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Ska e impegno civile: tornano the Beat, dagli ’80 con furore

La formazione originaria di The Beat

Oggi lo sentite in maniera ossessiva nella pubblicità della Serie A che utilizza “Monkey Man” nella versione degli Specials come jingle. Ma nei primissimi anni 80 lo ska è stato la colonna sonora delle rivolte giovanili e dei ghetti della Gran Bretagna contro l’avvento e il trionfo di Margaret Thatcher – assieme a certo punk e persino a un po’ di New Wave.

A differenza dei sintetizzatori dei Depeche Mode, e dei mille gruppi non sopravvissuti a quegli anni, che bandivano le chitarre e sancivano il trionfo delle tastiere per qualche anno, le band ska e la 2 Tone records segnavano una rivoluzione, non tanto musicale, ma culturale: The Specials, The Selecter, The Beat e, più famosi e longevi di tutti, i Madness, erano le prime band che suonavano per bianchi e neri assieme. O meglio, la prima sottocultura che univa i figli della working class e i neri, che in Gran Bretagna, fino ad allora, non avevano mai condiviso un terreno comune. Era l’epoca degli skinheads e dei rasta che vanno agli stessi concerti e partecipano agli stessi scontri con la polizia. Di lì a poco arriverà la rivoluzione thatcheriana e spazzerà via anche loro.

skinheads e neri giamaicani nella Londra anni 80
Lo ska di quegli anni fondeva assieme la tradizione nera arrivata dall’isola caraibica negli anni 60, impegno politico, nel senso di una narrazione della vita di tutti i giorni della working class britannica, e uno stile destinato a durare nel tempo – il bianco e nero, le Dr. Martens, le giacche e cravatte strette, a imitare i cantanti giamaicani dei Sessanta, dagli Skatalites a Desmond Dekker, a Laurel Aitken. Lo ska era in tutto e per tutto musica politica che raccoglieva con spirito allegro il testimone del punk e trasmetteva un messaggio un po’ amaro, ma senza eccessi di nichilismo. Prima che il fenomeno skinhead venisse identificato – per errore – con i naziskin degli anni 90.

A fare la storia di questo genere c’era poi una casa discografica indipendente, la 2 Tone, appunto, fondata dagli Specials di Coventry, che nel 19792tone portò tre singoli nella Top Ten, partendo dai concerti sul retro dei pub. Il logo-simbolo della 2 Tone era Walt Jabsco, l’omino in bianco e nero qui accanto, che rappresentava in qualche modo le radici bianche e nere dell’etichetta e del movimento ska.
Di quella ondata rapida e di successo che ha prodotto una serie infinita di hit capaci di entrarti in testa e non abbandonarti più, facevano parte anche The Beat. The Beat che tra il 1980 e il 1983 scalavano le classifiche con “Mirror in the bathroom”, “Ranking full stop”, “Tears of a clown” (una cover del classico di Smokey Robinson) e che oggi tornano con un nuovo disco: Bounce. Un misto tra il sound di quegli anni e del reggae più classico. L’album tocca i suoi punti migliori quando riprende i suoni, specie un sax rotondo e profondo, tipici dei successi che portarono i Beat a riempire stadi per qualche anno.

Mirror in the bathroom e Tears of a clown: quando The Beat scalavano la Top of the Pops


Quello dei The Beat – che in realtà è solo una delle formazioni in circolazione che porta più o meno questo nome e che nel line-up attuale hanno Rankin’ Rogers, uno dei due cantanti dell’epoca d’oro come frontman – non è mai stato uno ska tradizionale, con il ritmo in levare e il sincopato, ma più un tappeto di suono, accompagnato da testi militanti o racconti di vita. Proprio come quelli che troviamo in Bounce con almeno quattro belle tracce (“Side by side”, “Avoid the obvious”, “Talkin’ about her”, “My dream”).

Il disco è suonato bene, arrangiato in maniera pulita e non sembra essere figlio di una band vecchia di 30 anni. A dire il vero non lo è: come nei Beat storici, che avevano un sassofonista dai capelli bianchi assieme allo stesso Roger, all’epoca poco più che adolescente, oggi è il figlio del sedicenne di allora a suonare con la band. Incursioni in terreno pop, come già nei dischi delle origini, reggae classico e probabilmente un ottimo live set sono quel che promette la band. Se non ricordate lo ska e la sua carica politica senza rabbia, ecco un buon punto da cui cominciare.

On the wrong side, uno dei tre singoli di Bounce

Contadini ed ecologisti al potere in Lituania

L’Unione dei Contadini e degli Ecologisti (Lpgu), ha vinto le elezioni parlamentari in Lituania. Il partito socialdemocratico dell’attuale Premier, Algirdas Butkevicius, è arrivato soltanto terzo, preceduto anche dal partito conservatore. Il risultato ha del clamoroso se si pensa che nel 2008, l’Lpgu ottenne appena il 3,9 per cento dei voti.

Finanziato dal milionario Ramunas Karbauskis, l’Lpgu ha fatto della trasparenza e dell’opposizione ai partiti tradizionali il suo cavallo di battaglia. Il partito ha inoltre una chiara agenda pro-Ue e pro-Nato, ma, allo stesso tempo, una posizione conservatrice sul fronte dei diritti civili.

Come sottolinea Reuters, uno dei temi principali della campagna elettorale è stato quello dell’esodo di forza lavoro dalla Lituania verso zone più ricche dell’Unione europea e, in particolare, verso il Regno Unito. Se, nel 2001, prima di entrare nell’Ue, la Lituania contava ancora 3,5 milioni di cittadini, nel 2015 ne aveva censiti soltanto 2,9 milioni, il che corrisponde a un calo superiore al 15 per cento.

L’Lpgu dovrà ora creare un governo di coalizione e quindi mediare con le stesse forze che ha contestato per diversi anni. Con ogni probabilità sarà il leader dell’Lpgu, Saulius Skvernelis, a guidare le negoziazioni.

Sebbene la Lituania non sia un Paese chiave per gli equilibri del continente europeo, queste elezioni sottolineano comunque una serie di tendenze che vanno oltre i confini del Paese baltico.

In primo luogo, continua il fenomeno dell’ascesa, in tempi record, di formazioni outsider: da Syriza a Podemos, passando per i casi dello Ukip e dell’AfD, la crisi sembra insomma aver aperto margini per cambiamenti inaspettati.

In secondo luogo, le elezioni lituane confermano l’importanza del conflitto, forse erroneamente dato per esaurito ormai, tra aree metropolitane e rurali. La differente visione politica tra città e campagna aveva giocato un ruolo chiave anche nel risultato del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue ed è alla base del successo dello Ukip.

Infine, il caso lituano dimostra come la libera circolazione di forza lavoro nell’Ue possa diventare un tema centrale delle campagne elettorali, non solo nei Paesi di arrivo, ma anche in quelli di partenza.

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Via dalla giungla di Calais. Che fine faranno mille minori?

Calais, un migrante lascia la Giungla
Migrants line-up to register at a processing centre in the makeshift migrant camp known as "the jungle" near Calais, northern France, Monday Oct. 24, 2016. French authorities say the closure of the slum-like camp in Calais will start on Monday and will last approximatively a week in what they describe as a "humanitarian" operation. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Addio alla giulgla di Calais: uno dei simboli della disastrosa gestione della crisi dei rifugiati da parte dell’Europa e dei singoli Stati europei viene smantellato. Da stamane all’alba i 6-8mila abitanti del campo nato e cresciuto ai bordi della cittadina del Nord della Francia che guarda le coste britanniche, viene smantellata.

Sotto gli occhi di telecamere e poliziotti, decine di autobus hanno caricato afghani, sudanesi, eritrei che nei mesi si erano accampati a Calais nella speranza di passare la Manica e li stanno trasportando in 280 località della Francia. O almeno così ha spiegato il governo. Ma come denuncia Medicis du monde, le operazioni hanno l’aria di essere un po’ improvvisate e i migranti che lasciano volontariamente il campo hanno saputo della loro destinazione solo nelle ultime ore. E non è ben chiaro che destino avranno queste persone una volta finite nei centri di accoglienza o di identificazione. Come non è chiaro nemmeno cosa succederà a coloro – se ce ne saranno – che resisteranno al trasferimento. Nei giorni scorsi ci sono stati scontri: la stragrande maggioranza di queste persone non vuole rimanere in Francia e in molti casi ha parenti in Grand Bretagna.

In alcuni Paesi della Francia ieri il Front National ha già messo in scena manifestazioni anti-accoglienza. A Vaucluse (quella delle chire fresche dolci acque di Petrarca), Marion Marechal Le Pen, nipote di Marine e capo dell’ala destra del partito, ha radunato un centinaio di persone. A manifestare c’erano anche i francesi per l’accoglienza. Erano di più, raccontano i media locali.

Un problema specifico è quello dei mille e più minori: in teoria avrebbero diritto all’accoglienza automatica. Molti hanno famiglie in Gran Bretagna e, sempre in teoria, il diritto al ricongiungimento. Ma Londra si rifiuta di garantire un meccanismo automatico che garantisca ai minori di ritrovare i loro parenti e così i ragazzi verranno presi in carico dalle autorità francesi. Poi si vedrà. Non una bella modalità di rispettare i trattati internazionali da parte di Londra, dove nei mesi pre-Brexit la Giungla è stata spesso usata come spauracchio dei favorevoli a lasciare l’Europa.

A proposito di Gran Bretagna, Europa e rifugiati, un’inchiesta della Bbc ha rivelato come minori siriani – e rifugiati adulti – vengano messi al lavoro nelle fabbriche tessili di Istanbul. Lavorano anche fino a sedici ore, vengono pagati pochissimo, vengono presi e licenziati come niente fosse. Ma è l’unica cosa che possono fare per sopravvivere. I siriani lavorano in fabbriche che appaltano dai giganti della moda come Zara, Mango, Next, Asos (che vende online), i quali negano di avere rapporti diretti con quei subappaltatori, ma si trovano lo stesso a dover rispondere del modo in cui lavorano: la Turchia è un fornitore a basso prezzo e vicino all’Europa che viene molte usato per gli ordini a pronta consegna. Da quando ci vivono tre milioni di rifugiati siriani, poi, il prezzo della manodopera si è abbassato ulteriormente.

Calais, un migrante lascia la Giungla
 (AP Photo/Thibault Camus)

 

 

«Cucù, Equitalia non c’è più»

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri sulla legge di bilancio, Roma, 15 ottobre 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

Ospite di In mezz’ora su Rai Tre intervistato da Lucia Annunziata (il video è qui) Matteo Renzi ha salutato così l’abolizione di Equitalia: «Cucù, Equitalia non c’è più». Poi ha raccontato che la mossa della demolizione dell’odiata agenzia in realtà non c’entra nulla con il pressi referendum specificando che semplicemente crede che sia qualcosa che “andava fatto”.

Ora, al di là della vicenda Equitalia che in questi anni ha assunto proporzioni vergognose, va osservato come si sia sviluppata in tempi recenti (non solo per Renzi) una certa ritrosia a spiegare le ragioni politiche che stanno dietro a una riforma; non tanto gli effetti più o meno di pancia che possono avere sull’elettorato (c’è gente, molta gente, che crede riavere ricevuto in condono tombale di tutti i pagamenti arretrati, per dire) ma soprattutto la programmazione e la visione che stanno dietro a una scelta continuano a mancare e a non essere considerate importanti.

Sarebbe utile sapere, ad esempio, come la rinuncia a Equitalia si inserisca in una più ampia lotta all’evasione (ma anche se è sia prioritaria la lotta all’evasione) così come per la riforma costituzionale sarebbe utile ascoltare le modalità che saranno utilizzate per migliorare la classe politica nei prossimi anni poiché, vista la comunicazione, sembra evidente che Renzi e soci puntino molto sulla grettezza dei politici e quindi su una loro subitanea riduzione. Sarebbe utile sapere, ad esempio, come Renzi pensa di poter fare senza Alfano o Verdini nella prossima legislatura per avere una maggioranza che gli permetta di governare tenendo conto della perdita di voti del suo partito.

Ci piacerebbe sapere se la riduzione delle tasse prevede una diversa programmazione delle entrate di Stato (da dove e come) oppure una drastica riduzione della spesa pubblica (da dove e come). Ci si potrebbe interrogare su quali siano le previsione future del bilancio nazionale nei prossimi anni e da cosa derivi l’ottimismo renziano che gli consente di sognare un “grande opera” come il ponte di Messina e sarebbe curioso avere una risposta sulla riforma dei partiti che si renderebbe necessaria con l’istituzione dell’elezione indiretta per il Senato. E se davvero invece i senatori li sceglieranno i cittadini forse sarebbe il caso di chiarire come prima di andare a votare il referendum.

Pensandoci in realtà sarebbe opportuno avere il governo qualcuno che abbia presentato un programma elettorale per giudicarlo “nel merito”, tanto per citare una definizione tanto di moda. E invece niente: qui abbiamo un governo che è la nuvola di polvere che è riuscita ad alzarsi dalle macerie precedenti. Senza voto, senza campagna elettorale e soprattutto senza un programma. E sono quelli che vorrebbero cambiare la Costituzione. Per dire.

Buon lunedì.

L’ossessione di Assange per le mail di Hillary

Hillary CLinton legge mail da suo smartphone
Democratic presidential candidate Hillary Clinton looks at a smart phone as she leaves her home, in Washington, Saturday, Sept. 17, 2016. Clinton will speak at the Congressional Black Caucus Foundation's Phoenix Awards Dinner at the Washington Convention center. (AP Photo/Andrew Harnik)

Julian Assange è più o meno disconnesso dal mondo. O almeno così hanno annunciato le autorità ecuqdoregne, che ospitano il fondatore di Wikileaks nella loro ambasciata di Londra. Le elezioni del 2016 sono per lui cruciali: con Hillary Clinton il rapporto è sempre stato pessimo. Sarà per questo che la sua organizzazione sta pubblicando materiali a tonnellate. Tra questi le email interne della campagna democratica. Qualcuno ha anche commentato che l’organizzazione sta un po’ perdendo la propria funzione e sembra schierata con il candidato sbagliato. O almeno peggiore.

Certo è che Assange è in pericolo e che il trattamento riservato a tutti i whistleblower e hacker, anche quelli che hanno rivelato cose di interesse pubblico come Edward Snowden, è molto duro. E che negli Usa ci sono forti campagne di pressione per Chelsea Manning e per lo stesso Snowden.

Su Left in edicola ci occupiamo del ruolo assunto da soffiate, audio rubati e materiale hackerato nella campagna elettorale americana. Ricostruiamo la vicenda delle email di Hillary Clinton, ricordiamo il ruolo di Fancy Bear, il gruppo di hacker russi accusato di lavorare per Putin contro Clinton – sarebbero loro che passano il materiale ad Assange – e con un’intervista a Eric Corley, decano degli hacker, editore, direttore di 2600, Hacker Quarterly, conduttore radiofonico. Corley è creatore e direttore di H.O.P.E. – Hackers on Planet Earth. Il suo nickname viene dal nome del capo dell’opposizione in 1984 di George Orwell.

Di cosa stiamo parlando? Cosa abbiamo scoperto su Clinton e il suo staff, su come lavorano e cosa pensano? Un assaggio è qui sotto, le interviste e i servizi di Marina Catucci e Martino Mazzonis sono in edicola

Cosa c’è nelle mail di John Podesta, capo della campagna Clinton

  • Parlando con un gruppo di sindacalisti Hillary si chiede perché gli ambientalisti, invece di andare a protestare ai suoi comizi non «si fanno una vita». Durante lo stesso meeting, però, Clinton annuncia che si opporrà alla realizzazione della XL Keystone pipeline, un oleodotto che i sindacati volevano costruire e contro cui gli ambientalisti hanno montato una campagna nazionale. Quando Obama ha annunciato che l’oleodotto non si sarebbe costruito, Podesta scrive allo staff del presidente «Finalmente avete mandato XL Keystone all’obitorio».
  • Tra i vice presi in considerazione in una prima lista di papabili, ci sono anche Melinda Gates, l’ex sindaco di New York Bloomberg, ma anche Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. In un’altra mail si dice che all’ex sindaco di New York – non dispiacerebbe fare il Segretario di Stato.
  • Chiedere scusa (per l’uso del server privato di posta) è qualcosa che non riesce bene a Hillary. Un membro del suo staff lo definisce «Il suo tallone di Achille».
  • Durante le primarie e visto anche il successo di Trump – entrambi fieramente anti Ttip – ci si chiede che posizione prendere visto che Obama è a favore. Dopo aver ragionato su tre opzioni diverse, si decide per la contrarietà al trattato commerciale. Invertendo una posizione tradizionalmente pro-abbattimento delle barriere commerciali da perte di Hillary Clinton.
  • L’ossessione per il controllo del messaggio traspare dal numero di persone coinvolte in alcune discussioni su come e cosa twittare. C’è una discussione lunga molte mail che coinvolge 11 persone. Per scrivere 140 caratteri.
  • Dagli scambi di mail si evince anche il ruolo di Huma Abedin, consigliera e factotum di Clinton. Abedin viene consultata su quasi tutto e funge da memoria storica: le si chiede, ad esempio, come sono i rapporti con questo o quel senatore, capo di Stato, leader politico. Come sono state certe relazioni con colleghi senatori a cui si intende chiedere il sostegno durante le primarie contro Sanders, e così via.

Su Left in edicola dal 22 ottobre servizi e interviste sull’hackeraggio delle elezioni Usa 

 

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Yemen. La vergogna dell’Europa che alimenta il massacro vendendo armi

(FILES) Undated file photo shows Yemeni brothers Ahmeh Falah (L) and Hussein at their arms shop in JIhana arms market, 40km south of Sanaa. Yemeni authorities launched a campaign, 11 June, to persuade residents of cities and towns to hand over their weapons, in a country where tradition dictates that a real man carry a gun or dagger.

Non è solo una “guerra dimenticata”. È anche qualcos’altro. E di peggio. È la vergogna dell’Occidente e in esso dell’Europa (Italia compresa). È la sanguinosa riprova che alla base dello sfacelo mediorientale c’è la pervicace doppiezza di un “mondo libero” che non si limita, e già questo griderebbe vendetta, ad assistere silente al massacro di civili, ma quel massacro lo alimenta vendendo armi, e garantendo in sede Onu la copertura politica, all’attore regionale che attua un terrorismo di Stato. Yemen, la vergogna dell’Europa. Yemen, dove l’Arabia Saudita perpetra da tempo crimini contro l’umanità. Le cronache degli ultimi giorni raccontano di diversi missili lanciati dalle coste yemenite verso navi militari statunitensi dispiegate nel Mar Rosso, al largo dello Yemen ma in acque internazionali, con relativa risposta missilistica americana. Ciò di cui non si parla, volutamente, nei consessi internazionali, è che dopo diciannove mesi di operazioni militari si continua a morire nello Yemen e più di 6.800 persone sono già state uccise nella campagna lanciata dalla coalizione panaraba guidata dall’Arabia Saudita, per rispondere alla minaccia posta dai ribelli Houthi, e centinaia di civili continuano a essere falcidiati. Gli sfollati sono ormai oltre tre milioni. La popolazione è sempre più allo stremo: più della metà degli yemeniti dipende dagli aiuti umanitari e solo un bambino su 10 riesce ad arrivare vivo a cinque anni. E tutto questo con la complicità occidentale. Peggio che in Siria. Secondo Akbar Shahid Ahmed, tra i più accreditati analisti mediorientali, Barack Obama potrebbe mettere fine alla strage in corso in poche ore, se solo lo volesse. Ma per ora questo non sembra all’ordine del giorno.
L’anno scorso, rimarca Amnesty International Italia, l’Arabia Saudita riuscì a convincere la maggioranza degli Stati del Consiglio Onu dei diritti umani a votare contro l’istituzione di una Commissione internazionale sui crimini di guerra commessi in Yemen. Venne invece approvata una inutile risoluzione a sostegno della neo-istituita Commissione nazionale yemenita sui diritti umani che, da quello che si è visto nel primo anno di attività, non stabilirà la verità né favorirà la giustizia.
Ma la Giustizia non si concilia con gli affari. Gli sporchi affari che l’Occidente continua a intessere con Riad. Affari miliardari. Affari di armi. Dal marzo 2015, Washington ha autorizzato la vendita di armamenti a Riad per un valore di 22,2 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali devono essere ancora erogati. La lista include 1,29 miliardi di dollari in munizioni per fucili automatici. Stati Uniti, e non solo. La vergogna pervade anche Parigi. Due volte il Presidente francese Hollande e una il Primo ministro Valls hanno recentemente firmato contratti per 10 miliardi di euro con il regno saudita. Quei soldi coprivano anche un’abbondante fornitura di armi prodotte in Francia. E la vergogna cala anche sull’Italia. Perché su una parte delle bombe sganciate dai caccia sauditi sulle città yemenite c’è una sigla incisa che ci riguarda da vicino: MK83, un modello prodotto da Rwm Italia. Sede operativa a Domusnovas, nel cagliaritano. Proprio da qui, nel 2015, sono partite cinquemila bombe. Un quinto in più rispetto all’anno precedente. Va ricordato che le autorizzazioni all’export dell’industria bellica, le rilascia il nostro ministero degli Esteri. Regola che vale anche per le armi assemblate dalla succursale italiana dal colosso tedesco Rheinmetall Defence. E ai finti “smemorati” di casa nostra, ai piazzisti pubblici e privati di arsenali di morte, va altresì rammentato che la risoluzione del Parlamento Europeo adottata lo scorso 25 febbraio stabilisce «l’istituzione di un embargo sulla vendita delle armi alla Arabia Saudita». La vergogna yemenita nasce anche nel Belpaese. Fino a quando?

Questo commento è tratto dal numero di Left in edicola dal 22 ottobre

 

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La casalinga, il barista e l’ingegnere. Tre personaggi in cerca di risposte

MASSIMO VILLONE

Michele Serra scrive sulla sua Amaca del 16 ottobre che alla casalinga di Voghera e al barista di Trani non interessa la Riforma costituzionale e che chiedere loro «di pronunciarsi sul bicameralismo imperfetto è puro sadismo». Meglio lasciare la cosa agli esperti, dice l’opinionista di Repubblica. La replica è immediata e arriva nello stesso giorno dalla festa della Costituzione a Roma. «In democrazia accade che qualcuno non sia consapevole e forse la signora e il barista non sanno che questa riforma li riguarda direttamente, ma se è così, allora bisogna fare tutto il possibile per spiegarglielo. Altrimenti che facciamo? Torniamo a 150 anni fa, al voto per censo? Oppure tagliamo le teste o il diritto di voto? Se quello che dice Serra dovesse essere adottato come progetto di riforma costituzionale addirittura torneremo a poco prima della Rivoluzione francese. È una bella forma di modernità, dovremo consigliarla a Renzi che così almeno si fa una cultura storica!». Il costituzionalista Massimo Villone sul palco, piegato sulla sedia sorride amaro rivolgendosi al pubblico accorso alla Città dell’Altraeconomia.
È l’ultimo giorno della festa della Costituzione promossa dal Comitato romano per il No al referendum, sul palco insieme a Villone c’è anche l’ex sindaco Ignazio Marino per il secondo incontro coordinato da Left. A entrambi, Ilaria Bonaccorsi rivolge domande molto puntuali, ma soprattutto riporta il cuore del problema – davvero la casalinga di Voghera e il barista di Trani non sono interessati o addirittura non sarebbero in grado di comprendere la riforma Renzi Boschi, come scrive Serra? – oppure tutti i cittadini possono comprendere cosa c’è scritto nella nuova Costituzione. Ma non solo. Il direttore di Left aggiunge un terzo personaggio, un altro simbolo di questa Italia, alle prese con una campagna referendaria che divide il Paese tra guelfi e ghibellini senza entrare nel merito della revisione costituzionale. «Un amico ingegnere – racconta – mi chiedeva “ma se il Senato ormai non conta più nulla, non dà più la fiducia, perché indignarsi così tanto se non votiamo più per eleggere i senatori”?». Così, la casalinga, il barista e anche l’ingegnere, diventano i tre personaggi non tanto in cerca d’autore ma di risposte sul presente. E il professore emerito di Diritto costituzionale spiega con calma, si lascia andare anche all’ironia, come quando immagina scenari post vittoria del Sì: «Se avete corna, cornetti, toccate ferro, toccate legno!». Ma poi spiega rigoroso: «Bisogna dire alla casalinga e al barista che questa riforma mette a rischio la democrazia, perché riduce gli spazi di partecipazione e indebolisce il Parlamento, visto che il diritto di voto è solo per una Camera. E un Parlamento non rappresentativo, e cioè che non ti rappresenta, non può fare le politiche che interessano i nostri due protagonisti: far pagare le tasse a chi ha di più, impiegare più risorse nei servizi pubblici fondamentali come la salute, l’istruzione, i trasporti e magari non in opere mastodontiche e inutili, e non mettere invece il bavaglio alle autonomie locali, come è accaduto per le trivelle».

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Firme false e insabbiamenti. Il nuovo capitolo su Ustica

USTICA STRAGE 1991

No, la firma non è di Pertini. È uno scarabocchio apocrifo, lo ha stabilito il Tribunale di Firenze. E quel decreto che lo radiava dall’aeronautica militare è carta straccia. Il ministero della Difesa, condannato in contumacia, nemmeno s’è preso la briga di costituirsi. Ma intanto, da 33 anni la vita del capitano Mario Ciancarella è stata sconvolta.
Era un pilota di C130, un aereo da trasporto tattico militare, in forza alla 46ma Brigata di stanza a Pisa. La sua vicenda non è scindibile dalla controinchiesta su Ustica e poi da quella sulla morte del parà Emanuele Scieri, diciannove anni dopo. E nemmeno dagli sforzi perché si faccia luce su due morti inquietanti, quella del maresciallo Dettori e del colonnello Marcucci che, con lui, cercavano di comporre il puzzle dei depistaggi sulla strage di Ustica.

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Figura d’altri tempi, a pensarci ora, nell’epoca della retorica sui due marò: Ciancarella è stato un attivista del movimento per la democratizzazione delle forze armate, un «ufficiale democratico», si diceva allora. Fin dal suo ingresso nell’Accademia di Pozzuoli nell’autunno del ’69. Pochi mesi prima, diciottenne, era il leader dell’assemblea degli studenti medi di Pescara. Come lui, molti altri militari respirarono l’aria di quell’autunno caldo e presero a battersi perché le forze armate non fossero quella «beata insula incontaminata dal contagio costituzionale», come dirà nel 2000 il procuratore generale militare.
È un giorno di gennaio del ’79 quando Mario viene raggiunto in sala operativa dalla telefonata della segreteria personale di Pertini. Il Presidente vuole incontrare una delegazione degli 800 firmatari di una lettera aperta che reclamava le elezioni immediate dei Cobar, le rappresentanze di base dei lavoratori con le stellette. Contro di loro trecento generali ostili alla riforma. Uno di loro, tale De Paolis, avrebbe definito «nipotini delle Br» i militari democratici. Già nel ’76, a Livorno, Mario Ciancarella intervenne in pubblico contro il «marciume» nell’istituzione, fu denunciato e poi assolto perché venne riconosciuto il carattere “moralizzatore” delle sue parole.
La sera del 27 giugno del 1980 si consuma la strage di Ustica. Un paio di giorni dopo lo chiama il maresciallo Alberto Dettori, radarista a Grosseto, dice «Comandante, siamo stati noi!». Tre settimane dopo, Dettori avverte: «Comandante quella del Mig è una puttanata…». E fornisce degli elementi: gli orari di atterraggio e i missili a guida radar e a testata inerte. Sia quel giorno al Quirinale, sia nella controinchiesta, accanto a Mario c’è il colonnello Sandro Marcucci. Insieme scoprirono così che l’ultimo F104 torna alla base di Grosseto venti minuti dopo la strage, alle 21.20 Bravo (ora legale italiana); e che il Mig non aveva l’autonomia necessaria per arrivare da Bengasi. Doveva essere partito da qualche altra parte. […]

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Quando la ricerca diventa reato

Negli ultimi anni il mondo della ricerca universitaria ha conquistato, in Italia e altrove, le prime pagine dei giornali, non per i suoi successi, ma per i risvolti cupi che hanno preso le vite di alcuni studiosi.
Sono stati accusati, arrestati e a volte condannati – o uccisi – per aver svolto ricerche sul campo in zone considerate “a rischio”: a contatto, cioè, con i movimenti politici e sociali antagonisti, invisi ai governi.

Partendo dalla storia di Andrej Holm, sociologo tedesco, che è stato in carcere preventivo per sospetto di terrorismo nel 2007, siamo arrivati agli ultimi anni italiani, dove la laureanda Roberta Chiroli è stata condannata per aver partecipato a una manifestazione No Tav mentre svolgeva una ricerca in Val di Susa nel 2013 e il docente di Napoli Enzo Vinicio Alliegro è in attesa di giudizio per aver documentato una protesta del “Popolo degli Ulivi” contro il taglio delle piante in Salento.

Grazie al contributo di docenti e ricercatori, abbiamo cercato di ricostruire alcuni dei casi in cui i saperi sono stati giudicati in tribunale e la ricerca universitaria è diventata un reato, in un cammino accidentato che spesso incontra la censura anche all’interno delle università e si trasforma in autocensura.

Ma se la libertà di ricerca universitaria è minacciata, in quali condizioni vertono le altre libertà sociali?

Secondo l’antropologo Stefano Boni la ricerca universitaria è solo una delle libertà compromesse dall’“accanimento di una parte della magistratura contro un’opposizione sociale che non risparmia nessuno, l’anziana signora come il ricercatore”.

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