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La rivolta gentile della Gen Z. Disobbedire per restare umani

L’arte della disobbedienza. Così abbiamo titolato questo nuovo numero di Left cogliendo l’immagine di nuova generazione che rifiuta la guerra, il disumano, l’ingiustizia, che è scesa in piazza contro il genocidio a Gaza e che si manifesta in tanti Paesi per chiedere giustizia sociale e diritti. Protagonisti sono gli attivisti della Gen Z. Per mesi ed anni gli adolescenti sono stati definiti “fragili”, “rinchiusi nei loro smartphone”, incapaci di reagire dopo l’isolamento pandemico. La narrativa dominante li dipingeva come un arcipelago di solitudini, dediti allo scroll più che alla partecipazione politica. Ma era una violenta negazione.

Loro sono stati i primi a manifestare – per la pace, contro il climate change, contro le disuguaglianze, contro ogni forma di violenza ovunque sia perpetrata, in particolare quella contro le donne – e sono stati tacciati di essere ingenui, manipolati, inconsapevoli. Nel caso delle mobilitazioni pro-Palestina, addirittura sono stati bollati come “antisemiti”, “filo-terroristi”, “nemici dell’Occidente”. Invece, come spesso accade nella storia, la realtà è andata in direzione ostinata e contraria.

Nel 2024 e ancor più nel 2025 i movimenti giovanili hanno mostrato qualcosa di inatteso: il risveglio globale di una generazione che non si accontenta di sopravvivere nel precariato, che rifiuta un futuro precario. E lo fa con una lucidità politica che ha smentito tutti gli stereotipi.

In questo numero di Left lo raccontiamo con molti contributi esteri e testimonianze raccolte sul campo. A partire dal racconto della rivolta dei giovani nel Nepal, che hanno costretto il governo corrotto a dimettersi. Ora una nuova governatrice, la giurista ed ex ministra Sushila Karki, è la prima donna a ricoprire questa carica.

L’onda nepalese si è mossa sventolando la bandiera del manga One Piece che abbiamo messo in copertina. Il Jolly Roger dei “Pirati dal cappello di paglia” è diventato un simbolo generazionale di ribellione contro corruzione, censura, nepotismo e privilegi delle élite politiche. In Nepal (come in altre nazioni asiatiche) anime e manga sono molto popolari tra la Gen Z, quindi usare un’icona di One Piece serve a parlare un “linguaggio comune” e a creare un’identità di movimento facilmente riconoscibile. E il loro linguaggio di protesta riecheggia quello che si è levato in varie forme dalle università iraniane alle strade di Antananarivo in Madagascar, dai campus statunitensi alle piazze europee, fino alle metropoli latinoamericane. Analogo ovunque è il loro modo di organizzarsi in modo orizzontale, fluido, facendo rete. Modalità mutuata dal web emulando quello che fu il movimento giovanile di protesta ad Hong Kong dove il motto era “Be water my friend”, “Sii come l’acqua, compagno”. A Hong Kong purtroppo il movimento è stato tacitato dalla repressione cinese attraverso l’imposizione della National security law. Così come molti anni prima, nel 2001, era stato represso con la violenza dalla polizia il movimento new global in Italia. Analoga sorte hanno avuto le primavere arabe del 2011 e in particolare quella di piazza Taharir in Egitto. Ma il fuoco della rivolta non violenta continua ad ardere sotto la cenere, come ci dice il reportage di Luce Lacquaniti dal Cairo, che racconta come la protesta giovanile stia utilizzando strumenti come il fumetto per portare avanti le istanze dei movimenti, cercando di bypassare la censura.

Dalle proteste del 2011 molte cose sono cambiate. E la generazione Z, nata nella cultura digitale – dal Nepal all’Indonesia, dal Marocco (dove il movimento si chiama Gen Z 212, citando il prefisso del Paese) al Messico e oltre – sta mettendo in campo nuove forme di lotta, in modo decentrato, senza leader individuabili, sfidando i servizi di intelligence.

È un fatto nuovo che cerchiamo di leggere e interpretare, anche con l’aiuto di studiosi dei movimenti politici giovanili come l’ordinaria della Scuola Normale Superiore Donatella Della Porta.

In varie parti del mondo, in contesti molto diversi fra loro, racconta la professoressa, i giovani stanno sfidando pacificamente regimi autoritari, repressioni brutali, sorveglianza digitale e campagne diffamatorie costruite ad arte. Gaza è il cuore emotivo e simbolico di questa rivolta non violenta che attraversa i cinque continenti. Ovunque emerge una analoga pretesa che va oltre la sacrosanta richiesta di bisogni materiali necessari per vivere dignitosamente. Oggi i ragazzi chiedono di più.

Il punto ora è capire come queste istanze possano trovare rappresentazione politica. In Nepal, come accennavamo è avvenuto con Karki premier, ma anche in Bangladesh dove è stato chiamato alla guida del Paese, su proposta dei manifestanti, l’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006 per aver creato tramite la sua Grameen Bank sviluppo economico e sociale dal basso, aiutando a ridurre la povertà attraverso il sostegno finanziario a persone emarginate, soprattutto donne, favorendo così anche l’emancipazione femminile. In questi due Paesi asiatici i movimenti giovanili e studenteschi si sono riconosciuti in figure istituzionali assonanti con i propri temi.

In Italia il movimento pro-Pal, che è sceso in piazza con i sindacati di base e partiti della sinistra radicale, sta cercando forme di aggregazione in vista delle elezioni del 2027. L’esperienza degli indignados da cui in Spagna nacque Podemos dice che ci vuole tempo prima che i movimenti conquistino la scena politica. L’importante è sostenerli, anche denunciando le forme di repressione che subiscono dai governi di destra e dall’establishment.

Foto Wp

La vita degli altri

Abbiamo pensato di dedicare questo numero di Left a quella particolare età della vita che è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, perché è sempre il periodo della ribellione. E la ribellione, al costituito, al conosciuto, all’ovvio, alla tradizione per volere qualcosa di diverso e di meglio è senza alcun dubbio il motore del progresso, da intendere come modificazione delle condizioni di vita per renderle più favorevoli alla realizzazione di una vita piena.

È così per ognuno che si trova ad uscire dall’infanzia e a dover iniziare a confrontarsi con un mondo molto complicato: si cerca la propria identità, o forse meglio si cerca di comprendere se stessi, e inevitabilmente ci si trova con la necessità di ribellarsi al costituito per trovare il modo di realizzare qualcosa di personale.

Così come l’identità personale, la ribellione è personale, ognuno la fa a proprio modo. Purtroppo, non sempre riesce. Ma è innegabile che tutti siamo stati dei ribelli, anche solo per il fatto di opporci al comando preoccupato dei genitori che volevano tutelare il nostro benessere, che avevano paura che non fossimo in grado di affrontare le difficoltà o che forse pensavano fossimo ancora bambini e che i bambini non hanno rapporto con la realtà, quando gli abbiamo raccontato qualche bugia per poter essere liberi di fare quel che volevamo.

È una storia che si ripete da sempre e da sempre l’adulto in modo più o meno oppositivo o comprensivo, ostacola e critica il giovane. C’è sempre questo elemento di non capire il loro linguaggio, il loro pensiero, le cose che fanno e che li appassionano. Che può diventare anche un pensiero (falso) che i giovani siano stupidi, non capiscano, non sappiano dei pericoli nascosti nel mondo e negli altri.

Invece dobbiamo essere grati ai più giovani, per il loro pensiero diverso dal nostro, per la loro vitalità indenne dalle nostre delusioni e per la loro resistenza ad un pensiero che li vuole normalizzare.

Dobbiamo prendere esempio da loro e rifiutare il pensiero comune che dice che ormai non c’è più nulla da inventare, che lo stile di vita che abbiamo raggiunto è il migliore possibile e non è pensabile nulla di meglio. Dobbiamo ascoltarli quando ci dicono che vogliono un mondo diverso in cui vivere e un modo diverso di vivere insieme. Ci vogliono dire che deve essere possibile realizzare l’utopia di uno stare insieme che non sia basato sul mors-tua vita-mea e che questo non sia soltanto un fatto materiale ma anche, e forse soprattutto, una questione di pensiero.

Dovremmo trovare il modo di pensare insieme agli altri, ai più giovani e ai più vecchi, trovare il modo di fare una dialettica, parola purtroppo dimenticata dal mondo moderno, per costruire un pensiero nuovo dal confronto di idee. Comprendere gli altri ma allo stesso tempo realizzare un rifiuto di ciò che ci può essere di disumano. Realizzare che è il rapporto con gli altri che ci permette di cambiare, il rapporto che è fondamento della vita umana fin dalla nascita (e per la nascita) e che ogni persona cerca e che, in quanto rapporto, non può e non deve essere per la distruzione dell’altro.

Quello che i giovani propongono è forse di cercare in forma nuova l’universalità dello stare insieme con quello che ne consegue, ovvero della realtà di una uguaglianza di fondo tra tutti gli esseri umani, a prescindere dalla cultura in cui sono nati e cresciuti, e dell’universalità di una dinamica di trasformazione che riguarda tutti.

Per cui nel tempo tutti cambiamo e questo cambiamento può essere evolutivo o regressivo, andare verso un miglioramento, un aumento dell’intelligenza e delle possibilità personali etc. oppure andare verso un peggioramento. Dobbiamo comprendere come il pensiero del mors-tua vita-mea sia un deterioramento del pensiero. Possiamo e dobbiamo quindi opporci ad esso perché non è una realtà originaria e quindi ineluttabile.

La ribellione dei giovani ci ricorda come sia necessario pensare che è e sarà sempre possibile pensare ad un mondo diverso e più bello perché ci sarà sempre chi non si rassegna al falso destino inventato da chi ha fallito la vita, di essere per la morte degli altri.

Foto di Markus Spiske su Unsplash

L’Italia del sospetto: la destra e l’allucinazione gender

In questo Paese il governo vede «gender» ovunque. Basta aprire un libro, accendere la tv, attraversare un corridoio scolastico: per la destra è tutto un complotto di drag queen, “bolla woke” e presunti indottrinamenti. L’ultimo esempio è il disegno di legge sul consenso informato, approvato alla Camera, che vieta l’educazione sessuo-affettiva alle primarie e la subordina all’autorizzazione delle famiglie alle medie e alle superiori.

Il racconto costruito è sempre lo stesso. C’è una minaccia invisibile che incombe sui figli, ci sono “attivisti travestiti da esperti” pronti a colonizzare le scuole e perfino – hanno detto ieri in Aula – «pornoattori che parlano di fluidità sessuale». È una caricatura che funziona: più è irreale, più alimenta paura. E la paura, si sa, è la leva politica preferita da chi non ha altro da offrire.

Il paradosso è che mentre il governo proclama di voler “proteggere i giovani”, i fatti raccontano un’altra urgenza: nelle scuole compaiono liste di stupri, le denunce di violenza aumentano, la cultura del rispetto resta fragile. Ma invece di investire in educazione scientifica e strumenti per riconoscere la violenza, la maggioranza erige un muro ideologico e consegna alle famiglie un potere di veto che svuota l’autonomia scolastica.

Ogni volta che la realtà bussa, rispondono con uno slogan: «Dio, patria e famiglia». Una formula che diventa grimaldello per controllare ciò che si può insegnare e ciò che si deve tacere. Il risultato è una scuola più povera, più impaurita, più ricattabile. Forse è proprio questo il punto: meno conoscenza, più propaganda.

Buon giovedì.

Foto Camera dei deputati

Mario Paciolla, la verità negata. I genitori chiedono una commissione parlamentare per bucare il muro di omertà

Quale Stato non tutela la memoria dei suoi concittadini? Se lo chiedono da cinque anni i genitori di Mario Paciolla, cooperante Onu italiano morto in Colombia il 15 luglio 2020. Ufficialmente si tratterebbe di un suicidio. Il 5 novembre Anna Motta e Pino Paciolla hanno raccontato per l’ennesima volta la storia del figlio, sottolineando i punti oscuri, le ombre e le mille contraddizioni della versione ufficiale. Lo hanno fatto per promuovere la proposta di legge che intende istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul suo caso. Una commissione che, oltre al caso di Mario, dovrà occuparsi anche dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, morto in un agguato in Congo insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustapha Milambo.

Si tratta chiaramente di due vicende distinte, ma con alcuni elementi comuni, primo fra tutti il ruolo non chiaro dell’Onu e di alcuni suoi funzionari. La proposta porta la firma di numerosi parlamentari dei principali partiti d’opposizione. Nessuno interessamento è arrivato, almeno per ora, dai banchi della maggioranza. «Si tratta di un impegno politico e morale non soltanto verso la memoria delle vittime e verso i loro familiari, ma anche verso l’intera società italiana», dichiara l’on. Marco Lombardo, senatore di Azione e primo firmatario della proposta. Durante il suo intervento si appella alle massime cariche dello Stato e al Governo affinché l’iter per l’approvazione venga calendarizzato il prima possibile. Anche i genitori di Mario si uniscono all’appello. «Il diritto alla verità non è un privilegio da riconoscere a qualcuno e non ha colori politici», ammonisce Anna, la madre, durante il suo intervento. E poi aggiunge: «Senza verità muore la giustizia e muore la fiducia nelle istituzioni». Per loro, questa commissione d’inchiesta, rappresenta la speranza di ottenere finalmente le risposte che inseguono da anni.

La battaglia di Anna e Pino per la verità, che mai avrebbero voluto ritrovarsi a combattere, comincia il 15 luglio 2020 con una telefonata. La voce proviene dall’altra parte del mondo e li avverte, in un perfetto italiano, di avere brutte notizie. Mario è stato infatti trovato impiccato quella mattina, con dei tagli sui polsi, a casa sua, in Colombia. Ad annunciare alla coppia la morte del figlio è una donna che si qualifica come un legale delle Nazioni Unite. Senza fornire ulteriori spiegazioni, chiede loro se vogliono la restituzione della salma. «Ci disse che si trattava di una domanda di prassi», racconta Pino. Sarà l’ultima comunicazione che riceveranno dall’ONU. Mario Paciolla, 33 anni, giornalista, originario di Napoli, lavorava in Colombia dal 2016. Prima un periodo con le Brigate Internazionali di Pace, poi dal 2018 con le Nazioni Unite, come osservatore. «Era un professionista, laureato in relazioni internazionali, non uno sprovveduto», chiarisce la madre, «e aveva già esperienza nella cooperazione». Al momento della morte si trovava San Vincente del Caguán, un paese di nemmeno 50000 abitanti. Lì, ai margini della foresta amazzonica, il suo compito era quello di vigilare sul rispetto degli accordi di pace tra il governo colombiano e i guerriglieri delle FARC.

I genitori e gli amici lo ricordano come un ragazzo pieno di vita, animato da un sincero e vivo interesse per il suo lavoro e per la comunità. «Fin dal principio non abbiamo mai creduto che nostro figlio potesse essersi tolto la vita», spiega Anna. A mettere in crisi la versione adottata dalle Nazioni Unite e dalle autorità colombiane è una serie di elementi. Anzitutto ci sono gli ultimi messaggi scambiati dai genitori con il figlio. Mario, infatti, il giorno prima li aveva contatti manifestando l’intenzione di rientrare al più presto in Italia. Aveva già preso anche un biglietto aereo da Bogotà. I genitori riferiscono che mostrava una certa preoccupazione. Voleva lasciare la Colombia. Poi c’è la perizia medica di parte, svolta dal professor Vittorio Fineschi, secondo cui i segni presenti sul collo di Mario sarebbero più compatibili con lo strangolamento che con un tentativo di togliersi la vita impiccandosi. Non è convincente nemmeno la dinamica, come ricostruita dalle autorità colombiane, che appare confusa e contraddittoria. Mario avrebbe dapprima provato a tagliarsi le vene e solo successivamente, con i polsi lacerati, sarebbe salito su una sedia posta sul tavolo per impiccarsi, senza però lasciare macchie di sangue in giro. La famiglia Paciolla e i suoi legali hanno più volte posto all’attenzione della magistratura italiana queste e altre prove, che minano la tesi del suicidio. Subito dopo la notizia della morte la Procura di Roma aveva aperto un fascicolo, disponendo anche un sopraluogo dei R.i.s. in Colombia per ispezionare la scena del crimine.

La casa di Mario però era stata già pulita a fondo con della candeggina e alcune prove fondamentali, come i quaderni del giovane ed altri suoi effetti personali, erano scomparse. Il responsabile della sparizione, secondo la ricostruzione dei legali della famiglia, sarebbe proprio il capo della sicurezza della missione Onu di Mario. Si tratta di Christian Thompson, un ex militare riciclatosi come impiegato dell’Onu, il cui ruolo nella vicenda appare ancora oggi estremamente opaco. Nell’ottobre del 2022, dopo due anni di indagini, il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione. «Non ce lo aspettavamo», ammette il padre, «le tesi della procura erano la copia della ricostruzione fatta dalla polizia colombiana». La stessa polizia sospettata di aver aiutato ad alterare la scena del crimine. Un anno dopo, il giudice per le indagini preliminari accoglie le obiezioni della famiglia e rigetta la richiesta di archiviazione. Secondo il gip l’ipotesi del suicidio destava «numerose perplessità sul piano logico». A giugno del 2024 è arrivata dai magistrati una seconda richiesta di archiviazione, con le stesse motivazioni della prima. Stavolta la richiesta viene accolta. Il 30 giugno 2025, dopo quasi cinque anni dalla morte, il caso di Mario è archiviato. La delusione e la rabbia dei genitori è incontenibile.

«Con il nuovo gip avevamo buone speranze», racconta il padre, «ci sembrava che finalmente si fossero presi nella giusta considerazione tutti gli elementi». «La procura non ha mai indagato a fondo su cosa Mario potesse aver scoperto nel suo lavoro», insiste la madre. Poi si rivolge ai colleghi del figlio all’Onu: «se sapete qualcosa fatevi avanti». Tuttavia, senza nuovi elementi, l’indagine è conclusa. La versione sostenuta dalle autorità colombiane e dalle Nazioni Unite viene accolta e fatta propria anche dalla magistratura italiana. «Siamo coscienti delle difficoltà di individuare i responsabili, ma ci saremmo aspettati che almeno non venisse avallata la storia che Mario si è ammazzato», concludono entrambi. Con l’archiviazione si è chiusa, salvo colpi di scena, la strada giudiziaria. La commissione parlamentare d’inchiesta potrebbe aprire ora la strada politica, forse la più adatta per abbattere le reticenze delle Nazioni Unite e del governo colombiano. Serve soltanto la volontà.

Foto WP

Guarire costa troppo

La povertà non arriva mai da sola. Entra in casa in silenzio, si siede al tavolo, poi comincia a portarsi via i diritti uno alla volta. Prima la qualità del cibo, poi una visita rimandata, poi un farmaco “solo per qualche giorno”. In Italia oggi ci sono più di 500mila persone che non riescono a permettersi nemmeno le cure essenziali: è la fotografia impietosa del nuovo rapporto del Banco Farmaceutico, che segnala un aumento dell’8,4% in un solo anno. È il segnale di una frattura che si allarga. Nel 2024 le famiglie hanno pagato 10,16 miliardi di euro di spesa farmaceutica totalmente di tasca propria, e in sette anni questa quota è cresciuta di oltre il 21%. Significa che il Servizio sanitario nazionale copre sempre meno, mentre il mercato copre sempre di più. E quando il mercato entra nei diritti, i diritti diventano oggetti di consumo. Intanto quasi 3,1 milioni di italiani hanno rinunciato a visite o esami per ragioni economiche. Dietro ogni numero c’è una storia che non fa rumore: un anziano che taglia le compresse per farle durare il doppio, un genitore che sceglie se curarsi o comprare i libri ai figli, un malato cronico che fa i conti con la data di scadenza del conto corrente più che con la data di scadenza del farmaco. La povertà sanitaria non è un settore specialistico: è il barometro dell’uguaglianza. Racconta quanto ci stiamo allontanando dall’idea che la salute sia un diritto e non un premio. Ogni ticket che aumenta è un gradino in più tra chi può e chi non può. Ogni rinuncia è una sconfitta collettiva. E il paradosso è evidente: mentre migliora la medicina, peggiora l’accesso alla medicina. La povertà cresce così, giorno dopo giorno. Senza proclami, senza emergenze dichiarate. È già qui, nei farmaci che molti non comprano più e nei diritti che evaporano mentre fingiamo di non accorgercene.

Buon mercoledì
Foto di freestocks su Unsplash

Educazione affettiva e diritti. La scuola che gli studenti immaginano è molto diversa da quella di Valditara

«Non troviamo risposte concrete nelle istituzioni». Bianca Piergentili, coordinatrice della Rete degli Studenti Medi del Lazio, non usa mezzi termini durante la presentazione della campagna “Scuola si-cura” alla Città dell’altra economia di Roma a Testaccio. «Lo abbiamo ripetuto anche oggi: non ci sono misure concrete, ci sono dichiarazioni spot fatte per rispondere a problemi che si leggono sui giornali ma che non trovano applicazione nel mondo delle scuole. Il ministro Valditara decide di punire invece di capire, invece di dialogare con noi studenti e studentesse su come costruire una scuola diversa». La denuncia è forte e chiara e rappresenta la posizione del movimento studentesco che punta il dito anche e soprattutto contro un sistema scolastico incapace di affrontare con strumenti adeguati la piaga della violenza di genere e delle discriminazioni che avvengono quotidianamente nelle aule. La campagna della Rete chiede l’adozione di un codice di condotta contro le molestie in tutte le scuole, uno strumento che definisca chiaramente i comportamenti lesivi della dignità di studenti e studentesse. Un richiamo reso ancora più urgente dal recente caso della inquietante e abominevole “lista stupri” ritrovata nel liceo Giulio Cesare di Roma, che ha scosso l’opinione pubblica e riacceso i riflettori su un fenomeno troppo spesso sottovalutato o ignorato. Il progetto della Rete degli Studenti Medi nasce da un’indagine condotta direttamente tra i banchi attraverso questionari distribuiti agli studenti e alle studentesse. «Abbiamo voluto partire dall’ascolto dei nostri compagni e delle nostre compagne», ha spiegato Chiara della Rete, studentessa, durante il suo intervento. I risultati sono allarmanti e fotografano una realtà che non può più essere negata: una ragazza su quattro ha dichiarato di aver subito molestie da coetanei o adulti, e la maggior parte non ha ricevuto alcun aiuto nel momento in cui ne aveva più bisogno. Il codice proposto elenca in modo dettagliato diverse forme di violenza: molestie sessuali e morali, atti vessatori, delegittimazioni, emarginazione, discriminazioni e mobbing.

Un elenco preciso e puntuale che non lascia spazio a interpretazioni ambigue né a sottovalutazioni di comportamenti che ledono la serenità e la dignità delle studentesse e degli studenti. Accanto al codice di condotta, la Rete degli Studenti chiede con forza l’introduzione obbligatoria dell’educazione sessuo-affettiva in tutte le scuole, una battaglia che da anni viene portata avanti con determinazione. L’educazione all’affettività e alla sessualità consapevole è infatti fondamentale per prevenire la violenza di genere, per costruire relazioni basate sul rispetto reciproco e sul consenso, per abbattere stereotipi e ruoli di genere che alimentano dinamiche tossiche e pericolose. «La nostra società è basata su un sistema patriarcale tossico e la scuola rispecchia le storture del paese», ha dichiarato Ethan illustrando i dettagli della campagna. «Vogliamo una scuola che curi la società, che educhi le nuove generazioni per interrompere il ciclo di violenza che va avanti da troppo tempo».

«Cerchiamo di costruire consapevolezza con gli studenti e le studentesse», spiega Piergentili, «perché per cambiare le cose servono studenti e studentesse consapevoli, solo così si può avere un vero cambiamento. Partiamo da questo, provando a portare quella concretezza che oggi manca nelle istituzioni all’interno delle scuole». Non è infatti la prima volta che la Rete porta le proprie vertenze direttamente negli istituti, come il congedo mestruale o i regolamenti Alias. «Ci arrivano esperienze e racconti di come queste misure cambino la vita degli studenti e delle studentesse, ci fanno sentire che c’è un vero cambiamento e per la prima volta lo portiamo direttamente noi. Per questo abbiamo deciso di fare una conferenza stampa in cui parliamo solo noi, gli studenti e le studentesse, perché sentivamo il bisogno di riprenderci lo spazio mediatico che molto spesso ci viene tolto». È una rivendicazione di protagonismo quella che emerge dalle parole della coordinatrice della Rete, la richiesta legittima di essere ascoltati e ascoltate da chi ogni giorno prende decisioni che riguardano il loro futuro e la loro quotidianità scolastica. Durante l’iniziativa hanno portato la loro testimonianza anche due rappresentanti dei senati accademici di RomaTre e Sapienza, atenei dove i codici contro le molestie sono già stati approvati o sono in via di approvazione. «Il nostro lavoro è iniziato un anno fa con un’indagine che ha raccolto 700 segnalazioni», ha raccontato Camilla Marconi dal senato accademico di RomaTre. I dati emersi sono preoccupanti: il 22% degli intervistati e delle intervistate ha subito molestie o discriminazioni, in oltre la metà dei casi da parte di tutor, professori o assistenti. Il 70% delle vittime non ha mai denunciato quanto subito, un silenzio che racconta la paura, la vergogna, ma anche la sfiducia verso istituzioni percepite come incapaci di offrire protezione e giustizia. «Abbiamo lavorato con avvocati e giuriste su un codice che prevenga le discriminazioni, protegga le vittime attraverso procedure specifiche e promuova relazioni rispettose», ha spiegato Marconi.

Anche alla Sapienza il codice è stato rinnovato il 25 novembre scorso. «Oggi, anche con le riforme, il ruolo del dirigente è andato verso quello di un dirigente d’azienda invece che verso un ruolo appropriato per un luogo di formazione e conoscenza come dovrebbe essere la scuola», denuncia Piergentili. «Questo si riflette anche nelle decisioni che vengono portate avanti da molti dirigenti dentro le scuole». Tra le altre richieste figura l’approvazione del congedo mestruale e la creazione di un fondo per distributori di assorbenti gratuiti. L’appello è rivolto al ministro Valditara, che non si è presentato all’iniziativa, e alla Regione Lazio. Tra le battaglie della Rete c’è anche l’approvazione dei regolamenti Alias senza obbligo di diagnosi di disforia di genere. «Abbiamo invitato la ministra Roccella e chiunque mette bocca sulla scuola», conclude Piergentili. «Vogliamo rendere queste proposte nazionali e lo faremo».

Foto RSM

Essere Sumud

Ci sono battaglie che resistono perché trovano un corpo collettivo in cui abitare. La Global Sumud Flotilla, finora, ha funzionato per questo: attorno a Gaza si è costruita una comunità. Le persone l’hanno scelta come specchio del mondo in cui vivono, come termometro delle cose che non vogliono più accettare. L’emozione è stata la scintilla. Poi sono arrivate la pratica politica, lo studio, l’informazione ostinata.

Adesso però il tempo cambia. I giornali non inseguono più la capitalizzazione del dolore. Lo faranno sempre meno. I politici stenderanno il fondotinta della tregua per parlarne il minimo indispensabile. Gli eventi si diraderanno. E proprio qui si misura la stoffa del Sumud: la perseveranza quando l’attenzione occidentale tenta la fuga.

Per questo conviene guardare già alla prossima missione. Entro i primi mesi del 2026 la Flotilla ci riproverà, ma via terra: una carovana di aiuti tenterà di raggiungere Rafah dall’Egitto, sfidando il Sinai militarizzato, i permessi che si inceppano a ogni checkpoint, le procedure che tengono ferme le tonnellate di materiali bloccati in Giordania da settimane . Il Cogat israeliano continua a decidere cosa entra e quando. Il valico di Rafah resta più un’ipotesi che un luogo.

È un progetto ambizioso, fragile, pieno di ostacoli. Proprio per questo è necessario. Perché il filo che tiene insieme questa mobilitazione globale è la capacità di non lasciarsi addomesticare dalla distanza né dalle attese. Sumud vuol dire tenere il punto. E il punto, oggi, è non permettere che l’assedio venga normalizzato nel silenzio.

Buon martedì.

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Il ministro del “copiavo a scuola” sbaglia ancora compito in classe

Matteo Salvini ha passato mesi a ripetere che in Italia ci sarebbe “il 10% degli autovelox del mondo”, undicimila, tredicimila, una “giungla” da domare. Poi arriva il suo stesso censimento ufficiale e lo smentisce senza pietà: gli apparecchi reali sono 3.625, un terzo della favola ripetuta in ogni comizio, come certificano Asaps e Associazione Lorenzo Guarnieri. Altro che record mondiale: Francia e Inghilterra ne hanno probabilmente di più, Svizzera e Austria ne hanno di più in proporzione.

Il ministro aveva costruito una guerra ideologica sul nulla. Ma il bello arriva quando si scopre che i problemi veri non sono nemmeno quelli agitati dalla propaganda: nessun autovelox in Italia è formalmente omologato, perché il decreto attuativo non esiste. Lo stallo dura da anni e Salvini, pur evocando la parola “omologazione” come un mantra, non l’ha risolto: a marzo aveva annunciato un decreto, salvo ritirarlo due giorni dopo. Intanto oltre il 60% degli apparecchi fissi è stato approvato prima del 2017, e la valanga di ricorsi cresce.

È qui che torna utile ricordare l’altra confessione pubblica del vicepremier, quella fatta qualche giorno fa in un comizio: «A scuola copiavo, sempre che il compagno non fosse infame». In fondo, lo schema è rimasto lo stesso. L’importante è avere una frase pronta, poco importa che sia vera, verificabile o utile a chi guida davvero sulla strada.

Forse al ministro converrebbe telefonare a quel suo amico da cui copiava a scuola per ricominciare a farlo ed evitarsi brutte figure.

Buon lunedì. 

L’inverno a Gaza. Una testimonianza dal campo di Al-Zahraa

La cosa va così: mia figlia Eloisa, fotoreporter, si iscrive a un gruppo Whatsapp che raccoglie informazioni e fondi per i palestinesi rinchiusi a Gaza sotto le bombe. E bomba dopo bomba, dal gruppo (nomi arabi e nomi europei) cominciano ad emergere delle persone, e una di queste, avendo ricevuto una piccola somma di denaro che abbiamo raccolto, scrive per ringraziare. Nel trascorrere dei giorni lo sconosciuto (è un uomo, e si chiama Salah Al-Wali), si trasforma in un individuo preciso: uno fra i tanti palestinesi fortunosamente sopravvissuti ai bombardamenti. A quale prezzo, lo immaginavamo ma ce lo farà capire meglio, con parole accorate, e immagini drammatiche. Salah, che non smette di ringraziare ad ogni messaggio (in uno dei primi manda la foto di un piatto di cuscus con carne, e scrive: “grazie a voi oggi tutta la nostra famiglia ha fatto un vero pasto”), incomincia, con timidezza, a raccontarci la sua vita. Uno degli anonimi gazawi, si trasforma in un essere umano, con un patrimonio di sentimenti idee speranze, e una vita che la “guerra” ha devastato irrimediabilmente. Ma non si abbatte, cerca di esercitare e diffondere il “sumud”, la resilienza, e anche in un panorama di devastazione e morte tesse fili, rianimando il centro sportivo Al-Zahra Center Sports Club, che ha fondato, luogo di incontro e di aggregazione per adolescenti e giovanetti.

Salah è un vigoroso quarantenne, poeta e critico letterario, fotografo e organizzatore culturale, sposato con una farmacista: la coppia ha cinque figli. È nato nel campo di Jabalia, quello su cui Edward Said scrisse pagine indimenticabili dove i rifugiati vivevano una condizione come gli disse uno di loro di silenziosa attesa della fine: era la “morte lenta” che i bombardamenti dell’IDF hanno trasformato in morte rapida. La famiglia si è salvata, interamente, ma la loro casa, il nido dove si svolgeva la vita di sette persone, è stato distrutto, e da allora quei due adulti e cinque ragazzini si arrangiano fra tende e ospitalità presso conoscenti. Dice di sé: “Porto la mia lingua come porto la ferita della mia patria, trasformando il dolore in poesia che riflette la nostra realtà, dove le emozioni si mescolano ai luoghi, il desiderio si intreccia alla sofferenza e la pioggia si confonde con la guerra”.

E continua: “Prima del 7 ottobre, l’inverno era per me fonte di gioia e tranquillità. Quando cadeva la pioggia, correvo alla finestra a guardare le strade brillare, gli alberi respirare vita, e il freddo avvolgersi di un gusto di calore tra le case. Sentivo le risate dei bambini e li vedevo danzare sotto la pioggia…”. E ancora: “L’inverno era una musica nascosta che accarezzava il mio cuore come una madre premurosa, e mi avvolgevo nelle nostre coperte calde guardando la pioggia e sognando un domani pieno di sicurezza e gioia”.

I bombardamenti fortunosamente salvano l’edificio della famiglia, e quando giungono le notizie della tregua ormai certa, per loro come per tutti è un enorme sospiro. Il sogno della pace. Poi, d’improvviso, nella notte del 20 ottobre (2025!), militari dell’IDF ingiungono agli abitanti del quartiere Al-Zahra di lasciare le loro case, non concedendo loro neppure il tempo di portare coperte o effetti personali. Ben 24 edifici residenziali vengono distrutti in poche ore, e scrive Salah, “davanti ai nostri occhi, lasciandoci allo scoperto, a guardare la nostra sicurezza crollare e i nostri ricordi bruciare”.

Con le luci del giorno la famiglia Al-Wali è in fuga: non hanno più casa, e si apprestano a cercare rifugio in tende, aggirandosi tra macerie, alberi spezzati, vetri infranti “e una paura che avvolge”. E piove, piove, piove senza sosta.

Durante questi terribili due anni, l’inverno è arrivato due volte. Nelle tende, l’acqua, quando piove, filtra dentro, e loro ammucchiano sacchi di sabbia ai bordi come ultima linea di difesa. Ma il vento strappa il nylon e il tessuto, l’acqua raggiunge le coperte dei bambini e Salah, affranto, è colpito da un senso di impotenza che, scrive, “divora il mio cuore”, ma aggiunge, con doloroso orgoglio, “il mio dovere di padre non mi permette di arrendermi”. Desta i bambini e partono tutti in cerca di una tenda “più sicura”, correndo sotto la pioggia, sperando almeno di salvare lenzuoli e coperte, quelli non ancora fradici per l’acqua. Ricorda quei momenti nei quali sentiva “ogni goccia di pioggia come se rubasse il mio senso di sicurezza e calma”, e ogni passo era “una lotta tra il desiderio di proteggere e la crudeltà di una realtà implacabile”.

Tuttavia, anche nella nuova tenda, quando finalmente si addormenta, ha un incubo: vede l’acqua filtrare sotto le coperte dei suoi figli e trascinarli via, si risveglia, si riaddormenta, e l’incubo si riaffaccia. Quel capofamiglia disperato, ma non vinto, pensa “di riunirli tutti in un unico letto e coprirli con tutte le coperte invece di darne una sottile a ciascuno”. E non sa quale sia la soluzione migliore mentre l’acqua non smette di cadere.

L’umido, il freddo, l’angoscia hanno trasformato l’inverno da “fonte di gioia”, in un incessante “incubo che divora corpo e anima”. Non ci sono più le risate dei bimbi, sostituite da lamenti e grida, e i genitori non riescono a restituire ai figli una pur minima serenità: “la gioia si è trasformata in ansia, la tranquillità in paura, e la speranza in dolore continuo”.

Salah scrive queste righe in situazioni di fortuna, mentre la pioggia allaga la tenda sua, quelle dei vicini, e la quasi totalità delle tende del campo, nel quale, però, la prima preoccupazione non è l’acqua dal basso ma le bombe dall’alto, perché a dispetto della “tregua”, non c’è pace a Gaza. E il mondo – quello dei potenti – appare distratto, e finge di credere alla “fine della guerra”; il mondo, lontano da quella pioggia, da quelle tende infracidite, da quelle bombe che forse non cadono più ogni notte, ma sono lì come una terribile spada di Damocle. E ogni notte di pioggia ricorda a Salah che la guerra non è affatto finita, la guerra “che non ha rubato soltanto le nostre case, ma anche una parte di me e dell’infanzia dei miei figli, trasformando l’inverno in un incubo senza fine”.

Testo di Angelo d’Orsi, foto di Salah Hasan

Irene Vella: «Il femminicidio non è un’emergenza. È un sistema»

La cattiva notizia è che, in Italia e nel mondo, le donne continuano a essere uccise. Nel nostro Paese, nell’82% dei casi l’assassinio si consuma in ambito familiare; nel 60% dei casi, l’omicida è il partner o ex partner. La buona notizia è che tutti i numeri sono in miglioramento: nei primi nove mesi del 2025 i femminicidi in Italia sono stati 73 (-20% rispetto allo stesso periodo del 2024). In sensibile riduzione anche gli omicidi familiari di donne (-24%). I femminicidi a opera di partner, o ex, sono passati da 48 a 44 (-8%).Le donne muoiono numericamente meno degli uomini, ma lo fanno prevalentemente in ambito familiare e affettivo e soprattutto per mano di partner o ex. Al ritmo di una alla settimana. Sempre una di troppo.Ma cosa si può fare per arrestare questo fenomeno che rappresenta una piaga sociale e una vergogna civile?

Prova a dare il suo contributo Irene Vella. Giornalista, scrittrice e content creator con il libro Era mia figlia. Per ritrovare le voci delle donne che abbiamo perduto (Solferino).

Irene, come nasce l’idea del libro?

Nasce da una mancanza enorme: la voce di chi non c’è più. In ogni femminicidio parlano tutti – giornali, tribunali, vicini, perfino gli assassini – tranne loro. Le vittime vengono zittite due volte: prima dalla violenza, poi dal racconto che le riduce a un fatto di cronaca. Un giorno mi sono detta: E se potessi restituire la voce a queste ragazze? Se potessero tornare a raccontare chi erano, e non solo come sono state uccise?” Così è nato Era mia figlia: dai 66 milioni di visualizzazioni in due mesi sui social, dall’urgenza collettiva di ascoltare, e dal mio bisogno di trasformare il dolore in un servizio. Io so fare una cosa: scrivere. E ho deciso di mettere la mia penna al servizio di chi non può più parlare».

Quali storie ti hanno turbato di più?

Sono tutte devastanti, ma ce ne sono due che mi hanno colpita nel punto più fragile: Sofia Castelli e il piccolo Daniele. La storia di Sofia mi ha spezzata, perché i miei figli hanno la sua stessa età. Sofia era nel letto della sua camera, il luogo più sicuro del mondo. Era appena rientrata, aveva rassicurato la mamma con un messaggio – “Mamma, tranquilla, sono a casa” – e poi si era addormentata. Nell’altra stanza c’era la sua amica del cuore: avevano parlato, riso, condiviso quella normalità che appartiene ai vent’anni. Quello che nessuno poteva immaginare era che il suo ex si fosse nascosto nell’armadio per sette ore, aspettando il momento giusto. Quando Sofia dormiva, lui è uscito e l’ha uccisa. Poi è scappato ed è stato arrestato più tardi. La mattina dopo, la sua amica l’ha trovata riversa nel sangue. Una scena che non si dimentica. La storia del piccolo Daniele è una ferita che non si rimarginerà mai. Un bambino di sette anni, un padre con un codice rosso attivo, un uomo che aveva già tentato di uccidere un collega. Daniele che fa gli aeroplanini con scritto “Ti voglio bene, papà”. Lui lo fa girare di spalle, gli taglia la gola e gli dice: “Fanne uno anche per il nonno.” Poi nasconde il suo corpo nell’armadio e va da Silvia, la madre, per uccidere anche lei. Queste due storie mi fanno male fisicamente. Perché mostrano una ferocia lucida, premeditata.E soprattutto urlano che questi non sono raptus: sono fallimenti del sistema, segnali ignorati, allarmi rimasti inascoltati.

Che sollievo ne hanno ricavato le famiglie?

Il sollievo, quando perdi una figlia, non esiste. Esiste però un respiro. Una dignità restituita. Molte famiglie, leggendo il monologo, mi hanno detto: “Per un attimo l’hai riportata qui con noi.” Questa frase vale tutto. Perché le loro figlie non diventano un trafiletto, non diventano una statistica, non vengono archiviate. Diventano memoria. E la memoria è una forma di giustizia.

C’è una storia in cui ti riconosci?

Mi riconosco in tutte. Non perché io abbia vissuto quello che hanno vissuto loro, ma perché anch’io conosco il dolore, la fragilità, la paura di perdere chi ami. Mi riconosco nelle madri che stringono una foto, nelle sorelle costrette a essere forti, nelle donne che hanno chiesto aiuto e non sono state ascoltate. E mi riconosco nel bisogno di dare un senso al dolore.

Io ho trasformato il mio, quello vissuto con la malattia di mio marito Luigi, quello che ti cambia la prospettiva, in un atto di servizio. Per questo dico sempre che questo libro non l’ho scritto io: lo hanno scritto loro, attraverso me».

Come hai scelto le storie?

In realtà è stato più vero il contrario: sono state le storie a scegliere me. Alcune mi sono venute incontro da sole: da una foto, da un racconto, da un servizio televisivo. Gli occhi di Sofia mi si sono entrati dentro la prima volta che li ho visti: profondi, maturi, pieni di vita. Di Chiara ho visto subito il sorriso, un sorriso che apriva il mondo, e poi il suo arco con le frecce, la sua passione, il suo amore per il papà. Daniele aveva un sorriso pazzesco, un sorriso che ti entra dentro senza chiedere permesso. Di Giulia mi ha catturata la dolcezza, quella purezza che traspariva dallo sguardo. Carol mi parlava attraverso la solitudine dei suoi occhi. E Marisa, con quegli occhi che brillavano, era luce pura. Queste ragazze e questi ragazzi non sono numeri, non sono casi, non sono articoli di cronaca. Sono volti. Sono sguardi. Sono sorrisi. E quando quegli occhi ti guardano, anche solo in una foto, non puoi far finta di niente. Io non le ho scelte davvero. Le ho incontrate, ascoltate e accolte.

Cosa si può fare a livello personale per prevenire i femminicidi?

La prevenzione non comincia quando una donna denuncia. Comincia molto prima. A livello personale possiamo: credere alle donne quando parlano, non minimizzare gelosia, controllo, isolamento, smettere di romanticizzare il possesso, educare i ragazzi al rispetto, non alla conquista, insegnare alle ragazze che i confini del proprio corpo sono sacri e non devono essere giustificati.La prevenzione inizia nelle parole, nei gesti, nella cultura quotidiana.

E a livello istituzionale? Scuole, Stato, politica?

Occorre una rivoluzione culturale, non un cerotto.Servono:programmi obbligatori di educazione affettiva nelle scuole, dalle elementari, più centri antiviolenza e finanziamenti stabili, non emergenziali, formazione obbligatoria e continua per forze dell’ordine, magistrati, insegnanti, tempi rapidi per applicare le misure cautelari, una rete reale di protezione per chi denuncia: case rifugio, sostegno psicologico, indipendenza economica, una banca dati nazionale aggiornata e completa, campagne istituzionali permanenti, non solo il 25 novembre. Il femminicidio non è un’emergenza. È un sistema. E un sistema si cambia solo con educazione, cultura e coraggio politico.

L’autrice dell’intervista: Lucia Tilde Ingrosso è autrice di molti volumi ed è nota anche per la sua fortunata serie di gialli dell’ispettore Rizzo. Da poco sono usciti per Baldini e Castoldi I Monteleone e Le stagioni della verità. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo biografico Anna Politkovskaja. Per left ha scritto Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja

 

 

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