaggi e forza popolare tra le nuove generazioni. Molti ragazzi greci sono stati conquistati dal progetto della sinistra radicale di Syriza, ma non tutti.

VIKI

Elezioni Grecia Viki, left

 

Viki ha 22 anni, studentessa di giurisprudenza. Si è avvicinata alla politica in seguito all’omicidio di Alexis, un ragazzo di 15 anni assassinato dalla polizia greca nel 2008. Un’esperienza traumatica per tutta la Grecia, ma in particolare per i giovani adolescenti del paese: “Abbiamo sentito l’urgenza di scendere in piazza, per gridare allo Stato che i nemici non eravamo noi”. Su questo percorso, Viki si è avvicinata alla politica prima, e a Syriza poi.

La giovanile della sinistra radicale è organizzata per gruppi di lavoro: Viki partecipa a “International Issues” e “Social Change and Support”. Tramite le attività nei gruppi di lavoro e nella giovanile generale, i ragazzi scelgono poi degli esponenti che possano rappresentare Syriza nei movimenti sociali e di lotta.

In questo modo, ci spiega, riusciamo a conciliare l’attività di partito e l’anima movimentista intrinseca nella fasce d’età più giovani della società greca. “C’è stata una grande vittoria nella mia vita politica: nel 2010 300 rifugiati siriani hanno protestato per 47 giorni contro lo sfruttamento lavorativo in Grecia che non gli permetteva di regolarizzare la loro situazione da otto anni. Noi gli siamo stati vicini: e vincere quella battaglia è stata la gioia più grande della mia attività”.

Assolutamente a sorpresa secondo i parametri di analisi italiani, Viki si affretta a specificare: “attenzione, noi non ci dichiariamo Comunisti solo per prendere voti. Quando affermo di essere comunista, lo dico con sincerità. Però il nostro è un comunismo capace di adattarsi alla realtà odierna, e che parte da un punto fisso: l’anticapitalismo”. E alle tendenze anti europee che molti partiti portano avanti nel suo paese ed in Europa risponde da giurista, dicendo che niente come l’Unione Europee ha contribuito ad evolvere lo spirito legislativo della Grecia. “Tutte le nazioni colpite dalla crisi devono capire che c’è una classe popolare che ha esattamente gli stessi obiettivi in tutta Europa”.

MARIAS

Elezioni Grecia Marias, left

Marias 24 anni, lavora dal lunedì al sabato come barista, 8-19. Come cameriera invece dal venerdì alla domenica dalle 20 alle 2. “Guadagno 500 euro al mese, il salario minimo. Ma ho un ottimo rapporto con il proprietario del bar, siamo amici: purtroppo, non riusciamo a far migliorare gli affari finanziari per via delle tasse. Ci obbligano a dichiarare zero introiti alla fine dell’anno, altrimenti non riusciremmo nemmeno a pagarci l’assicurazione sanitaria”. Il voto non è un problema per Marias, che esclude a priori la possibilità di recarsi alle urne.

Primo, perchè dovrebbe percorrere troppi chilometri per tornare a casa ed i suoi turni di lavoro non le lasciano mai più di mezza giornata libera. Secondo, semplicemente non ci crede più. “Sai quanto tempo ho lavorato senza assicurazione sanitaria, perchè nessuno riusciva a garantirmi la copertura? E sai che, per un’appendicite di mio fratello, abbiamo dovuto spendere 800 euro di operazione? Secondo te, posso mai avere voglia di andare a votare oggi?”

La copertura medica è veramente una delle grandi assenti nella Grecia moderna, dove solo se si ha un lavoro in regola si ha diritto ad averne una. Con la disoccupazione poi, si tende a perdere gradualmente la qualità dell’assistenza sanitaria sociale. Marias pensa che nessuno, nemmeno il tanto amato Tsipras, possa risolvere i problemi della nazione.

“Innanzitutto, Syriza è una coalizione e non un partito, quindi bisogna vedere se riusciranno a trovare posizioni unitarie di governo. E poi, come fa una persona ai massimi livelli del potere nazionale ad immergersi veramente nella nostra realtà? Per non parlare del fatto che la Grecia non conta niente in Europa”.  E se la Grecia invece diventasse un esempio per l’Europa? “Bisogna vedere in che senso”. Nel frattempo, Marias continua a lavorare, e sua madre continua a suggerirle di emigrare il prima possibile dal paese per poter trovare un buon lavoro e riprendere gli studi.

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INFOGRAFICA: Il partito di Tsipras vola nei sondaggi

Il partito di Tsipras vola nei sondaggi alla vigilia delle elezioni. Nell’infografica, l’aumento del bacino elettorale di Syriza negli ultimi tre anni, a quali partiti ha sottratto voti e in che misura.

La piazza di Syriza canta Bella ciao

Ci troviamo nel comitato elettorale di Tsipras, in pieno centro di Atene, un tendone allestito a poche centinaia di metri dal Parlamento ellenico. Il comizio è finito da poco, e il comitato si è naturalmente riempito di militanti festanti. Tra questi, molti italiani. Ancora visibilmente eccitati per la chiusura della campagna elettorale sulle note di Bella Ciao, l’immortale canzone della resistenza italiana eletta a simbolo di battaglia non solo in Europa, ma nel mondo.

Ascoltavamo in silenzio i commenti dei connazionali, quando un signore greco sulla sessantina si accorge di noi e ci dice, con un sorriso, il più classico dei ritornelli: Italia e Grecia, una faccia una razza. E poi inizia a raccontare. “Non è mica perchè ci assomigliamo che diciamo così, lo sapete vero? Beh, sicuramente saremo anche molto simili fisicamente, ma c’è ben altro.

C’era una grande guerra in Europa, non tanto tempo fa. Una guerra così grande che è passata alla storia come seconda guerra mondiale.
Qui in Grecia siamo stati invasi dai nazisti, come voi. Abbiamo resistito, così come voi. Solamente, la storia nei nostri riguardi è stata più inclemente. Guerra civile, intromissioni straniere, clandestinità: i nostri partigiani non hanno avuto vita facile. Infine, il colpo di grazia: la dittatura dei colonnelli. E per i comunisti la vita è diventata veramente dura. I militari hanno ucciso studenti, torturato uomini e donne, spento vite umane. Ma qualcuno è riuscito a scappare. E sapete per merito di chi? Del Partito Comunista Italiano.

Noi vecchi di Syriza abbiamo vissuto quegli anni, e spesso vorremmo non ricordarli, anche se non tutto il male viene per nuocere: Gli amici che riuscirono a trovare un rifugio nel vostro paese non ci hanno mai dimenticato. Instancabilmente, negli anni, hanno lavorato insieme agli italiani per intensificare gli aiuti e gli scambi di conoscenza reciproci. Anche a dittatura ormai finita. Sarà forse per questo che qui in Syriza il Partito Comunista di Berlinguer ed il suo eurocomunismo sono ancora oggi un punto di riferimento per la nostra sinistra? Forse si. Però devo dire che, ripensando agli anni di terrore durante la dittatura dei colonnelli, quasi mi commuovo a vedervi così numerosi ad Atene, in questi giorni tanto importanti per noi”.

Con Gli occhi leggermente lucidi dall’emozione, Andreas finisce di fumare la sua sigaretta in silenzio. Poi si alza, ci spiega che si sta facendo tardi e che deve proprio tornare a casa. Qualche convenevole, i soliti saluti finali, e s’infila la giacca. Eppure noi, quasi nella speranza di riuscire a trattenerlo giusto il tempo di un’altra storia, non riusciamo a fare a meno di chiedergli: “Andreas, per favore, regalaci un ricordo: possiamo scattarti una foto?” “Mi spiace ragazzi. Chi ha vissuto la clandestinità non si lascia fotografare facilmente“.

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Quirinale, una notte senza stelle

Quirinarie sì o quirinarie no? Appoggio al Pd, non appoggio al Pd? Strategia della rete o trattative in Parlamento? Renzi, Prodi o barricate? A meno di una settimana dall’inizio delle votazioni (la prima seduta inizierà alle 15 del 29 gennaio), e alla vigilia della “Notte dell’Onestà”, indetta da Grillo per il 24 gennaio in Piazza del Popolo a Roma, per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle è impossibile fare previsioni sulla strategia più importante della partita politica: l’elezione del Capo dello Stato.

A tenere in stallo il Movimento in queste ultime settimane è stato il metodo col quale il “partito dei cittadini” dovrebbe proporre il proprio nome. Da dove debba arrivare il candidato pentastellato alla Presidenza della Repubblica, sembra essere un rebus tutto da decifrare, persino per i suoi parlamentari, e che verrà sciolto solo all’ultimo momento, in linea, sembrerebbe, con la posizione del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Sebbene di ipotesi ne siano circolate, la maggior parte proveniente dal mondo della magistratura (dal presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione Ferdinando Imposimato al pm Nino Di Matteo), non sarà possibile né alla base, né agli eletti fare valutazioni di alcun tipo finché dal blog di Grillo non caleranno indicazioni. Un’esclusione della rete ben diversa rispetto a due anni fa, in cui erano stati proprio gli iscritti al portale a blindare i nomi.

Entrato glorioso con un “boom” da 25% nel Parlamento italiano, l’M5s si ritrova dopo quasi due anni davanti a quella che fu la sua prima grande prova nazionale e che gli valse anche le prime forti critiche – nonché i primi (spesso, va detto, compiaciuti) scetticismi sulle loro potenzialità politiche -: «Se aveste votato Prodi, non avreste consentito a Renzi di stringere il Patto del Nazareno», è l’osservazione che più pesa al partito delle non alleanze.

Ai tempi, il Movimento 5 Stelle fresco e pulito, aveva effettivamente un’unica chance per sopravvivere agli squali della politica: l’intransigenza. Guai a chiamarli onorevoli: erano “cittadini portavoce” che non parlavano con vicini di scranno né rilasciavano dichiarazioni alla stampa. Abitudine, questa, fra le prime a essere silenziosamente sfumata.

Oggi, è un altro Movimento 5 Stelle quello che siede fra i banchi del Palazzo. Pesantemente sfoltito dalle epurazioni e dagli abbandoni – 9 deputati e 17 senatori in meno – con un direttorio molto simile a una segreteria di partito (con tanto d’incarichi e referenti territoriali), debilitato dal confronto con il funzionamento della macchina istituzionale, il partito del blog cambia regole di volta in volta, e alla democrazia partecipata sempre più spesso sembra preferire la strada di una trattativa che non gli appartiene.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 24 gennaio

Pezzi di ricambio

«La discontinuità della sua prestazione lavorativa rappresenta un elemento di vanificazione dell’impegno posto in essere dalla collettività dei nostri dipendenti per superare le difficoltà dell’attuale momento». Per Marco l’era del Jobs act comincia così, dalla cassetta della posta.

Marco è il nome di fantasia di un operaio della Piaggio di Pontedera. Come lui, almeno una quarantina di colleghi s’è vista recapitare una lettera simile «mentre siamo fermi da mesi», sottolinea Massimo Cappellini, Rsu Fiom con un quarto di secolo di Piaggio sulle spalle. L’azienda (proprietà di Immsi, una finanziaria il cui primo azionista è Roberto Colaninno), dice che nella fabbrica storica della notissima marca di scooter, ci sarebbe «un tasso di assenteismo complessivo significativamente più elevato rispetto alle aziende del settore». Colpa di Marco e degli altri, pare, per via della loro «presenza al lavoro del tutto discontinua, caratterizzata da ripetute assenze di breve periodo, imputate a titoli diversi, potenzialmente tali da determinare un oggettivo impedimen- to alla possibilità di un utile impiego della sua prestazione lavorativa». «La lettera mi contesta 81 giorni», spiega Marco. «Ho un contratto part time verticale il che significa che lavoro 7 mesi l’anno. Dai certificati che ho non tornano assolutamente i conti con i giorni contestatimi nella lettera. Non solo, il periodo dell’assenza comprenderebbe pure i restanti 5 mesi di fermo lavorativo», sbotta.

PART TIME VERTICALE

La fabbrica di Pontedera, a est della Piana di Pisa, è un gigante mezzo addormentato nella pianura tra Pisa e Livorno. I tremila dipendenti – due terzi dei quali operai – sono in contratto di solidarietà e, dal 24 novembre, sono tutti a casa. Torneranno a lavoro il 26 di gennaio, ma chi ha ricevuto la lettera non ha aspettato e ha immediatamente preso contatto con il sindacato.

Simone Selmi, quarant’anni, metà dei quali alla Piaggio, è Rsu della Fiom e delegato alla sicurezza. Di quelle lettere ne ha già lette altre due e riguardano assenze per malattia di 23 e 26 giorni nell’anno solare, tutt’altro che clamorose. «Compresi periodi in cui il lavora- tore è a casa», dice confermando le parole di Marco.

A ricevere l’inquietante messaggio, secondo il sindacato, «sono soprattutto gli operai in part time verticali», un contratto a tempo indeterminato che riguarda i 250 lavoratori chiamati solo per sette mesi l’anno, durante i picchi di produzione. «E i cinque mesi a casa non vengono né pagati, né riconosciuti dall’Inps», racconta Mila, in part time verticale dal 2009 dopo sette anni di contratti precari Anche Mila è un nome inventato, per evitare eventuali rappresaglie. «Abbiamo solo una maggiorazione, chi del 5 per cento e chi del 10 per cento – il salario oscilla tra 1.200 e 1.300 euro – e poi ci si rivede alla tredicesima».

Certo, in quei mesi di fermo potrebbero cercare un altro impiego, ma Piaggio ti vuole a disposizione sempre, perché può sempre convocarti da un momento all’altro. «Il part time verticale – chiarisce Cappelli- ni – è un modo con cui l’azienda concentra la produzione per sfruttare al meglio gli ammor- tizzatori sociali». Ossia scaricando sull’Inps la maggior quantità dei costi. «Una scelta che ricade sulla produzione dell’Ape, che ormai va a finire, e sulle meccaniche dove si montano motori che vengono importati».

«Si prende servizio il primo lunedì di marzo e si va avanti sette mesi, prolungabili al massimo fino a dieci. Ma sono anni che non si lavora un giorno di più», continua Mila. «In compenso l’azienda ti spreme in quei mesi chiedendo straordinari di due ore più i sabati mattina». Ma Mila non li fa, e anche molti altri non li fanno: ogni sabato la Fiom proclama uno sciopero, per chiedere di spalmare la produzione anziché spremere i lavoratori. L’adesione agli scioperi del sabato è altissima tanto che di 6-7 linee di montaggio ne funzionano al massimo un paio. Una strategia vincente degli operai. Anzi delle operaie, visto che il 90% delle tute blu alla catena è composto di donne.

IN GINOCCHIO

Quello in Piaggio è un lavoro che spezza le braccia. Ma anche le gambe, visto che le lavorazioni costringono operaie e operai a inginocchiarsi più volte per ogni scooter che passa in postazione. «L’impiego in catena è faticoso, gli stazionamenti in postazione hanno tempi sempre più ridotti ma per un numero di mansioni sempre più elevato», racconta ancora Mila. «Le plastiche sono da spingere, da pren- dere a martellate. E i tubi non entrano, bisogna scaldarli sotto le lampade per ore.

A volte succede che chi apre le casse di quella roba poi cada svenuto per il cattivo odore ma quei materiali dobbiamo usarli finché non termina il container». «A questo aggiungi i materiali scadenti – riprende Selmi – roba che ormai viene solo dal Vietnam o dall’India, luoghi dove l’azienda ha anche esternalizzato alcune produzioni». E a fine turno le braccia sono spezzate anche se hai solo quarant’anni, come la media degli assunti in part time verticale. «C’è chi a 35 anni ha già un indennizzo in busta paga per i tendini sfilacciati. Mio padre ha lavorato qui in un’altra epoca ed è andato in pensione senza malattie professionali», ricorda Mila.

l’articolo integrale su left in edicola sabato 24 gennaio 2015

Se ti ammali sei fuori

Fischia il vento dell’era Renzi nello stabilimento della Piaggio di Pontedera. Su questo secondo numero del 2015 Checchino Antonini, firma storica di Liberazione e oggi di Popoff, e Tiziana Barillà raccontano le storie dei suoi operai che non si piegano. E protestano. Sempre, per il pane e per le rose insieme.

Mentre la politica impazzisce dietro al toto Quirinale, Ilaria Giupponi ricostruisce il caos del M5s che, a meno di una settimana dall’inizio delle votazioni, non ha fatto nomi né tantomeno deciso il metodo con cui arrivare ad un proprio candidato. Raffaele Lupoli firma la sua inchiesta sul Governo SfrattaItalia: il ministro Lupi non ha prorogato il blocco degli sfratti e migliaia di persone rischiano di finire in strada. Senza casa né diritti.

E tanto altro ancora, da Paolo Ferrero che racconta a Left le ragioni del suo nuovo libro La truffa del debito pubblico a Umberto De Giovannangeli e Flore Murard-Yovanovitch che tornano su Isis e ascesa dei neonazisti di Pegida in Europa.

Per chiudere con il racconto di Simona Maggiorelli da Parigi, dove ha riaperto il Museo Picasso, la scienza con l’anno della Luce spiegato da Pietro Greco e tanto altro: antropologia, musica e tempo libero. Buona lettura

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Inside Kobane

Zanyar Omrani è un giovane documentarista. Ha una forte passione per il reportage: raccontare storie che colpiscono il cuore e l’immaginazione è forse la sua più grande missione. Come molti, non riesce a restare indifferente nei confronti di quello che sta accadendo nel Rojava, una regione nordorientale della Siria sotto attacco da IS (Islamic State), dove si trova la cittadina di Kobane. Questo giovane professionista ha una profonda motivazione che lo spinge ad andare a vedere con i suoi occhi quello che sta succedendo a Kobane: Zanyar è un kurdo-iraniano.

Chi conosce anche superficialmente la storia del popolo kurdo può immaginare quanti secoli di sofferenze e di discriminazione abbiano storicamente unito i kurdi di ogni nazione (Turchia, Siria, Iraq e Iran) sotto una bandiera comune: un Kurdistan unito, un riconoscimento formale della lingua e della cultura che, faticosamente, questo popolo ha continuato a cullare nelle proprie città. Anche in quelle siriane.

Nel 2012 scoppia la guerra civile in Siria, ben presto infiltrata massicciamente da estremisti islamici. I kurdi siriani, approfittando del vuoto di potere creatosi nel paese, iniziano a sperimentare nel Rojava – Kurdistan siriano – un esperimento di convivenza etnica assolutamente innovativo per la storia del Medio Oriente: il Confederalismo Democratico. Un modello politico basato sul riconoscimento paritario di tutte le etnie (arabi, kurdi, yazidi, siriani, turcomanni e assiri), laico, socialista e anti-sessista. Basti pensare che il primo ministro di uno dei tre cantoni del Rojava è una donna, ed è la prima in assoluto nella storia della Siria. Ora, potete immaginare con quanto trasporto la popolazione kurda abbia seguito questa epocale svolta: naturale che molti di loro decidessero di accorrere a Kobane, quando questa è stata messa sotto attacco. Così ha fatto anche Zanyar che, oltre ad una buona dose di coraggio, ha portato con se una piccola telecamera.

Tutte le frontiere sono chiuse. Zanyar entra clandestinamente in Siria dalla Turchia, un’esperienza che non vuole raccontare e della quale non sappiamo nulla. In fondo, alcune cose è bene mantenerle segrete. Arriva a Kobane, la città è parzialmente occupata da IS. Si aspettava di trovare la guerra. E guerra ha sicuramente incontrato, ma non solo. Racconta: “sono stato così colpito dai suoni e dalle parole che ho visto… Mi sono reso subito conto che non potevo evitare di testimoniarlo”

L’occhio del regista si ferma principalmente sul media center della città, composto da un gruppo di giovanissimi, alle prese con la necessità d’informare i media internazionali sopra gli sviluppi di uno o dell’altro fronte. Guidati da un neo laureato in giornalismo di Damasco, questi ragazzi hanno sulle loro spalle una missione fondamentale per vincere la guerra: aggiornare i canali televisivi, inviare materiale fotografico e audiovisivo.

Mobilitare l’opinione pubblica internazionale. Il documentario si rivela quindi un susseguirsi emozionante di situazioni al limite del surreale: i nostri giovani eroi combattono contro le password di Gmail o le domande di sicurezza di Skype, in una città dove manca l’energia elettrica e la rete wi-fi è stata seriamente danneggiata dal nemico. Situazioni kafkiane e drammaticamente comiche, vissute sotto il ritmo travolgente della musica kurda o scandite dal suono di lanci e mortai.

Un documentario sull’umanità perduta e ritrovata: imperdibile.

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Ostinati e contrari all’ideologia dominante, sulla base di un proposito onesto

Contratti di solidarietà e part time verticali. Alla Piaggio di Pontedera si lavora sette mesi su dodici. Lo stipendio è di 1.200 euro al mese. Una maggioranza “visibile” direbbe Emanuele Ferragina (autore di un bel libro dal titolo La maggioranza invisibile), quella dei 250 operai dello stabilimento, fermi da novembre e pronti a riprendere il lavoro a fine gennaio.

Loro un contratto a tempo indeterminato ce l’hanno e, nei mesi in cui sono in fabbrica, hanno pure uno stipendio. Quindi, di questi tempi che vogliono di più? Di che si lamentano ancora? Invece si lamentano e vogliono di più. Protestano e, se necessario, scioperano per avere migliori condizioni di vita. Questa settimana vi raccontiamo la loro storia. Fastidiosi pezzi da cambiare nell’era Renzi, sono lì a dirci che esistono e, pensate, vogliono qualcosa di più. E di migliore. Anche se nessuno li ascolta, anche se il mondo cambia nel verso sbagliato, o almeno non cambia più la loro vita. Se non in peggio. E che non si abituano. Non si abitueranno mai. E che si lamentano. E lo faranno sempre di più.

Perché se non si lamentano vuol dire che hanno paura. Paura di ricevere una lettera come quella che si sono visti recapitare gli operai di Pontedera, nella quale gli si dice che se si assentano diventano «un oggettivo impedimento alla possibilità di un utile impiego della sua prestazione lavorativa» e sono fuori.

Come se la vita fosse un reality della tv dove il capo a un certo punto emette la condanna: «Per te quest’avventura finisce qui». Questo è il vento portato dal Jobs act, dove tutto è possibile, tutto è concesso. Non son più tempi per “il pane e le rose” dicono. Basta il pane. Non si lotta per avere qualche ora liberi di leggere, Omero magari, o di baciare la propria donna, o di portare al mare i propri figli. Semmai si lotta per il pane, insistono. Persino per la salute. Perché non è detto che ci sia e non è detto che ti spetti. Né il pane né la salute.

Si torna al Medioevo? Sì, forse sì. In un certo qual modo, quello peggiore: privilegi per pochi, diritti sempre meno, forme di protezione individuale. Condizioni di lavoro insindacabili. Il mantra della crisi investe tutto: le aziende vanno aiutate, gli imprenditori convinti. I costi del lavoro compressi. E allora? Allora si lavora a vecchie catene di montaggio che ti spaccano braccia e gambe per ore e ore, e si lavora anche il sabato. Perché lavorare è un privilegio. Si accettano contratti di solidarietà e si spera che l’imprenditore aumenti un po’ il profitto, così non scappa. E non tocca a te.

Salvo poi sentirti dire una cosa che già sai, che «il problema in Italia non è aumentare i profitti delle aziende, ma aumentare i salari dei lavoratori», e che nonostante tutti i sacrifici che potrai fare «dal Jobs act non c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti e dei posti di lavoro» a meno che tutto ciò non sia «accompagnato da un vero piano di investimenti pubblici». Peccato che «su questo nel governo c’è silenzio. Non c’è nessuna missione e nessuna visione». Così diceva l’economista Marianna Mazzucato solo qualche sera fa a Presadiretta di fronte alle immagini dell’Ast di Terni.

Il problema allora devono essere “le rose”. La visione e la missione. Le rose danno il pane. Il pane e le rose danno la libertà. La libertà del proprio tempo lavoro e del proprio tempo libero come ci spiegavano bravi economisti alla festa di Left qualche tempo fa.

Fantaecomonia o fantavita per poveri e pochi illusi di sinistra? No. Lo scoprirete nella rubrica di arte questa settimana. Vi racconteranno di Isabella Seragnoli, un’imprenditrice che produce macchine automatiche e che ha realizzato il sogno “olivettiano” di creare una fabbrica bella e moderna, che funziona. Centro di aggregazione e di ricerca ma anche avamposto sociale e civile nel tessuto urbano in cui è inserita. In Italia pensate. A Bologna.

PS. A chi, per sue credenze personali, ha pontificato in questi giorni che Left non può essere, per sua natura, un punto di riferimento per la sinistra, rispondo citando ancora Emanuele Ferragina quando nel suo libro scrive: «Al di là di simili ostacoli, ad animare i lunghi mesi di lavoro [i miei sono anni…] è stata la stessa speranza che continua a spingere chiunque insista a stare al fianco dei più deboli, “in direzione ostinata e contraria” rispetto all’ideologia dominante. La speranza di essere abbastanza credibili da entrare in contatto con l’altro sulla base di un proposito onesto: narrare la realtà con occhi nuovi, mettendoci il meglio di noi stessi».

In modo ostinato e contrario all’ideologia dominante, sulla base di un proposito onesto, cercheremo di narrare la realtà con occhi nuovi. Questo sarà Left. Ringrazio sin da ora tutti quelli che ci accompagneranno nella ricerca.

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Conclusa l’asta per la testata “left-avvenimenti”. Matteo Fago è il nuovo editore.

Si è conclusa questo pomeriggio l’asta per l’acquisto della testata Left Avvenimenti. La migliore offerta è stata fatta da EditorialeNovanta di proprietà di Matteo Fago, ex editore dell’Unità, da oggi ufficialmente nuovo editore di Left Avvenimenti.

“Sono felice di poter garantire il futuro di Left. Già da gennaio ci eravamo impegnati a riportare in edicola la rivista e nei prossimi mesi lavoreremo per un  rilancio complessivo del settimanale. Mi preme sottolineare che il nuovo Left non usufruirà di contributi pubblici e si sosterrà esclusivamente sulle vendite che riusciremo a fare.

Resto fortemente convinto che sia possibile fare informazione a sinistra in modo nuovo. È quello che ho tentato di fare con l’Unità ed è quello che voglio fare con Left. Un’informazione che serva alla costruzione di una sinistra nuova, onesta, indipendente e laica. Un’altra buona notizia è che EditorialeNovanta, società editrice del nuovo Left, sta già assumendo personale giornalistico e poligrafico” lo ha detto Matteo Fago commentando il risultato dell’asta.