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Lunga vita al partigiano Ken

Come ha fatto Ken Loach a sopravvivere alla caduta del muro di Berlino, al fallimento del comunismo, lui, unico regista schierato nel panorama cinematografico internazionale che mette al centro dei suoi film i lavoratori, gli immigrati, le donne, gli emarginati?

Viene il sospetto che Loach nutra il pensiero che la ribellione sia una condizione naturale dell’uomo ancor prima di venir esaltata o deprezzata dalle ideologie e dagli intellettuali. Che l’umanità sia naturalmente di sinistra e che l’uomo sia fondamentalmente un animale sociale. E che la religione, il fascismo, l’egoismo, l’individualismo liberista siano una perversione del pensiero umano, non la sua essenza.

Tutto questo lo avverti nei film del britannico da come inquadra i suoi personaggi, dalle storie che racconta, dal vento di forte umanità che spira dalle sue pellicole. Vi è la convinzione in Loach, al pari di Camus, che nell’uomo vi sia un’invincibile estate dura a morire anche di fronte al più rigido inverno. Che non è il sol dell’avvenire né il paradiso in terra per gli uomini di buona volontà. E’ un’idea di uguaglianza che non può essere toccata nell’uomo pena la rivolta. Questo per Loach è il motore della storia e delle sue storie.

Jimmys Hall, leftJimmy’s hall non fa eccezione. Irlanda Anni Trenta. Jimmy è un ragazzo di provincia con idee progressiste (già costretto a fuggire per questo) che desidera semplicemente creare uno “spazio caldo” (dice proprio così!) per la sua comunità lontano dallo sguardo delle guardie e del clero. Una sala da ballo che sia anche luogo di incontro, di lettura, di studio. Tutte cose che non possono esistere sotto l’imperio di Santa madre Chiesa. Nella sala di Jimmy si balla, le ragazze vi giungono belle, le loro gambe e le loro braccia si muovono sinuose. Per il clero e le autorità irlandesi è una colpa imperdonabile, più dei sabotaggi dell’Ira perché infine anch’esse odorano di incenso. La curia impersonata da padre Sheridan a braccetto con le forze di repressione minaccia, scheda, terrorizza la vita di donne e bambini. Considera pericoloso quel ritrovo perché sa che quella rivolta partita dalle gambe potrebbe giungere alla testa.

A Loach è riuscita l’impresa di fare un film storico col tempo presente. Jimmy’s Hall è il più riuscito dei tre (Terra e Libertà e Il vento che accarezza l’erba) perché va dritto all’essenziale, non eccede in retorica e non fa sconti a nessuno. Che l’Irlanda non sia cambiata e che i nemici siano quelli di sempre, Santa Romana Chiesa e una forza straniera che ne condiziona il destino?

Ken Loach conferma la coerenza e lo stile di una vita, anche se occorre ricordarlo, il suo cinema ha compiuto una svolta fondamentale a metà degli anni Novanta con la collaborazione dello sceneggiatore Paul Laverty che gli ha tolto il grigiore di Piovono pietre e Ladybird Ladybird rendendo la sua opera meno manichea, più complessa e aperta ai molteplici umori del mondo. I tipi di Loach e Laverty sono gente comune: precari, adolescenti smarriti, donne che provano a farcela da sole. Un popolo che pensa.

Hasta la classica siempre!

Sesso, droga e musica classica. Niente rock n’roll, ma archi, percussioni, fiati e Gael Garcia Bernal, il giovane Che dei Diari della Motocicletta, come direttore d’orchestra.

A sdoganare l’idea della classica come musica d’ancien regime è Mozart in the jungle la nuova serie tv prodotta da Amazon, un altro dei grandi colossi web che nella produzione di video serial ha visto un business degno di grandi investimenti. E, a quanto pare, già foriero anche di ottimi risultati, visto che il leader mondiale dell’e-commerce si è già distinto sui red carpet portando a casa due Golden Globe con Trasparent e promettenti collaborazioni con mostri sacri della regia come Ridley Scott e Woody Allen.

I primi 10 episodi di Mozart in the jungle sono stati messi online su amazon.com, tutti e 10 in una volta sola, il 23 dicembre. Un regalo di Natale firmato da Roman Coppola, Paul Weitz che, a quanto pare, non hanno paura di raccontare al grande pubblico il mondo di nicchia della classica.

Tra musicisti in attesa dell’occasione della vita, vecchi direttori d’orchestra restii al pensionamento, giovani conduttori dal fascino latino, violoncelliste ninfomani e party alcolici in cui ci si sfida all’ultima nota, Mozart in the jungle ci getta nel bel mezzo dell’arena, o meglio, nella buca d’orchestra.

Al centro dello spettacolo passione, fortuna e grandi aspirazioni, condite da una buona dose di sex appeal. Belli e dannati, quasi fossero usciti 100anni dopo dalla New York di Fitzgerald, i personaggi di Mozart riescono a essere un buon ritratto, per quanto stereotipato, degli abitanti di NYC e – come è avvenuto con Girls, e a fine anni 90 con Sex & the city – il pubblico premia una resa fedele della Grande Mela.

Un po’ perché chi la conosce ci si ritrova e un po’ perché chi non ci è mai stato può sognare qualcosa non troppo distante dalla realtà. Complici della riuscita dell’impresa, oltre al cast d’eccezione, una regia accattivante e la durata del format, 30 minuti a puntata. Il tempo perfetto per farci gustare la trama e lasciarci con un immancabile cliff hanger, curiosi di vedere subito l’episodio successivo.

È proprio questo elemento a farci capire quanto amazon.com abbia intercettato le nuove abitudini di consumo “bulimiche” degli appassionati di serial e, soprattutto, quan- to corrisponda a questa strategia anche la messa online contemporanea di tutte le puntate della serie.

Insomma addio vecchia cadenza settimanale, Amazon sembra essere convinto che il telespettatore voglia tutto e tutto subito ed è pronto a rispondere con un’offerta di prodotti eccellente. Se con Trasparent il colosso dell’e-commerce è riuscito a stupire e a arrivare sulla vetta dove dominava incontrastato Netflix, con Mozart in the jungle conferma il terreno acquisito.

Gli esiti non sono brillanti come nel primo caso, ma sicuramente la serie si fa apprezzare, anche se resta decisamente ancora poco chiacchierata e conosciuta dal pubblico italiano. Per vederla e rimediare alle lacune del palinsesto la risposta, come sempre, è online.

Fischia il vento del Jobs act

Alla Piaggio di Pontedera il Jobs act è già realtà. E assume la forma di lettere in carta bollata. Gli operai pisani sono i primi a respirare gli effetti della riforma targata Renzi. «Senza terrorizzare più del giusto la gente, c’è da dire che questo clima di umiliazione dei lavoratori fa sì che le imprese si sentano più o meno onnipotenti», spiega Piergiovanni Alleva, docente di Diritto del lavoro ad Ancona.

È una questione di “clima”, insomma. Il vento comincia a soffiare dalla parte dell’impresa. «Le aziende sentono di avere il vento in poppa e spiegano le vele per restaurare fino in fondo il loro completo dominio». È sicuro Sergio Bellavita, della Fiom Cgil nazionale. «Vengono cancellati i diritti dei lavoratori, perché un’azienda che decide di licenziare un lavoratore adesso ha tutta la strumentazione necessaria. L’ha costruita il governo Renzi».

In verità, lo smantellamento dei diritti, in materia, non è tutto “merito” di Renzi. Già il governo Monti – e il suo ministro Elsa Fornero – con la riforma del 2012 aveva fatto la sua parte.

Se Pontedera è l’assaggio di una nuova stagione dei (non) diritti del lavoro, vale la pena soffermarsi su quanto è accaduto in quel di Pisa. Per la Fiom, «ogni lavoratore della Piaggio che ha ricevuto quella lettera potrebbe querelare l’azienda per diffamazione», è sicuro Bellavita. «Perché viene loro contestato un diritto non sulla base di un dato concreto, non si contesta al lavoratore l’abuso di uno strumento perché dal risultato di un’indagine è stato scoperto che i certificati per esempio erano fasulli, qui si allude al fatto che il lavoratore in realtà non è malato».

In effetti, come può un operaio ridurre la propria malattia? «L’azienda chiede agli operai di andare a lavorare malati, oppure si contesta la falsa malattia», abbozza il sindacalista. Tema sensibile, quello della salute. E non è un dettaglio trascurabile che avvenga in una fabbrica – la Piaggio di Pontedera – dove più volte i lavoratori hanno denunciato un’arretratezza tecnologica e, quindi, un conseguente aumento dello sforzo fisico nell’impiego.

«La fabbrica è una fabbrica fordista nel senso pieno della parola. La forza fisica ha un peso rilevante, è evidente che non è paragonabile a un impiego d’azienda qualunque», conferma Sergio Bellavita.

Sei deleghe e due decreti. Sono questi, al momento, i numeri del Jobs act. Uno dei due provvedimenti è stato battezzato dal premier “contratto a tutele crescenti”. Tradotto: un neoassunto al momento della sua assunzione non avrà tutele, ma le guadagnerà nel tempo. Ma questa «è una balla clamorosa di Renzi», ribatte il giuslavorista Alleva. «Non è prevista una nuova forma contrattuale, lui ha determinato il fatto che con l’entrata in vigore dei primi due decreti attuativi ci saranno due categorie di lavoratori». Stiamo parlando dei lavoratori già assunti e di quelli neoassunti, che avranno meno diritti. «Non è una tutela crescente perché alla fine di quel periodo il lavoratore non avrà acquisito nulla in più.

È semplicemente una transizione in cui la parte dei lavoratori “privilegiati” verranno pian piano neoassunti e quindi assoggettati alla nuova normativa. E se, mettiamo il caso, tutti i lavoratori “privilegiati” non si dovessero mai muovere comunque è un processo che va ad estinguere i vecchi diritti. Quindi i nuovi assunti sono molto più appetibili per le aziende: hanno gli sgravi nelle assunzioni e hanno un regime di ricattabilità e licenziabilità assoluto.

Quindi le aziende non creano nuova occupazione, hanno soltanto condizioni tali da poter imporre condizioni peggiorative: sul salario, sugli orari…».

Sotto la ruspa della rottamazione renziana è arrivato il turno della classe operaia. Ancora una volta, secondo il sindacato, quanto accade in Piaggio è un segno evidente: «La fase lì è complicata, con una mobilitazione ancora in piedi rispetto al contratto aziendale che non è ancora stato rinnovato», spiega Bellavita. «Quindi l’antisindacalità di questo passaggio, nel senso collettivo, c’è tutta. È evidente che usano queste cose come forma di intimidazione, non solo sulla malattia ma in senso generale rispetto al ruolo del sindacato. E siccome c’è una rappresentanza sindacale e un insediamento storico di lavoratori con un’attenta e precisa coscienza dei loro diritti, forse queste lettere rappresentano un tentativo di normalizzare».

Il 12 gennaio Sergio Marchionne – adesso a capo di Fiat Chrysler Automobiles – ha annunciato da Detroit 1.500 assunzioni precisando che avvengono «in modo interinale fino a quando il Jobs act non diventerà effettivo». Un annuncio che «non si può che salutare positivamente», per il segretario generale della Cgil Susanna Camusso. Ma c’è chi non la pensa come lei. Perché con la riforma del lavoro, sostiene Bellavita, «si instaura un doppio regime tra vecchi e nuovi assunti. Che può favorire la sostituibilità».

Con una semplice formuletta, potremmo semplificare: licenziamenti + neoassunzioni = sostituzioni. È d’accordo Alleva. «Il tutto è stato fatto a questo scopo – commenta – I nuovi contratti hanno due vantaggi: l’esenzione decontributiva per tre anni e l’assenza dell’articolo 18. Sono ultraconvenienti, tutti cercheranno di fare la sostituzione». Tuttavia, bisogna tener conto che senza un reale incremento occupazionale difficilmente si potrà usufruire della decontribuzione. «Il giochetto di licenziare e riassumere non è un giochetto così facile, taglia corto Alleva. «Anzi, è una truffa».

Il sindacato annuncia ricorsi in tutte le sedi giudiziarie. «C’è una guerra di tribunali, che noi abbiamo sempre fatto e che possiamo fare, alla quale ho sempre partecipato – avverte Alleva –. Però questa volta onestamente credo che bisognerebbe avere il coraggio di misurarsi con l’avversario». Il professore ha lanciato l’idea di un referendum, ma spiega che è ora di non ragionare più in maniera difensiva. «È arrivato il momento di capire che il liberalismo ha fatto la bancarotta completa – conclude – La gente è nella fame e nella disperazione. Non avrei nessuna esitazione ad agire: la pentola ha ricominciato a bollire forte». Ci vuole coraggio. Per evitare che l’Italia di- venti una Repubblica fondata sulla libertà d’impresa.

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Da Auschwitz a Srebrenica. L’importanza di ricordare

Auschwitz sta lì a ricordare a tutti noi perché abbiamo fatto l’Europa Unita. Srebrenica ci serve a cambiarla. La memoria è materia impegnativa perché quando presa sul serio, costituisce un vincolo all’azione politica che diventa Storia. La memoria di Auschwitz ha provocato il più grande “agglutinamento” pacifico tra identità nazionali mai avvenuto prima e questo è un bene grande che sarebbe un delitto sminuire e logorare a colpi di cinismo e indifferenza.

Molto da allora è stato fatto, ma guai a pensare che le conquiste abbiano a che fare con lo stato solido: hanno piuttosto a che fare con quello liquido, per questo servono continuamente mani pronte a rinnovare lo sforzo costruttivo. La realtà non è mai un dato, è sempre un processo, fissato temporaneamente nel racconto, più che nell’esperienza. Avidità e violenza possono vestire dell’abito nero del terrore, in ogni momento, brandendo questo o quel dio. Dio è una variabile dipendente dalla volontà di potenza.

Quest’anno saranno trascorsi 20 anni dalla strage di Srebrenica: era luglio del 1995 e almeno 8.000 bosniaci musulmani vennero ammazzati a sangue freddo da spietati militi cristiani, nel cuore dell’Europa. Un’Europa inadeguata. Dovremmo andarci a Srebreni- ca quest’anno, con le medesime modalità con le quali ogni anno andiamo in tanti ad Auschwitz: disposti a ricapitolare in noi un orrore banale, che ci impone di essere vigili e capaci di un futuro migliore.

Ancora una volta ci diranno che siamo folli e ingenui, ancora una volta sceglieremo l’incontro e il dialogo per costruire pace e giustizia. Per restare umani. Eventi come Auschwitz e Srebrenica sono talmente gravi e grandi, che dovrebbero servire a ciascuno per ritrovare, anche soltanto nella circostanza della commemorazione, le superiori ragioni della convivenza pacifica tra gli esseri umani: una boccata di ossigeno e di senso del limite.

Spiace e preoccupa quindi registrare l’annunciata assenza del presidente Putin ad Auschwtiz il 27 Gennaio. Quei cancelli terribili, il 27 Gennaio del 1945, furono abbattuti proprio dall’Armata Rossa.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/mattiellodavide” target=”on” ][/social_link] @mattiellodavide

*deputato Pd, presidente fondazione Benvenuti in Italia

27 gennaio 1945

Introdotte in Italia dal 2000 e in tutto il mondo con una risoluzione Onu del 2005, si tengono il 27 gennaio le celebrazioni per ricordare le vittime dell’Olocausto, perché proprio in quella data nel 1945 le truppe sovietiche arrivarono al campo di Auschwitz liberando i superstiti.

Da quel momento l’orrore delle persecuzioni nei confronti degli ebrei divenne di dominio pubblico. Al Binario numero 21 della stazione di Milano è lungo 67 metri il muro dei nomi del Memoriale della Shoah.

Dal 25 al 27 gennaio sarà possibile visitare quel luogo da dove, tra il 1943 e il 1945, partirono migliaia di persone nei treni diretti ai campi di concentramento nazisti.

Guardando fuori da casa nostra, quest’anno – per la prima volta in 70 anni – il presidente russo Putin diserterà la cerimonia al Museo della località polacca. Questo, a causa della tensione per la crisi ucraina. E così la Memoria passa in secondo piano.

Eco e il “numero zero” del romanzo

Numero zero (Bompiani) di Umberto Eco è un libro anche godibile e utile ma non è un vero romanzo, benché si proponga come tale. È tante altre cose: una “Bustina di Minerva” dilatata oltre 200 pagine, un repertorio di argute boutade, un manualetto sulle regole tacite del giornalismo.

Umberto Eco, Numero Zero, leftSviluppa un teorema del Cimitero di Praga (se si può fabbricare un falso che sembra autentico cade la distinzione tra vero e falso), declinandolo nella manipolazione giornalistica, che può consistere anche solo nell’allineare notizie eterogenee creando allarme. E aggiungendo un’intuizione notevole: la trasparenza vige nei regimi dittatoriali, mentre i misteri ci sono solo in democrazia, ma a nessuno gliene importa più nulla perché qualsiasi verità viene presa per l’ennesima “narrazione”. Un universo orwelliano, morbidamente dispotico.

Alla fine leggiamo che nessuno si vergogna neanche più. Ma di cosa potrebbe oggi alimentarsi un sentimento di vergogna se condividiamo la visione uniformemente cupa di Eco? Non dell’amore per la verità (per lui indistinguibile dalla menzogna). Numero zero non è un romanzo perché non ne ha la lingua – incolore, con prelievi dal gergo della middle class culturale («Avevo visto Maia così basita …» o «Sentivo di amare sempre più quella creatura che, da sgricciolo protetto si era trasformata in lupa fedele…») -, non ne ha i personaggi, volutamente unidimensionali (sembrano usciti dal “Dottor Rigolo” di Pericoli e Pirella), non ne ha la trama (mero calco dalle cronache attuali: una redazione deve creare un quotidiano destinato alla macchina del fango).

Oltre all’ossessione per le barzellette, la goliardia e i calembour epistemologici («Perché un angolo retto mi- sura novanta gradi? Domanda mal posta: lui non misura niente, sono gli altri che misurano lui»). Per accorgersi che si tratta di un falso romanzo basta paragonarlo, che so, a Ferito a morte di La Capria, all’ Isola di Arturo della Morante, a Todo modo di Sciascia

Un lettore dotato di senso comune si godrà il libro per molte ragioni ma potrà facilmente riconoscere che in quanto romanzo è una abile ma evidente contraffazione (è il “numero zero” di un romanzo), sottraendosi così felicemente – sorpresa finale! – proprio al teorema Eco, all’idea cioè che non si possa più distinguere tra vero e falso.

Il ritorno della cantantessa

È il tempo a dare senso alle cose: lo scorrere che segna una traccia, che individua un prima e un dopo (senza contare il “durante”), che delinea un movimento. Carmen Consoli di cose ne ha fatte nei cinque anni che separano Elettra dall’ultimo album, L’abitudine di tornare, appena uscito per Universal music.

Una delle migliori cantautrici del panorama italiano, lontana (si fa per dire) dalla musica, ha letto il senso di molte storie che la circondavano, trovando la chiave per raccontarle in questo disco ricco di attualità. Crisi, immigrazione, violenza sulle donne, omosessualità caratterizzano molte delle canzoni per le quali si è messa un po’ nei panni di una cronista.

«Questi anni li ho passati tra la gente, vivendo anche qualche esperienza filtrata dai media, ma cercando sempre una chiave di compassione, intesa come condivisione del dolore», racconta. «Sono andata al mercato, sono uscita la sera, ho ascoltato le persone». Cercando di non puntare il dito: «Sembra che io sia definitiva, alle volte, ma non è così. È che ho pur sempre tre minuti per esprimermi in una canzone». E dove le parole non bastano, meglio lasciar fare alle “note subliminali”, alle armonie che bussano alla porta per arrivare dove il vocabolario non sembra adeguato.

Dopo tutto, è di musica che si parla: «Un disco lo concepisco nel suo insieme, non sarei capace di farne uno a tavolino». Anche per questo il tempo è trascorso fin quando non ha sentito di aver di nuovo qualcosa da comunicare. È successo tra luglio e agosto scorsi: i dieci brani che compongono il disco sono stati scritti allora. A settembre l’ingresso in studio per registrare. Né prima, né dopo.

Carmen Consoli conferma la peculiare abilità – che spicca in un panorama che si mostra spesso stantio – a raccontare vicende e dinamiche in un buon equilibrio tra ciò che viene pale- sato e ciò che si lascia intuire. Le melodie rimangono in testa, anche quelle dei brani meno incisivi, e funzionano sia nella veste composita di studio, sia suonate chitarra e voce. «È in questa versione che le ho pensate», dice dopo averle interpretate in anteprima a Milano. «Poi mi sono affidata agli stimoli di Massimo Roccaforte e Gianluca Vaccaro, con i quali l’ho prodotto e che hanno aggiunto nuove idee al mio modello Eva contro Eva (2006). È il risultato dell’incontro di tre personalità». Quattro, se si aggiunge Toni Carbone (Denovo), tra le altre cose ingegnere del suono, che le ha insegnato a suonare il basso e con il quale lo sguardo si incontra spesso, mentre canta per la prima volta davanti alla stampa le nuove composizioni.

“Esercito silente” è l’unico brano su cui spende due parole prima dell’esibizione: «Perché bisogna distinguere tra due eserciti. Quello che tace per omertà, e quello che lo fa per impotenza». Si parla di Palermo, del peso della sua storia (“Volano gli aeroplani, le scie come trame si intrecciano/ quell’aeroporto è uno scempio che adesso porta un nome di rispetto”), di una terra divisa tra la volontà di nascondere e l’impossibilità di far emergere (“Chissà se il buon Dio per- donerà il silenzio”).

E per quanto non voglia entrare nel discorso politico perché pensa di non averne le “competenze”, parla di un’assenza, di una dimenticanza nei confronti della Sicilia, e di un attacco, generalizzato e nazionale, negli ultimi anni, al mondo culturale. Attenzione però a non inserire i “personaggi” protagonisti delle sue canzoni nella casella dei vinti, oppure dei vincitori: «I confini non sono mai così netti. Mi piace pensare che ognuno di loro sappia trovare un’opportunità, nell’avversità». “La signora del quinto piano” racconta dell’omicidio di una donna per mano dell’uomo che diceva di amarla: un racconto incisivo che per immagini trasmette non solo un terribile fatto di cronaca, ma anche l’indifferenza con il quale viene gestito («Ah… dimenticavo… I funzionari della questura continuano a dire che non c’è alcuna ragione di avere paura»).

Bravissima come sempre, Carmen Consoli, a descrivere la violenza, così come fece con “Mio Zio” (in “Elettra”). Ed è questa l’unica cosa che uscirà sempre male dalle sue composizioni, e questo disco lo conferma: la violenza «che è delle persone, non di uomini o donne». Riportando un caso a Catania nel quale fu il marito a trascinare la moglie in tribunale per percosse, la cantautrice coglie l’occasione per spiegare che non ha nessuna ragione per raccontare in negativo l’universo maschile. «Conosco semplicemente meglio quello femminile, e credo di essere più credibile quando parlo dando voce a una donna», precisa. «Ho un figlio maschio, per cui non potrei non amare gli uomini, e ho avuto un padre femminista che adorava mia madre».

Un altro uomo speciale nella sua vita è Max Gazzè, amico di lunga data – «Ci conoscemmo a Il Locale di Roma, quando lui tornava da Londra e io provavo a combinare qualcosa nella Capitale» – che in questo disco è presente, insieme al fratello Francesco per il testo, in “Oceani deserti”, una delle tracce più belle. A suo figlio ha dedicato “Questa piccola magia”: «Sono un’educatrice abbastanza severa, ma credo che per trasmettere certe cose bastino sguardi e parole incisivi».

Il resto dell’educazione lo fa la soddisfazione del genitore, quando è felice di fare ciò che ama, con passione. Anche a questo sono serviti cinque anni: a godersi la maternità, a fare le cose di tutti i giorni – «anche le minchiate, come si dice in Sicilia» – a guardare di più la televisione, a respirare la quotidianità delle persone, a comprare il pesce dal signor Orazio al mercato, a cambiare giro di amicizie, sentire concerti di musicisti emergenti e lavorare con altri nell’etichetta che ha fondato a Catania.

A sentire i dischi che più le sono piaciuti (quelli del trio Fabi- Silvestri-Gazzè, di Cesare Cremonini e di Mario Venuti) e imparare a suonare un nuovo strumento. Per poi capire che aveva ancora qualcosa da dire. Se così non fosse stato, racconta, non l’avrebbe fatto: «Io me ne sto tanto bene a casa».

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Primarie in Liguria? Il problema è la mafia

Mafia. E’ una parola di cinque lettere con un significato ben preciso in Italia. Le stragi del ’92, le bombe che trasformarono Palermo in una Beirut nostrana, per eliminare i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono immagini a colori, dovrebbero essere ancora nitide nella memoria.

C’è ancora un capo dei capi di Cosa nostra uccel di bosco, Matteo Messina Denaro. La ’ndrangheta calabrese è considerata una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo. La camorra controlla e terrorizza vasti territori non solo in Campania e non solo nella finzione televisiva di Gomorra.

Sembra incredibile che il dibattito politico escluda la parola “mafia” e che la polemica, nel caso delle primarie del Pd per le regionali in Liguria, verta sul fallimento di Sergio Cofferati che non sarebbe capace di accettare la sconfitta subìta contro Raffaella Paita, la candidata dell’apparato, assessore alla Protezione civile rimasta a galla nonostante le devastanti alluvioni che hanno sconvolto Genova soltanto due mesi fa.

Possibile che i vertici del Partito democratico non facciano una piega di fronte all’interessamento della Direzione distrettuale antimafia di Genova? Non lo fanno. Nonostante siano stati allertati da un tesserato democratico per altro, Walter Rapetti, presidente di seggio al quartiere Certosa, soprannominato “piccola Riesi” essendo un’enclave di storica immigrazione siciliana.

La Digos ha chiesto l’elenco dei votanti, si è mosso anche lo Sco dei Carabinieri. Due procure, Genova e Savona, avviano indagini. Insomma, il problema delle primarie liguri non è Cofferati che non accetta il risultato e lascia il partito. Non è il possibile inquinamento del voto da parte dell’elettorato della destra. Non è il massiccio afflusso alle urne di cinesi. Quisquilie. Il problema ancora una volta si chiama mafia. E ancora una volta la politica non scende dal pero, ma ci rimane ben abbarbicata, facendo finta di nulla.

Come è possibile che venga convalidato un risultato, di una consultazione interna al Partito, che anche solo lontanamente possa esser sospettato di interessi mafiosi? Oggi succede. Succede nonostante la procura di Roma abbia appena scoperto l’esistenza di una nuova organizzazione criminale, denominata Mafia Capitale, il cui scandalo già ha mostrato la debolezza della politica, destra soprattutto ma anche sinistra, con arrestati e indagati e il Pd romano commissariato (da un romano, il presidente nazionale Matteo Orfini: quanto meno discutibile la scelta, non per la specchiata onestà dello stesso Orfini ma per motivi di opportunità territoriale).

La rivoluzione del partito liquido di veltroniana memoria, realizzato pienamente dal renzismo rampante, con le sue cene di autofinanziamento da mille euro a commensale, con tutta evidenza non aiuta. La rivoluzione 2.0 ha gettato a mare la struttura del Partito, quella sana che viveva nelle sezioni non sol- tanto cucinando salsicce alle feste dell’Unità. Ha gettato a mare ogni controllo, concedendo praterie al malaffare.

«Le inchieste dimostrano che la corruzione ha raggiunto dimensioni intollerabile anche per il frequente suo intreccio con le organizzazione di tipo mafioso. Questo ha effetti devastanti sul piano economico e per i cittadini». Queste parole sono del guardasigilli Andrea Orlando. Ministro del governo Renzi, importante esponente del Partito democratico. Sul piano teorico belle parole e buone intenzioni non mancano mai. In Liguria il problema a questo punto non è Cofferati sì o Cofferati no, la credibilità del Pd e della sinistra si deve misurare su ben altro. Sulla capacità di guardare le mafie in faccia e dire una volta per tutte: “Adesso basta”.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/viabrancaleone” target=”on” ][/social_link] @viabrancaleone

INFOGRAFICA: #Grecia2015 il trionfo di Tsipras

Syriza il partito di Alexis Tsipras vince le elezioni in Grecia. L’infografica viene aggiornata progressivamente con l’aumentare dei dati definitivi.

Leone d’Argentina

Nel giugno ’78, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone rassegna le dimissioni due settimane prima dell’inizio del semestre bianco e due settimane dopo l’inizio del Mundial argentino. Gli azzurri hanno stravinto il girone di primo turno: 2-1 alla Francia, 3-1 all’Ungheria e 1-0 ai padroni di casa, sfrattati dal Monumental di Buenos Aires e spediti a Rosario per proseguire contro Brasile, Polonia e Perù, il cammino verso un titolo patrocinato più dalla Cia che dalla Fifa.

Non sono previste semifinali e l’Italia debutta nel gruppo da cui uscirà l’altra finalista pareggiando 0-0 con la Germania Ovest campione in carica e priva dei gioielli Franz Beckenbauer, ormai divo nel campionato americano Gerd Muller ancora in forza al Bayern, ma congedatosi dalla Mannschaft dopo la storica finale del ’74. I 22 convocati di Bearzot sono 9 juventini, 6 granata e altri 7 rappresentanti ciascuno un club diverso: Bellugi il Bologna, Antognoni la Fiorentina, Paolo Rossi il Lanerossi Vicenza, Bordon l’Inter, Maldera il Milan, Paolo Conti la Roma e Manfredonia la Lazio.

Prima in classifica è l’Olanda, allenata dall’austriaco Ernst Happel, capace di rifilare cinque reti proprio alla sua Austria sul prato di Cordòba. E il tutto senza Johann Cruyff rimasto a Barcellona piuttosto che mettere nelle mani del generale Videla la propria sicurezza personale prima ancora che la propria immagine di campione. E non avrebbe cambiato idea nemmeno su preghiera della regina Giuliana, al momento troppo impegnata nel muovere più diplomazia possibile per diluire l’imbarazzante coinvolgimento del Principe consorte Bernardo nello scandalo Lockheed, lo stesso che ha travolto il nostro presidente Leone e buona parte del governo della Germania federale.

E per fortuna che il Giappone, il quarto Paese impelagato nell’acquisto dei velivoli militari di fabbricazione americana, non ha superato le strette maglie delle qualificazioni asiatiche altrimenti sarebbe stato un girone davvero perfetto. Nella fattispecie italiana si tratta degli Hercules C-130, molto simili se non addirittura gli stessi che la giunta argentina usava per trasportare i prigionieri politici a largo della costa prima di buttarli in fondo al mare con il plauso della Chiesa.

Per la seconda giornata: Olanda-Germania 2-2 e Italia-Austria 1-0 con un gol di Pablito Rossi. Nell’ultima gara contro gli arancioni, sempre primi per differenza reti, andiamo in vantaggio dopo venti minuti grazie a una maldestra scivolata di Brandts che mette fuori causa e fuori uso il portiere Schrijvers. Il sostituto Jongbloed non farà neanche una parata, così come Dino Zoff, tradito dal sole basso dell’inverno australe e da due missili radiocomandati. Perdiamo 2-1: Olanda alla finalissima e Italia alla finalina contro il Brasile, vittima nel frattempo di una patetica combine tra i padroni di casa e il Perù.

Il 29 giugno, a giochi ormai fatti, si tiene il primo scrutinio per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. I blocchi contrapposti in Parlamento non si chiamano Juve e Toro, ma Dc e Pci con i rispettivi candidati: Guido Gonella, omonimo di Sergio, l’arbitro italiano della finale tra Olanda e Argentina, e Giorgio Amendola. Soltanto l’8 luglio, al sedicesimo tentativo, viene eletto il candidato socialista: il partigiano Sandro Pertini. Con lui finalmente la Nazionale azzurra avrebbe vinto il titolo.