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Irene Vella: «Il femminicidio non è un’emergenza. È un sistema»

La cattiva notizia è che, in Italia e nel mondo, le donne continuano a essere uccise. Nel nostro Paese, nell’82% dei casi l’assassinio si consuma in ambito familiare; nel 60% dei casi, l’omicida è il partner o ex partner. La buona notizia è che tutti i numeri sono in miglioramento: nei primi nove mesi del 2025 i femminicidi in Italia sono stati 73 (-20% rispetto allo stesso periodo del 2024). In sensibile riduzione anche gli omicidi familiari di donne (-24%). I femminicidi a opera di partner, o ex, sono passati da 48 a 44 (-8%).Le donne muoiono numericamente meno degli uomini, ma lo fanno prevalentemente in ambito familiare e affettivo e soprattutto per mano di partner o ex. Al ritmo di una alla settimana. Sempre una di troppo.Ma cosa si può fare per arrestare questo fenomeno che rappresenta una piaga sociale e una vergogna civile?

Prova a dare il suo contributo Irene Vella. Giornalista, scrittrice e content creator con il libro Era mia figlia. Per ritrovare le voci delle donne che abbiamo perduto (Solferino).

Irene, come nasce l’idea del libro?

Nasce da una mancanza enorme: la voce di chi non c’è più. In ogni femminicidio parlano tutti – giornali, tribunali, vicini, perfino gli assassini – tranne loro. Le vittime vengono zittite due volte: prima dalla violenza, poi dal racconto che le riduce a un fatto di cronaca. Un giorno mi sono detta: E se potessi restituire la voce a queste ragazze? Se potessero tornare a raccontare chi erano, e non solo come sono state uccise?” Così è nato Era mia figlia: dai 66 milioni di visualizzazioni in due mesi sui social, dall’urgenza collettiva di ascoltare, e dal mio bisogno di trasformare il dolore in un servizio. Io so fare una cosa: scrivere. E ho deciso di mettere la mia penna al servizio di chi non può più parlare».

Quali storie ti hanno turbato di più?

Sono tutte devastanti, ma ce ne sono due che mi hanno colpita nel punto più fragile: Sofia Castelli e il piccolo Daniele. La storia di Sofia mi ha spezzata, perché i miei figli hanno la sua stessa età. Sofia era nel letto della sua camera, il luogo più sicuro del mondo. Era appena rientrata, aveva rassicurato la mamma con un messaggio – “Mamma, tranquilla, sono a casa” – e poi si era addormentata. Nell’altra stanza c’era la sua amica del cuore: avevano parlato, riso, condiviso quella normalità che appartiene ai vent’anni. Quello che nessuno poteva immaginare era che il suo ex si fosse nascosto nell’armadio per sette ore, aspettando il momento giusto. Quando Sofia dormiva, lui è uscito e l’ha uccisa. Poi è scappato ed è stato arrestato più tardi. La mattina dopo, la sua amica l’ha trovata riversa nel sangue. Una scena che non si dimentica. La storia del piccolo Daniele è una ferita che non si rimarginerà mai. Un bambino di sette anni, un padre con un codice rosso attivo, un uomo che aveva già tentato di uccidere un collega. Daniele che fa gli aeroplanini con scritto “Ti voglio bene, papà”. Lui lo fa girare di spalle, gli taglia la gola e gli dice: “Fanne uno anche per il nonno.” Poi nasconde il suo corpo nell’armadio e va da Silvia, la madre, per uccidere anche lei. Queste due storie mi fanno male fisicamente. Perché mostrano una ferocia lucida, premeditata.E soprattutto urlano che questi non sono raptus: sono fallimenti del sistema, segnali ignorati, allarmi rimasti inascoltati.

Che sollievo ne hanno ricavato le famiglie?

Il sollievo, quando perdi una figlia, non esiste. Esiste però un respiro. Una dignità restituita. Molte famiglie, leggendo il monologo, mi hanno detto: “Per un attimo l’hai riportata qui con noi.” Questa frase vale tutto. Perché le loro figlie non diventano un trafiletto, non diventano una statistica, non vengono archiviate. Diventano memoria. E la memoria è una forma di giustizia.

C’è una storia in cui ti riconosci?

Mi riconosco in tutte. Non perché io abbia vissuto quello che hanno vissuto loro, ma perché anch’io conosco il dolore, la fragilità, la paura di perdere chi ami. Mi riconosco nelle madri che stringono una foto, nelle sorelle costrette a essere forti, nelle donne che hanno chiesto aiuto e non sono state ascoltate. E mi riconosco nel bisogno di dare un senso al dolore.

Io ho trasformato il mio, quello vissuto con la malattia di mio marito Luigi, quello che ti cambia la prospettiva, in un atto di servizio. Per questo dico sempre che questo libro non l’ho scritto io: lo hanno scritto loro, attraverso me».

Come hai scelto le storie?

In realtà è stato più vero il contrario: sono state le storie a scegliere me. Alcune mi sono venute incontro da sole: da una foto, da un racconto, da un servizio televisivo. Gli occhi di Sofia mi si sono entrati dentro la prima volta che li ho visti: profondi, maturi, pieni di vita. Di Chiara ho visto subito il sorriso, un sorriso che apriva il mondo, e poi il suo arco con le frecce, la sua passione, il suo amore per il papà. Daniele aveva un sorriso pazzesco, un sorriso che ti entra dentro senza chiedere permesso. Di Giulia mi ha catturata la dolcezza, quella purezza che traspariva dallo sguardo. Carol mi parlava attraverso la solitudine dei suoi occhi. E Marisa, con quegli occhi che brillavano, era luce pura. Queste ragazze e questi ragazzi non sono numeri, non sono casi, non sono articoli di cronaca. Sono volti. Sono sguardi. Sono sorrisi. E quando quegli occhi ti guardano, anche solo in una foto, non puoi far finta di niente. Io non le ho scelte davvero. Le ho incontrate, ascoltate e accolte.

Cosa si può fare a livello personale per prevenire i femminicidi?

La prevenzione non comincia quando una donna denuncia. Comincia molto prima. A livello personale possiamo: credere alle donne quando parlano, non minimizzare gelosia, controllo, isolamento, smettere di romanticizzare il possesso, educare i ragazzi al rispetto, non alla conquista, insegnare alle ragazze che i confini del proprio corpo sono sacri e non devono essere giustificati.La prevenzione inizia nelle parole, nei gesti, nella cultura quotidiana.

E a livello istituzionale? Scuole, Stato, politica?

Occorre una rivoluzione culturale, non un cerotto.Servono:programmi obbligatori di educazione affettiva nelle scuole, dalle elementari, più centri antiviolenza e finanziamenti stabili, non emergenziali, formazione obbligatoria e continua per forze dell’ordine, magistrati, insegnanti, tempi rapidi per applicare le misure cautelari, una rete reale di protezione per chi denuncia: case rifugio, sostegno psicologico, indipendenza economica, una banca dati nazionale aggiornata e completa, campagne istituzionali permanenti, non solo il 25 novembre. Il femminicidio non è un’emergenza. È un sistema. E un sistema si cambia solo con educazione, cultura e coraggio politico.

L’autrice dell’intervista: Lucia Tilde Ingrosso è autrice di molti volumi ed è nota anche per la sua fortunata serie di gialli dell’ispettore Rizzo. Da poco sono usciti per Baldini e Castoldi I Monteleone e Le stagioni della verità. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo biografico Anna Politkovskaja. Per left ha scritto Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja

 

 

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L’uccisione di Younes a Voghera, quattro anni dopo: la verità che smentisce Salvini

A Voghera ci sono voluti più di quattro anni perché la cronaca tornasse a chiamare le cose con il loro nome. Il procuratore Fabio Napoleone ha chiesto undici anni per omicidio volontario a Massimo Adriatici, l’ex assessore-sceriffo che la sera del 20 luglio 2021 sparò un colpo di pistola al petto di Younes El Boussettaoui. Non una reazione istintiva, non un eccesso maldestro: un’azione volontaria, dice oggi l’accusa. E in questa definizione crolla l’intero racconto politico costruito allora attorno al delitto.

Perché quella notte, prima ancora che si capisse cosa fosse accaduto, Matteo Salvini e la Lega erano già sul luogo del delitto mediatico. «Un uomo per bene aggredito», «legittima difesa», «un caso chiaro»: dichiarazioni consegnate alla stampa quando il corpo era ancora sull’asfalto. Il copione era lo stesso di sempre: assolvere il militante, demonizzare il morto, chiudere la discussione prima che i fatti la aprissero. La vittima venne subito presentata come “molesta”, “nota alle forze dell’ordine”, utile a trasformare un omicidio in un incidente inevitabile.

Ora però le parole del pm riportano la vicenda nella sua nudità: Adriatici sarebbe uscito di casa per una ronda armata, avrebbe pedinato El Boussettaoui e avrebbe sparato con il colpo già in canna. La politica che allora correva a difenderlo, oggi tace. È il silenzio di chi sa che la propaganda ha il fiato corto, mentre la giustizia – quando riesce – restituisce alle storie il loro peso.

E in quel peso c’è un uomo morto, una comunità ferita e un Paese che non può permettersi assessori con la pistola e leader pronti a trasformare ogni ombra in una campagna elettorale.

Buon giovedì. 

Il prezzo della retromarcia: le donne

La maggioranza è tornata a giocare con i politicismi sulla pelle delle donne. La retromarcia improvvisa sul ddl consenso non nasce da un ripensamento giuridico, ma da una manovra di potere preparata con cura: il veto di Matteo Salvini, concordato con Giulia Bongiorno e imposto al governo attraverso il capogruppo Massimiliano Romeo, che arriva a minacciare di votare contro pur di bloccare il testo già approvato alla Camera. È l’effetto delle regionali: l’euforia per il risultato in Veneto diventa un’arma per aprire una crepa a Palazzo Chigi e costringere Giorgia Meloni a piegarsi.

Nel racconto che la premier fa a Elly Schlein, durante una telefonata resa necessaria dall’imbarazzo, c’è tutta la misura del cortocircuito: Meloni ammette che la maggioranza sul testo non c’era più, che Romeo aveva chiuso ogni spazio, che andare avanti avrebbe certificato una frattura insanabile. Eppure la legge era quella su cui la presidente del Consiglio aveva messo la faccia, quella che avrebbe dovuto segnare un passo avanti contro la violenza sulle donne, nel giorno stesso in cui il Parlamento approvava il reato autonomo di femminicidio.

Intorno, la destra sovranista alimenta la pressione: editorialisti di riferimento come Nicola Porro e Giuseppe Cruciani attaccano il ddl dipingendolo come una minaccia alla “libertà maschile”, con toni che rimbalzano nelle chat dei parlamentari e diventano un alibi politico per la frenata. Salvini fiuta l’occasione, interpreta il malumore del suo elettorato e pianta la bandiera. Meloni resta schiacciata: se insiste, perde la Lega; se cede, perde credibilità.

Il risultato è che la tutela delle donne viene sospesa in attesa dei rapporti di forza interni alla maggioranza. Tutto questo senza uno straccio di discussione nel merito. Solo braccio di ferro. Tutto calcolo. L’ennesima dimostrazione che, per questo governo, persino il consenso sessuale può diventare una moneta negoziabile.

Buon mercoledì. 

Femminicidio: il maschilismo che uccide ogni giorno

Il nesso tra maschilismo e violenza contro le donne è centrale per ogni analisi sul “femmicidio”. Dove l’omicidio rappresenta il culmine da delirio di possesso che nel dare la morte ne decreta il potere più assoluto.

Si tratta di un omicidio di genere, come lo definì la criminologa Diana Russell, che nel 1974 aveva avuto un ruolo fondamentale per l’istituzione di un Tribunale internazionale sui Crimini contro le Donne a Bruxelles nel palazzo del Congresso. E qui, due anni dopo, davanti a oltre duecento donne dei più diversi paesi del mondo, questa grande esponente del femminismo mondiale affermava: «femmicidio («femicide») è l’omicidio di femmine in quanto femmine operato da maschi».

La Russell evidenziava la fenomenologia sociale di questo crimine, conseguenza del modello simbolico di donna frutto di sessismo e misoginia.

Nel 1992 nel libro-antologia Femicide. The Politics of Woman Killing, ricostruendo anche le esperienze delle lotte degli anni Settanta, Diana Russel nella introduzione scrive: «Il termine femicide va ben oltre la definizione giuridica di assassinio, in quanto deve includere le situazioni in cui la morte della donna configura il risultato/la conseguenza di comportamenti o pratiche sociali misogine».

Su questa strada, per una più strutturale e ampia definizione dei comportamenti da considerare nella categoria sociologica di femminicidio, restano fondamentali le osservazioni dell’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde, che nei suoi scritti e conferenze, denuncia le responsabilità socio-istituzionali che, tra silenzi e connivenze, alimentano la subcultura della trama di violenze verso le donne:

Eccone un esempio, in occasione della sua conferenza del 12 gennaio 2006 all’università di Oviedo: «Nella società si accetta che ci sia violenza sulla donna. Una violenza che la società ignora, zittisce, oscura, sminuisce, normalizzando la violenza contro le donne. E a loro volta le comunità (famiglia, quartiere e le diverse forme di organizzazione sociale) minimizzano questa violenza, adottando e promuovendo meccanismi violenti di relazione comportamentale con le donne. L’organizzazione sociale è tale che la violenza è parte delle relazioni parentali, di lavoro, educative, in generale delle relazioni sociali […]. Siamo di fronte al paradosso di una violenza illegale ma legittimata. Questo è uno dei punti chiave del femminicidio».

Liquidato come cacofonico neologismo, il termine femminicidio è escluso dai dizionari (ipocrisia?).

In Italia solo nel 2009 compare per la prima volta nell’edizione del 2009 del Devoto-Oli che a alla voce femminicidio spiega: «È qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte».

L’ufficializzazione da vocabolario è fondamentale, perché finalmente erode la zona d’ombra del maschilismo; ne smuove il magma profondo nella creazione dello stereotipo di donna; ne svela la prepotenza di un patriarcato che si reitera facendo leva sul più retrivo arcaico simbolico misogino.

Come ai tempi della mattanza istituzionalizzata che fu la caccia alle streghe, quella costruzione simbolica arbitraria tenta oggi di risorgere nella riproposizione di moduli gerarchici di genere.

Le “nuove streghe” sono le donne colpevoli di non voler obbedire agli schemi di arcaici modelli che non le vedono come individui autonomi.

Finché non si assume consapevolezza chiara e distinta, che l’incasellamento di genere si sia accanito particolarmente sulle donne è difficile comprendere come la violenza ginocida si manifesti prevalentemente nel “sacro focolare domestico”, dove piccoli uomini non riescono a capacitarsi che il loro ruolo di pater familias è finito, e che devono fare i conti con una nuova antropologia di donna, frutto di quell’emancipazione femminile che ha permeato la società, ma che senza il femminismo e le conquiste giuridiche ottenute non ci sarebbe mai stata.

Ecco allora che al maschilismo non si deve dare tregua. Ed è importante smascherarlo nella sua strategia di abuso, invasività che nulla ha a che fare con l’affettività. Anche quando s’insinua per circuire con parvenze di protezione, che calibra tra «tenerezza amorosa» e «ricatto affettivo» per ottenere meglio la subordinazione dell’«altra da sé», che resta sempre e comunque l’oggetto dell’egoità narcisistico-maschilista, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia. Che disvelati significano: soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione su cui tanti maschi continuano ad accomodarsi pensando di aver diritto a quel ruolo stereotipato di servizio sacrificale delle donne.

Attenzione però, perché mentre il maschilismo violento si smaschera facilmente e le sue azioni sono reato anche grazie alle recenti leggi contro il femminicidio e lo stalking, quello più difficile da scardinare è proprio il maschilismo che veicola introiettato dall’oggetto dominato.

Come scrive Pierre Bourdieu in Il dominio maschile: «La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo come naturale».

Il virus maschilista continua a veicolare. La lotta per la sua estirpazione deve quindi continuare sul piano giuridico e culturale fino alla sua completa decapitazione.

Quel profumo di 1928 nelle tentazioni elettorali della destra

Si stavano contando ancora le schede delle elezioni regionali e dalle parti di Fratelli d’Italia erano già al passo successivo. «Occorre cambiare la legge elettorale», bisbigliavano in via della Scrofa. Qualcuno potrebbe benevolmente pensare che la presidente del Consiglio abbia a cuore i dati sempre più drammatici dell’astensione. In effetti la disaffezione è un problema di credibilità politica del Paese, quindi sarebbe responsabilità (anche) della leader di governo.

Niente di tutto questo, figuriamoci. Il senso di quell’arrabattarsi lo scioglie spudoratamente il capo organizzativo di FdI Giovanni Donzelli: «Se si votasse oggi non ci sarebbe la stessa stabilità che abbiamo ora. Noi crediamo che sarebbe utile averla. È una riflessione che facciamo», dice ai giornalisti. I numeri parlano: i risultati senza sorprese in Campania e in Puglia indicano che, con l’attuale sistema elettorale, il Rosatellum, alle prossime elezioni politiche i collegi uninominali andrebbero tutti al centrosinistra.

E quindi? Dovrebbe essere il normale risultato dei numeri, della democrazia. Chi ha più voti più elegge. Ma l’ossessione della presidente del Consiglio e dei suoi sgherri è non far vincere gli altri. Il sogno, forse, sarebbe quello di renderli inoffensivi come fece quell’altro con la legge Acerbo. Magari, perché no, una bella lista nazionale compilata dal Gran Consiglio. Una bella elezione con profumo di 1928.

«È una questione di stabilità politica», ripetono i meloniani. Anche questa l’abbiamo già sentita.

Buon martedì.

La COP30 senza verità e senza una roadmap per l’uscita dai fossili

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha definito la conferenza sul clima di Belém la “COP della verità”. E in effetti, durante queste giornate concitate – tra incendi, proteste dei popoli indigeni e tensioni diplomatiche – una verità è emersa con chiarezza: il mondo è ormai fuori traiettoria rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e molti Paesi non sembrano davvero intenzionati a cambiare rotta.

Certo, nella dichiarazione politica finale, il cosiddetto Mutirão globale, si riafferma la necessità di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi centigradi, e si dichiara che la transizione energetica è inevitabile. Tuttavia, c’è un grande assente: una vera roadmap per lo stop all’uso di gas, petrolio e carbone. Un’assenza pesante – una mancanza che pesa ancora di più.

A chiedere che l’eliminazione graduale dei combustibili fossili fosse esplicitamente inserita nel testo finale non erano solo ambientalisti ed ecologisti, ma oltre 80 Paesi del mondo — molti dei quali in Africa e in America Latina, con la Colombia e il Kenya in prima linea — oltre naturalmente all’Unione europea.

All’attivismo del blocco degli “ambiziosi” si è però contrapposto il fronte dei petro-Stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia e altri Paesi produttori, che hanno mantenuto una posizione compatta e si sono schierati per impedire qualsiasi riferimento a un phase-out dei combustibili fossili. Il risultato finale è un testo di compromesso che consolida il multilateralismo, rafforza gli NDC e la cooperazione finanziaria, ma evita accuratamente di prendere un impegno chiaro sull’eliminazione dei combustibili fossili, la vera questione politica attesa dalla comunità internazionale.

C’è stato sì un accordo per triplicare i finanziamenti destinati all’adattamento – cioè alle misure per prevenire o ridurre i danni causati dalla crisi climatica – nei Paesi in via di sviluppo. Ma l’intesa rientra comunque nel tetto dei 300 miliardi di dollari di finanza climatica già fissato alla COP di Baku. Di questa cifra, circa 120 miliardi all’anno saranno effettivamente dedicati all’adattamento dei Paesi più vulnerabili: un passo avanti importante, ma che arriverà solo nel 2035, e non entro il 2030 come richiesto dai Paesi beneficiari. Inoltre, molti speravano che questi fondi si aggiungessero ai 300 miliardi esistenti: così non è stato.

Alla COP30 ha pesato anche l’assenza degli Stati Uniti, guidati da un Donald Trump tornato alla Casa Bianca lo scorso anno e nuovamente ostile all’agenda climatica. Davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il presidente americano aveva definito il riscaldamento globale “la più grande truffa mai perpetrata nel mondo”, accusando le Nazioni Unite e la comunità scientifica di “previsioni sbagliate e costose”. Trump ha invitato i Paesi a “smettere di credere a questa truffa green”, sostenendo che altrimenti “rischiano il fallimento”.

In realtà, gli Stati Uniti non sono stati del tutto assenti a Belém. Al contrario: una delegazione ampia e molto attiva – composta da oltre cento governatori, sindaci e leader statali e locali – ha partecipato ai lavori accanto a organizzazioni e associazioni impegnate sul clima. “Questa è una coalizione potente, che rappresenta circa due terzi degli americani, tre quarti del nostro Pil e oltre il 50% delle emissioni di gas serra”, ha ricordato Todd Stern, ex inviato speciale per il clima sotto l’amministrazione Obama. Tra le presenze più simboliche, quella del governatore della California, che con la sua partecipazione si è di fatto candidato a guidare il fronte statunitense impegnato nell’azione climatica.

L’Italia, invece, è rimasta defilata, priva di proposte realmente ambiziose. Non solo: Roma si è mostrata scettica sulla roadmap europea per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, ritrovandosi così – insieme alla sola Polonia – l’unico Paese dell’Unione a non sostenere apertamente l’iniziativa. Secondo la deputata Ilaria Fontana, membro della Commissione “Ambiente” della Camera dei deputati, «La Cop30 si è chiusa con l’ennesimo capolavoro di ipocrisia internazionale. Il ministro Pichetto Fratin prova a venderci questo accordo annacquato come un ‘passo avanti’, ma esattamente verso dove? Perché qui l’unica cosa chiara è ciò che manca: un piano reale per uscire dai combustibili fossili e un impegno credibile per fermare la deforestazione. L’Italia dovrebbe guidare la battaglia per la decarbonizzazione, non accontentarsi di un compromesso che sa di resa».

Secondo Sara Sessa, attivista del movimento ambientalista Fridays For Future, presente alla COP30 in delegazione.«Il risultato finale di questa COP, riassunto nel testo del Global Mutirão, è caratterizzato da un linguaggio debole e impegni non vincolanti. Ma non tutto è perduto, e i pochi passi avanti compiuti sono merito di un’incredibile mobilitazione della società civile, a Belém e con echi in tutto il mondo. La COP30 ha visto una partecipazione popolare tra le più variegate, con una grande presenza dei Popoli Indigeni dell’America Latina, purtroppo per la maggior parte senza diritto di accesso all’area dei negoziati. Dalla COP arriva un messaggio chiaro e unanime: la società civile non aspetta più. Mentre i governi faticano a riconoscere ufficialmente le cause della crisi climatica e a farsi carico delle proprie responsabilità, il cambiamento è già in atto. La transizione non si ferma ai tavoli dei negoziati: è già realtà nelle strade, nelle città e nelle campagne del mondo».

Quella di Belém è stata anche la prima COP a svolgersi dopo il superamento, lo scorso anno, della soglia di 1,5 °C di aumento medio globale, un limite che l’Accordo di Parigi indicava come linea rossa da non oltrepassare. Un contesto che rende ancora più urgente la necessità di accelerare. Ma dentro questo quadro preoccupante, qualche segnale di speranza c’è. Secondo un report del think tank Ember, nel primo semestre del 2025, infatti, l’aumento della produzione da fotovoltaico ed eolico è stato sufficiente da solo a coprire tutta la nuova domanda elettrica globale: un sorpasso storico che ha permesso alle rinnovabili di superare per la prima volta il carbone nella generazione elettrica mondiale.

Forse Belém non è stata la «COP della verità» che molti attendevano. Ma mostra con chiarezza che la transizione è già in corso, spesso più velocemente della politica. Resta ora da capire se i governi sapranno trasformare questi segnali in impegni reali. Perché la finestra per evitare conseguenze ancora più gravi non è ancora chiusa – ma si sta restringendo.

La “potenza geopolitica” che arriva sempre dopo la fuga di notizie

È curioso come la storia si ripeta senza nemmeno lo sforzo di cambiare la scenografia. Stati Uniti e Russia si scambiano bozze di un piano di pace in 28 punti, l’Ucraina viene convocata solo quando tutto è già impostato, e l’Unione europea arriva dopo, brandendo «principi irrinunciabili» che nessuno aveva chiesto. È la diplomazia ridotta a post-produzione: aggiustare il copione scritto da altri.

La bozza fatta filtrare da Washington porta l’impronta di Mosca più di quanto l’UE voglia ammettere: cessioni territoriali, neutralità permanente, limiti all’esercito ucraino, alleggerimento graduale delle sanzioni. Zelensky la definisce un bivio «tra dignità e sopravvivenza degli aiuti». Trump la presenta come un’offerta di pace e, nella stessa frase, come un ultimatum mascherato. A Bruxelles, invece, ci si accorge del processo solo quando i dettagli diventano pubblici.

Il ruolo europeo al tavolo di Ginevra è la fotografia di tutto il resto: non capi di Stato, non leader politici, ma un funzionario della Commissione accanto alle delegazioni ufficiali. L’immagine è quella di un continente chiamato a garantire i fondi della ricostruzione senza avere voce sulla cornice geopolitica. È la forma moderna della marginalità: pagare il conto di una pace decisa altrove.

E allora la domanda è semplice: che fine ha fatto l’«Europa geopolitica» promessa dopo l’invasione del 2022? Se non riesce a produrre un suo piano, se interviene solo per correggere gli eccessi dei piani altrui, se reagisce invece di guidare, la sua irrilevanza non è un destino ma una scelta quotidiana. E ogni scelta, alla lunga, presenta il conto.

Buon lunedì. 

“Il mio nome è Nevenka”: il coraggio di una donna che scosse la politica spagnola

L’ultimo film di Icíar Bollaín si muove tra dramma e thriller e si afferma come un vero atto di accusa nel raccontare uno degli scandali più rilevanti della politica spagnola. Il mio nome è Nevenka ricostruisce la storia di una giovane consigliera comunale che nel 2001 denunciò per molestie sessuali il sindaco di Ponferrada.
Dopo aver diretto Una donna chiamata Maixabel (2021), anche questo ispirato a una storia vera, la regista Icíar Bollaín torna al cinema con Il mio nome è Nevenka. In stretta collaborazione con la co-sceneggiatrice Isa Campo, Bollaín affronta nuovamente il tema della violenza di genere, già esplorato in Take My Eyes (2003).

Il mio nome è Nevenka, nelle sale italiane dal 20 novembre, riporta all’attenzione pubblica un caso di oltre vent’anni fa, quello della prima condanna per molestie sessuali di un politico in Spagna, già raccontato nel documentario Netflix Nevenka: rompere il silenzio (2021). Nel 2000 a Nevenka Fernández García, da poco laureata in economia, viene proposto di diventare consigliera della città spagnola di Ponferrada. A soli 24 anni si ritrova rapidamente promossa alla guida del dipartimento finanziario del sindaco Ismael Álvarez (Partito popolare). È a conoscenza della reputazione da donnaiolo di Álvarez, ma inizialmente crede che l’interesse che lui mostra nei suoi confronti sia mosso da buone intenzioni. Álvarez però si fa insistente, e le sue avances alla fine hanno la meglio. I due iniziano una relazione clandestina.

Tuttavia, quando Nevenka infelice e confusa, decide di mettere fine alla breve frequentazione sentimentale e di mantenere solo dei rapporti di natura professionale con il sindaco, questo esercita ancora più apertamente il suo potere su di lei. Le telefona continuamente, pretende la sua totale disponibilità, e la umilia pubblicamente davanti ai colleghi e al partito di opposizione, ribadendole in privato di non essere disposto a rinunciare alla loro relazione.

La regia sobria di Bollaín accompagna Nevenka lungo il difficile e solitario percorso che la porta a comprendere che ciò che sta subendo è un vero e proprio abuso di potere. L’ambiente politico che la circonda, invece di ascoltarla e sostenerla, tende a minimizzare la situazione, intimandole prudenza e ricordandole che una donna giovane e ambiziosa deve fare attenzione a non compromettere la propria carriera.
Quando infine nel 2001 Nevenka decide di denunciare le molestie subite da Álvarez e affrontare il sindaco, continuando a non ricevere alcun supporto da parte del Partito popolare, compie un gesto di straordinario coraggio, nella consapevolezza che non si tratta soltanto di una battaglia legale, ma di un’esposizione totale della sua persona: un processo pubblico alla sua vita privata, alla sua credibilità e alla sua integrità professionale.

Il film mostra come il sistema sociale e mediatico cominci a remare contro Nevenka tra sospetti, pettegolezzi e insinuazioni che non fanno che danneggiare ulteriormente la protagonista. Bollaín racconta tutto con una regia dall’estetica televisiva ma sensibile, lasciando spazio a silenzi, tremori, sguardi, oltre che alle parole. La solitudine di Nevenka diventa il suo coprotagonista: la accompagna nei corridoi vuoti, la segue nelle conferenze stampa, nelle notti in cui il peso di ciò che vive sembra insopportabile.

Icíar Bollaín afferma di non aver voluto realizzare un legal drama, alcuni passaggi giudiziari vengono infatti tagliati o semplificati, per dare rilievo al peso che le molestie subite da Nevenka hanno avuto sulla sua salute mentale e non sottrarre spazio a una dimensione più intima. Il film sceglie di restare vicino alla prospettiva emotiva di Nevenka; una scelta narrativa che privilegia senza dubbio l’empatia a discapito della cronaca.

Il mio nome è Nevenka dà risalto però alle reazioni dell’opinione pubblica e dei media all’epoca dei fatti e sottolinea il ruolo determinante svolto dai mezzi di informazione nel sostenere il potere costituito evidenziandone lo scetticismo e l’ostilità nei confronti della denunciante.

Manifestazioni pubbliche di sostegno al sindaco unite a commenti denigratori verso Nevenka segnarono l’inizio di un acceso dibattito nazionale sul concetto di consenso, conclusosi con la condanna penale di Álvarez il 30 maggio 2002. La condanna portò Álvarez alle dimissioni, accolte con l’approvazione dal Partito popolare, mentre Fernández decise di trasferirsi all’estero, attualmente vive in Irlanda, dove ha scelto di portare avanti la sua vita professionale.

Durante le attività promozionali del film, a cui ha preso parte anche Nevenka Fernández in persona, la regista Bollaín ha evidenziato come nel film la rappresentazione dei comportamenti del molestatore sia strutturata in modo tale da attribuire alla vittima la responsabilità degli abusi subiti, e comporti un progressivo logoramento dell’identità della donna, spesso preceduta da manipolazioni psicologiche che ne delegittimano la percezione della realtà.

Nel film di Bollaín il sindaco Ismael Álvarez non viene stilizzato come un mostro monodimensionale, o un predatore malvagio, ma come un personaggio complesso che si muove tra seduzione, paternalismo e manipolazione emotiva. Nevenka è invece tratteggiata come una donna combattuta: non è un’eroina, ma neppure una vittima passiva. Appare fragile e determinata al tempo stesso e la sua combattività sembra nascere da una necessità quasi fisica, quella di non sentirsi oppressa.

Nel costruire il ritratto di Nevenka, Bollaín sceglie di indugiare sui suoi dubbi, sui suoi sensi di colpa, sui momenti in cui vorrebbe tirarsi indietro e su quelli in cui invece comprende che farlo significherebbe tradire sé stessa. Il film è anche rappresentazione delle dinamiche di potere, di come questo possa essere usato per manipolare gli altri, e di quanto sia difficile ribellarsi quando ad abusarne è una figura pubblica stimata e protetta.

Il contesto politico nel film assume il ruolo di vera e propria cornice drammatica: non è un ambiente neutrale ma un sistema che tende a proteggere sé stesso, a salvare le apparenze, a occultare ciò che rischia di incrinare gli equilibri interni. Bollaín mostra come una comunità possa trasformarsi in un tribunale collettivo, e come la paura del cambiamento possa spingere a sostenere il potente e isolare chi ne denuncia gli abusi.

La regista non si limita a raccontare il passato, ma suggerisce implicitamente quanto la vicenda di Nevenka anticipi questioni che diverranno centrali con il movimento #MeToo oltre 15 anni dopo. Il mio nome è Nevenka è un invito a ricordare il passato e leggere il presente con uno sguardo più consapevole sulla violenza di genere.

“Ecco perché abbiamo denunciato l’industria bellica Leonardo per la fornitura di armi a Israele”

La dottoressa Hala Abulebdeh, farmacista gazawi laureata all’Università di Glasgow, è venuta a sapere dell’assedio che l’esercito israeliano stava portando avanti nei pressi della casa in cui si trovava la sua famiglia, nel sud della Striscia di Gaza, da un laconico messaggio whatsapp della sorella. Era il 12 dicembre 2023 e i bollettini del ministero della Sanità registravano già oltre 18.400 morti dall’inizio di quello che, solo un mese dopo, la Corte internazionale di giustizia avrebbe definito un «rischio reale e imminente» di genocidio. L’Idf, quel giorno, ha sterminato i genitori, le due sorelle e i cinque fratelli di Hala, resa edotta della strage svariati giorni dopo soltanto grazie ai messaggi di condoglianze dei suoi vicini di casa di Gaza.

La storia di Hala, raccontata integralmente oltre un anno fa al podcast Palestine Deep Dive, si intreccia con l’iniziativa legale “In nome della legge! Giù le armi, Leonardo”, promossa da una rete di organizzazioni della società civile italiana (AssoPacePalestina, A buon diritto, Attac, Arci, Un Ponte Per e altri) contro il colosso delle armi Leonardo S.p.A. Gli avvocati delle associazioni e della dottoressa Abulebdeh – Luca Saltalamacchia, Veronica Dini, Michele Carducci e Antonello Ciervo – hanno depositato presso il Tribunale civile di Roma un atto di citazione contro la multinazionale delle armi italiana. 

Con il ricorso, presentato il 19 novembre, durante la conferenza stampa alla Fondazione Lelio Basso di Roma, le associazioni chiedono l’annullamento di tutti i contratti di Leonardo con Israele relativi alla fornitura bellica all’Idf. Se il giudice dovesse accogliere la loro richiesta, ciò potrebbe segnare un precedente importante: non solo la fine di quelle forniture, ma anche una forte ridiscussione del modello industriale e commerciale che lega industria bellica e politica estera. Potrebbe, insomma, essere un primo passo per far pagare a chi genera profitto sulle armi una responsabilità giuridica che finora è rimasta quasi invisibile.

«Questi contratti violano norme fondamentali perché Israele utilizza la guerra come strumento di oppressione e occupazione contro la popolazione palestinese», ha dichiarato l’avvocato Saltalamacchia, sottolineando che Leonardo, partecipata per il 30% dal ministero dell’Economia e delle Finanze dello Stato italiano, «fornisce veicoli, aerei, elicotteri, componenti per F‑35, radar, mezzi militari da trasporto, cannoni navali e persino alette per bombe guidate verso obiettivi prestabiliti. Non si tratta solo di addestramento: questi mezzi vengono anche impiegati come strumenti d’attacco».

Secondo l’avvocato Antonello Ciervo, sostenere questo ricorso significa «richiamare all’osservanza di una serie di norme nazionali e internazionali» che oggi rischiano di essere ignorate. L’export di armi a Israele da parte di Leonardo non è solo una questione economica ma «contrasta con l’articolo 11 della Costituzione, con la legge 185/1990 che vieta le esportazioni verso Stati che violano i diritti umani, così come con il Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite e con il codice etico di Leonardo, che prevede obblighi stringenti anche per le società controllate». 

I referenti delle associazioni coinvolte hanno denunciato le politiche di conversione bellica italiane e occidentali, ribadendo l’urgenza di pretendere il rispetto della legge e della Costituzione. «Israele ha violato e continua a violare tutto il diritto internazionale possibile. Continuare ad armare Israele significa legittimare qualsiasi stato a fare ciò che voglia», dice Raffaella Bolini, vicepresidente di Arci Nazionale, aggiungendo: «La produzione di armi è redditizia solo se le armi vengono effettivamente utilizzate, e la guerra rischia così di diventare un obiettivo economico». 

Dello stesso avviso è Luisa Morgantini, presidente di AssoPacePalestina, che sottolinea l’importanza di «Mettere in luce ciò che Leonardo ha fatto, sta facendo e farà. È necessario denunciare ciò che sta avvenendo per fermare il genocidio e la pulizia etnica ancora in corso». Per Italo Sandrini delle Acli il nodo è la responsabilità dello Stato italiano che «avrebbe dovuto interrompere autonomamente i contratti! senza l’intervento della comunità civile che oggi supplisce «a una grave mancanza». 

Il suo intervento si inserisce nel solco del recente rapporto delle Nazioni Unite, presentato esattamente un mese fa dalla relatrice speciale Francesca Albanese e intitolato “Gaza Genocide: a Collective Crime”. Nel documento – come è noto – vengono accusati 63 Stati,  Italia compresa – di complicità con il genocidio in corso a Gaza, fornendo prove e dati sulla fornitura di armi, la copertura diplomatica e le omissioni assicurate da numerosi governi occidentali. Infine Camilla Siliotti dell’associazione A Buon Diritto, fondata da Luigi Manconi sottolinea l’importanza di «strumenti giuridici a sostegno delle mobilitazioni, indispensabili per riportare al centro il concetto di responsabilità, opposto a quello di complicità e silenzio». La conferenza è servita anche a lanciare lo sciopero del 28 novembre indetto dall’Usb contro la “finanziaria di guerra” del governo Meloni. La rete di sigle pro‑Palestina, che ha mobilitato milioni di manifestanti tra settembre e ottobre, tornerà in piazza, unita dal motto Blocchiamo tutto, chiedendo ancora una volta le dimissioni del governo italiano per la sua complicità con il genocidio. In questo contesto, la battaglia legale di Hala Abulebdeh e delle associazioni si intreccia con la mobilitazione popolare: non si tratta “solo” di un ricorso giudiziario ma di una sfida diretta all’impotenza e alla rassegnazione che ha pervaso per mesi la società civile solidale alla Palestina. «È possibile fare affari o autorizzare contratti con oggetto materiale bellico nell’ambito della commissione di crimini internazionali? Questo è in contrasto con la Costituzione e con il Trattato Onu 2013, recepito nell’ordinamento italiano ex art. 117? «È in contrasto con il codice etico di Leonardo S.p.A.?» ha chiesto a chiare lettere l’avvocato Saltalamacchia. Alcune risposte le fornirà – probabilmente – un giudice, ma le domande restano aperte. A doversi interrogare, però, non dovrebbe essere solo il tribunale, ma un’intera classe politica e industriale, chiamata dalle piazze a confrontarsi finalmente con la propria responsabilità morale, prima ancora che con quella legale.

Foto di Diana khwaelid su Unsplash

 

Ucraina. La resa travestita da accordo: l’Europa applaude e scompare

Il nuovo piano per l’Ucraina arriva come un promemoria del mondo che ci aspetta: la pace è un brand, l’accordo è un ricatto, la giustizia un optional. A Kiev lo hanno ricevuto in silenzio, costretti a fingere che sia una base negoziale mentre a Washington e Mosca si spartiscono il lessico della “fine della guerra” come fosse un affare immobiliare. Lo schema ricorda qualcosa di già visto: una zona grigia calata sulle macerie, un consolidamento dei rapporti tra uomini forti che parlano la stessa lingua, quella dell’estorsione geopolitica.

Trump si presenta come mediatore, ma la sua proposta è la copia carbone delle richieste russe sin dal 2014: cessione di territori, esercito dimezzato, armi riconsegnate. A Kiev lo definiscono «piano assurdo» e «inaccettabile», ma la dipendenza dagli Stati Uniti trasforma ogni protesta in un sussurro formale. Nel frattempo Putin non parla, osserva. La morsa funziona: l’Ucraina può solo scegliere il ritmo della propria umiliazione.

In Europa ci raccontano che il problema è la “guerra ibrida” russa, utile per distribuire patenti di putinismo ai giornalisti non allineati. Eppure l’unico vero ibrido qui è quello tra Trump e Putin: accordi annunciati come “storici” che blindano sfere d’influenza e aprono corridoi estrattivi su un paese stremato. L’Unione europea resta ai margini, il solito due di picche. L’Italia si accontenta della parte comoda: farsi fotografare mentre rivendica la solidarietà, anche se la pace che applaude è la resa di un popolo.

Peccato che tutto questo non abbia niente a che fare con la diplomazia: è la versione aggiornata del ribasso. Una non-pace costruita per mettere tutto a posto tranne la vita degli ucraini. E per consegnarci, ancora una volta, alla geopolitica dei padroni del vapore.

Buon venerdì.