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Chiara Mezzalama: «la Francia va a destra». Paura e razzismo dopo la strage a Charlie Hebdo

Scritto di getto subito dopo la strage nella redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo, il libro di Chiara Mezzalama, Voglio essere Charlie (Edizioni Estemporanee, 2015), solleva molte domande e invita a continuare ad interrogarsi su quanto è accaduto e sulla reazione che hanno avuto i francesi.

All’apparenza Parigi è tornata alla normalità, ma la scrittrice italiana che vive a Parigi avverte che qualcosa di profondo è mutato. «Dopo la strage, la vita della città ha ripreso il suo corso. Le scuole hanno riaperto le porte, i mercati sono affollati, le strade trafficate, i vecchi giocano a bocce. I fiori che migliaia di persone hanno portato a Place de la République o accanto alla redazione di Charlie Hebdo sono appassiti». Ma le ferite sono ancora aperte e molto resta di irrisolto. «Capita di incontrare per strada dei militari armati come fossero pronti all’assalto – nota Mezzalama -.Ma i fantasmi sono inattaccabili, ed è questo che resta dopo gli attentati. I fantasmi sono la paura della gente, la voglia di chiudersi in se stessi, sono i voti dati all’estrema destra, il malcontento che striscia, il rifiuto dell’altro, l’ignoranza, il razzismo. I fantasmi non sono una prerogativa della Francia, attraversano tutta l’Europa, il Maghreb. Mi ha colpito molto l’attacco del Museo del Bardo a Tunisi. Morire in un museo, mentre si cerca la conoscenza, si ammira la bellezza, si impara la storia, mi sembra gravissimo».

Lo choc provocato dalla strage compiuta a freddo, in nome di Dio, ha reso i francesi sospettosi, “paranoici”, lei scrive. Ma non tutti.  Per esempio, lei racconta di una bambina musulmana e sua figlia che hanno cominciato a darsi la mano per andare a mensa.
Ai bambini non servono i concetti, le spiegazioni teoriche. I bambini rappresentano per me, in questa fase della vita, il punto di partenza di molti ragionamenti. Non è stato facile spiegare loro cosa stava succedendo, mi sono sentita a mani vuote, senza risposte. Ho iniziato a appuntare le loro domande, osservare le loro reazioni. Da questo tentativo, forse ingenuo, di mettere ordine nel caos è nato questo “diario minimo”. È da loro che occorre partire per costruire un dialogo comune che in questo momento sembra molto difficile. Il sospetto, la paranoia nascono dalla paura ma non fanno che aumentarla. Si crea così un circolo vizioso molto pericoloso. Chi viene trattato da “nemico” finisce per diventarlo.

Il motto liberté egalité fraternité, lei scrive, è diventato, in certo modo, la religione francese. E’ stato l’attacco a questi principi a mandare ancora più in crisi i francesi?
L’attentato ha messo in luce la fragilità di molti dei valori che consideravamo acquisiti. Parole consumate come liberté, égalité, fraternité hanno improvvisamente ritrovato il loro senso ma proprio questo ha permesso di osservare la distanza che esiste tra la società e i suoi valori. Le nostre società sono attraversate dall’ineguaglianza. C’è una quarta parola: laicité. Esiste un grande malinteso sulla laicità, viene intesa da molti come un attacco alla religione. Questo rischia di mandare in crisi la Francia. La ministra dell’educazione ha proposto di introdurre a scuola dei corsi di laicité. Credo che avrebbe più senso introdurre dei corsi sulla storia delle religioni. Soltanto conoscendo l’altro lo si può capire. Così come per molti francesi la religione è una questione superata, per molti musulmani non credere in Dio è qualcosa di inimmaginabile. Come si può dialogare partendo da visioni così diverse?

Lei si è trasferita in Francia per scrivere. Ha sentito l’esigenza di allontanarsi per potersi realizzare pienamente come scrittrice?
Sono partita perché quando decidi di cambiare strada, serve farlo anche concretamente. Ho sentito il bisogno di rischiare, perdere l’equilibro sul quale era costruita la mia vita. Allontanarsi dal proprio Paese di origine non può che fare bene, alimenta nuove energie. Posso permettermi di guardare alle cose con un po’ più di distacco. Ed ero anche un po’ stanca del clima pesante che si respira in Italia.

Che cosa è cambiato nel suo modo di pensare la letteratura rispetto a libri come l’intenso Avrò cura di te (Edizioni e/o, 2009) in cui emergevano memorie degli anni vissuti in Marocco?
La letteratura si è presa tutto lo spazio che le ho lasciato. Non so quali effetti avrà sulla mia scrittura, è presto per dirlo, ma ci sarà certamente un cambiamento. Per esempio ho cominciato a scrivere un diario in francese. È un esperimento molto interessante dal punto di vista linguistico. Che delle persone siano state uccise perché scrivevano, disegnavano, si esprimevano liberamente, a poche centinaia di metri dalla stanza dove adesso ogni mattino scrivo, leggo, penso, mi ha colpito profondamente. Mi sono sentita interpellata come scrittrice, oltre che come persona, da quello che è accaduto.

Per la casa editrice e/o uscirà il suo nuovo romanzo Il giardino persiano?
Sì, sto finendo di correggere le bozze del nuovo romanzo che uscirà a luglio. È un romanzo autobiografico ambientato a Teheran nel 1981, quando mio padre fu nominato ambasciatore d’Italia e racconta la storia della mia famiglia alle prese con un paese stravolto dalla rivoluzione islamica e dalla guerra contro l’Iraq. Lo sguardo è quello dell’infanzia e permette di conservare una sorta di candore anche sulla realtà più dura e cruenta. Talvolta mi sorprendo dell’involontaria attualità di ciò che scrivo. Mi sono ritrovata come madre a spiegare ai miei figli molte delle cose che i miei genitori dovettero spiegare a me quando stavamo in Iran. Scherzi del destino!

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La creazione del precario della scuola

C’è un ricorso fisiologico al precariato scolastico, che dipende dalla sfasatura temporale tra la previsione dell’organico e le situazioni di fatto ad inizio anno, a settembre. Ma se è diventato un fenomeno abnorme, si dovrà indagare tra le sacche della nostra politica clientelare, dove si consolidano le rendite di posizione. Questa massa di disperati, che preme al confine tra il precariato e l’immissione in ruolo, fa anche comodo a chi interpreta il progresso come una graduale contrazione dei diritti già acquisiti. Per chi ne ha ancora qualcuno, lo spauracchio della condizione precaria potrebbe funzionare da freno a ogni legittima rivendicazione.

Così, negli anni 80 il numero dei precari della scuola è cresciuto insieme alla spesa pubblica. Allora, per la prima volta, la politica creò una corsia di accesso al ruolo per i precari, una riserva di posti aperta in un “doppio canale”. Il 2000 fu un anno cruciale per il precariato della scuola. Le graduatorie, fino a quel momento rinnovate ogni tre anni, diventarono permanenti, mentre si allungavano i tempi del passaggio in ruolo. Nello stesso anno il Miur decise di dare contorni più netti al fenomeno e venne fuori che gli insegnanti precari erano quasi 300.000. Nel 2007 il ministro Fioroni trasformò le graduatorie permanenti in graduatorie a esaurimento, un semplice auspicio perché alle parole non corrispose un piano di assunzioni con relativa copertura finanziaria. Con il ministro Gelmini si mise in moto una spietata ruota della fortuna che, sulla base del periodo in cui si era prestato servizio e dei titoli esibiti entro una certa data, ha frantumato il fronte in quattro gruppi: i reduci del vecchio “doppio canale”, gli abilitati con servizio, gli abilitati senza servizio, i non abilitati.

Invece di disinnescare la bomba, i vari dottor Stranamore della classe dirigente hanno ampliato i motivi di conflitto moltiplicando i titoli di accesso all’insegnamento, ciascuno seguendo un’idea incongrua rispetto all’orientamento del predecessore. Alla laurea quadriennale in Scienze della formazione e alle Scuole biennali di specializzazione all’insegnamento secondario (Ssis) si sono aggiunti i Tirocini formativi attivi (Tfa) e i Percorsi abilitanti speciali (Pas). Ai precari di ogni schieramento l’un contro l’altro armato, lo Stato mostra, secondo le circostanze, l’aspetto severo del rigido selezionatore o la smorfia beffarda dell’imbroglione. Un atteggiamento irresponsabile nei confronti di lavoratori plurititolati al servizio dello Stato. C’è pure chi, tra i ministri dell’Istruzione, ha pensato di aggirare questo ginepraio con un nuovo concorso, dal momento che non se ne bandivano dal 1999. Ma per partecipare al concorso del 2012 bisognava già possedere un’abilitazione o essere laureati entro una certa data, cioè ancora una volta essere passati attraverso l’infernale ruota della fortuna del ministero.

In questo modo, tra le graduatorie ad esaurimento e quelle di Istituto, sono spuntate le graduatorie di merito, con una nuova categoria di precari, gli “idonei”, cioè gli sfortunati che hanno superato un concorso con pochissimi posti in palio. Intanto, i numeri annunciati dal governo sulla stabilizzazione dei precari si sono sgonfiati e ormai non coprono più neanche i docenti delle graduatorie ad esaurimento. Così si sono sgonfiate anche le speranze di migliaia di lavoratori a cui lo Stato affida il nostro futuro.

Auguri Pietro!

Per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, pubblichiamo due sue poesie. Perché oltre alla carriera politica del grande comunista, vogliamo sottolinearne l’amore per la poesia, per il cinema. «Non un freddo, ma un poeta», ha detto di lui la sorella Giulia sabato scorso a Lenola, il paese dove Pietro è nato il 30 marzo 1915.  Intanto domani, 31 marzo, alle ore 21, su Rai Storia andrà in onda il documentario Un compagno scomodo di Pietro De Gennaro e Giuliana Mancini.

EPPURE

Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c’è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell’ansia
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d’ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell’esistere.

(Conflitti, da L’alta febbre del fare, 1994)

FRATELLANZE

Fluttuando in alto alla luna, perduti
i codici,
ultimo su colline
di morti, m’abbracciavo
a frantumo di ramo
dolcemente scoprivo
fianchi, i seni, il morbido
cavo del ventre, non potrei dire
le palme e se c’era
un fiato, succhiando, ma il sonno, l’ombra,
la smisurata luce,
ostinato indagando scrutavo
le pesanti nodose palpebre
se di fronte a me
s’aprissero.

(Corpi, da L’alta febbre del fare, 1994)

Il mondo gira, ma non troppo. E comunque a destra

Proviamo a immaginare un mondo in cui Bush sia presidente degli Stati Uniti d’America, Sarkozy capo di Stato in Francia, Angela Merkel Cancelliera in Germania. Nel 2017 l’asse del pianeta potrebbe essere di nuovo riallineato con questi nomi e, di conseguenza, spostato radicalmente a destra. Fantascienza? No. Una minaccia per la sinistra autodistrutta in Europa o sepolta sotto l’ondata di movimenti neo populisti (Grecia a parte)? Sì.

Una minaccia per il mondo? Le parole della star di Hollywood Sean Penn («Ringrazio l’amministrazione Bush per aver creato l’Isis») sono una semplificazione che però rende l’idea della responsabilità americana nella destabilizzazione dell’area mediorientale. Rimpiangeremo mr. Obama? Senz’altro. Qualsiasi sarà la nuova amministrazione a stelle e strisce vincitrice nel novembre 2016 difficilmente sarà più a sinistra. Appariranno subito lontani i tempi della riforma sanitaria e degli sgarbi istituzionali al premier di Israele Benjamin Netanyahu, un altro che appare destinato a regnare ancora a lungo, anche sui territori occupati del popolo palestinese. Altro che due Stati.

La normalizzazione verso destra in America è destinata a compiersi sia con un’eventuale vittoria di Hillary Clinton, sia con lo sciagurato ritorno alla Casa Bianca di un Bush, questa volta Jeb, governatore della Florida, fratello di George W. e figlio di George I. Sempre gli stessi nomi, sempre le stesse dinastie. E, a volte, l’eventuale rottamazione può apparire anche più minacciosa del già nefasto passato.

La corsa alle elezioni presidenzialidel 2016 è iniziata con la prima candidatura ufficiale in campo repubblicano: quella di Ted Cruz. Radicale della destra liberista e oltranzista del Tea party, più presentabile di Sarah Palin ma con le stesse idee sull’aborto e sui migranti. Sua madre è nata in Delawere, il padre è cubano e lui, parlamentare eletto in Texas, è nato in Canada. La maternità dovrebbe garantirgli la possibilità alla candidatura, ma la Costituzione degli Stati Uniti non è chiara su questo punto. Vedremo. Intanto è in corsa. Ha anticipato tutti i partecipanti alle primarie repubblicane con un tweet: «C’è bisogno di una nuova generazione di conservatori coraggiosi per rendere l’America grande di nuovo e sono pronto a stare al vostro fianco per guidare la lotta».

In politica estera è un super falco, vorrebbe riportare gli States a primo gendarme del mondo. Divenne famoso bloccando in Senato la riforma sanitaria con un discorso lungo 21 ore consecutive senza interruzioni, roba da record che la provincia americana apprezza molto. Alla fine a favorire il terzo Bush, soltanto sulla carta più moderato, potrebbe essere l’altro esponente radicale del Tea party Rand Paul, che pesca nello stesso bacino elettorale di Cruz.

In Francia le ultime elezioni amministrative hanno riportato in alto la stella destrorsa di Nicolas Sarkozy, che vince contro il grigiore triste di Hollande e il pericolo nero lepenista, mentre sembra già passato un secolo dalla strage di Charlie Hebdo con le periferie della capitale e di città come Marsiglia che continuano a ribollire di odio, degrado e violenza. Tra gli altri danni causati dalla sua presidenza la guerra di Sarkozy alla Libia di Gheddafi nel 2011 è solo l’ultimo atto di elefanti nelle cristallerie arabe.

Intanto, la Germania dell’austerità imposta all’Europa dei poveracci continua a essere il teatro del lungo regno rigorista della lady di ferro che viene dall’Est. L’Italia non è forse più quella di nani e ballerine berlusconiani ma il radicalismo e la violenza delle scelte di destra appare anche superiore in epoca renziana. E in questo gioco di pedine inamovibili, guardando “oltre cortina”, s’intravede ancora il Kgb con un nome e cognome: Vladimir Putin. Il mondo gira, ma non troppo e comunque verso destra.

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Il popolo di Landini in piazza, un segnale di lotta ma il cammino è lungo

«La piazza è importante. Per tutti noi essere qui è fondamentale. Significa tornare a casa sapendo che comunque qualcosa esiste a sinistra, che qualcuno ci prova. Che non ci arrendiamo, anzi, che non ci arrenziamo, come ho letto in un cartello». L’uomo alto con la barba e gli occhi chiari non è un operaio e non è un disoccupato. Appartiene al ceto medio, adesso è in pensione, una buona pensione, ma non rinuncia all’idea di una sinistra per cui ha vissuto tutta la vita. Una sinistra che difenda i diritti dei più deboli, che si regga sulle due gambe dell’uguaglianza e della libertà contro il dominio del mercato e della politica succube a chi quel mercato comanda. Questa immagine dell’uomo che è contento per “il segnale” dato da Landini è significativa di quel che è accaduto ieri a Roma.

Serietà, impegno, attesa. Queste le parole che sembrano distinguere quel popolo attraversato dalle bandiere rosse della Fiom. Un popolo di uomini, perlopiù, adulti, ma anche di molti giovani, operai e studenti, senza quella folla abituale di pensionati che ha caratterizzato in passato molte manifestazioni della Cgil.

Il giorno dopo, è come se Piazza del Popolo rappresentasse un segnale, appunto. Non solo all’esterno – il Pd e la sua sinistra statica, Sel e gli altri gruppi, la Confindustria, il governo Renzi (definito peggio di quello di Berlusconi) – ma all’interno, ovvero a quel mondo del lavoro sempre più disgregato tra chi i diritti ce li ha ancora e chi invece, i nuovi assunti dopo il Jobs act, no. Il richiamo a come sono nate le Unions nell’Inghilterra di fine Ottocento, a Di Vittorio e all’eroico tentativo di difendere i diritti di tutti i cittadini, anzi, i diritti “sul luogo di lavoro e fuori del luogo di lavoro”, sono un messaggio agli iscritti della Fiom, della Cgil, e a tutti i lavoratori.

Ma quello di Landini non si è limitato ad essere un discorso di testimonianza, bensì una proposta di lotta politica: riscrittura dello Statuto dei lavoratori, abbassamento età pensionabile,  riduzione dell’orario di lavoro, referendum sul Jobs act. Lotta politica, dunque. Anche se molti di quelli che sono venuti in piazza del Popolo per “vedere Landini” avrebbero preferito uno sguardo più largo sul mondo delle partite Iva, dei lavori al nero, dei dipendenti di serie B, esternalizzati, interinali, disoccupati. Ma forse è solo l’inizio.

Se si parla di coalizione sociale, per forza di cose si dovrà prendere in considerazione quella fetta di milioni di persone, quella “terza società” su cui perfino Luca Ricolfi del Sole24ore pone l’accento. Quella “maggioranza invisibile” di cui parla Left questa settimana. Se Landini e i suoi si dimenticano di quell’universo nascosto e se si dimenticano di innovazione e politiche del lavoro che superino il manifatturiero, le prospettive di incidere si ridurranno moltissimo. C’è troppa delusione in quel mondo di invisibili. Al tempo stesso la coalizione sociale dovrebbe fare della scuola e del sapere un cavallo di battaglia. Non è un caso che quando Stefano Rodotà ha accennato alla scuola abbia ricevuto il più grande applauso. Il sapere è un tema “sensibile” come il lavoro.

Lotta politica e azione collettiva. Maurizio Landini ha salutato Piazza del Popolo con dei versi di Neruda: “Quest’anno nuovo è nato più da te che dal tempo, prendi il meglio e consegnalo alla lotta”. Splendide parole che non si sentivano da tempo.

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Il caffè di Tunisi

A Tunisi è un freddo pomeriggio di gennaio. Nel quartiere di Bab Souika, due amici siedono al solito caffé sorseggiando l’omonima droga bollente dentro bicchierini di vetro spesso. Anche la nuvola di fumo di sigarette è spessa eppure, come fosse una parete di vecchie ragnatele, viene fatta a pezzi dai due ragazzi a forza di parole. Uno si chiama Mohamed Zouaoui, 23 anni, sbarbato, capelli castani, fronte alta. Suo padre ha origini algerine della Cabilia e, come tutti i berberi, ha imparato a convivere con gli arabi già da diversi secoli. Ma i francesi non li ha mai sopportati. E infatti il figlio ha dovuto studiare prima nella scuola coranica e poi nella moschea di Al-Zaytuna finché un giorno ha detto basta e ha cominciato a mantenersi come calzolaio, mestiere imparato nel suq. Mohamed si veste soltanto all’occidentale, è diventato un buon centravanti e, per semplificarsi la vita, parla anche la lingua dei colonizzatori. Schiaccia con le dita il cadavere di una sigaretta senza filtro nel piattino opaco di stagno che funge da posacenere e guarda l’amico negli occhi: la decisione è presa. Non si torna indietro.

L’altro è Hedi Kallel, 19 anni appena fatti, gran difensore e tanta voglia di giocare in un grande club. E la decisione presa è proprio quella di fondare una squadra di calcio. È il 1919, ancora presto perché la Federazione di Parigi divida l’Algeria nelle tre leghe di Algeri, Orano e Costantina e perché lasci che Marocco e Tunisia possano dar vita ciascuna al proprio campionato. Tutti i tornei disputati finora sui campi di Tunisi non hanno mai avuto in palio altro se non il primato cittadino. Un primato conteso, ogni anno in maniera sempre più aspra, dalle solite squadre: il Racing, lo Sporting e lo Stade Gaulois del ricco Henri Smadja. Ultimamente c’è anche l’Union Sportive, frutto della fusione imposta dal governo tra lo Stade Tunisois, espressione della comunità ebraica, e lo Stade Africain, quella con più tifosi nella maggioranza araba. La minoranza italiana, invece, deve ancora organizzarsi.

«Le nostre maglie avranno colori della vittoria e, quando la Tunisia sarà finalmente indipendente, diventeremo il club più forte del Paese». Hedi ascolta in silenzio e Mohamed continua: «I francesi non ci rifiuteranno la registrazione, vedrai, anche a costo di nominare presidente Louis Montassier in persona», «Il segretario del governo?! Tu sei pazzo!» risponde Hedi con occhi brillanti e con il caffé arrivato al fondo. «Non sono pazzo. Un giorno gli stadi saranno di tutti. Così come saranno di tutti i cinema, i teatri, le scuole, le spiagge, le strade e le piazze. E il campionato sarà quello di una Tunisia nuova e diversa. Dimmi un po’, tu le vedi le donne qui dentro?». Kallel si guarda intorno e non risponde. È ora di andare a casa. Zouaoui lascia due monete sul tavolo, si alza, batte la mano sul cuore per ringraziare il padrone ed esce.

Anche Hedi si alza, saluta tutti e segue l’amico più grande. «Ma al nome della squadra ci hai pensato?». I due sono ormai all’esterno, circondati dal buio della sera. Mohamed accende un’altra sigaretta proteggendo con la mano il fiammifero dal maestrale: «Si chiamerà come questo posto». Hedi sorride un’altra volta mentre intorno a loro la città è illuminata alpunto giusto e mentre il vento continua a far dondolare l’insegna. L’insegna del Cafè de l’Esperance.

Yosonu: one man orchestra

La musica contemporanea non lo butta affatto giù, anzi. Peppe Costa, calabrese, classe 1980, compone senza l’impiego di alcuno strumento musicale. O, almeno, nessuno strumento tradizionale. Chitarre, tastiere e batteria lasciano il posto a piccoli vasi di ceramica e metallo, tubi di plastica e carta, scarti di polistirolo e legno, penne e spazzolini. Ci sono anche una bacinella per i panni, un colaposate, una scopa e una paletta. Costa li predispone con cura sul tavolo, proprio come fossero i membri di un’orchestra, ne prende per mano uno per uno e li porta a sé, verso il proprio torace. Ogni oggetto è uno strumento solista. Sul palco con lui anche due microfoni: uno per la voce e gli oggetti l’altro, appunto, sul torace.

Il progetto Yosonu ha un approccio che Costa ha mutuato dai laboratori di propedeutica musicale per bambini, di cui tra l’altro si occupa. Il suo percorso di studi segue la linea pedagogica di Carl Orff. Dal 6 marzo Peppe Costa è  in viaggio in lungo e in largo per il Paese: undici concerti in quindici giorni, un tour de force che lo vedrà esibirsi anche a Roma il 29 marzo al live club Fanfulla 5/A. A spasso con lui porta il suo primo disco, Giùbox, interamente registrato in casa. «Più precisamente, dentro l’armadio di casa», precisa Costa, «con un materasso alle spalle e gli abiti appesi lì davanti. Era l’unico posto asettico del mio appartamento».

Persino la confezione del disco è “home made”, progettata e realizzata dallo stesso Costa. «Quello che è venuto fuori sono poliritmie, riff che si ripetono e diventano “mantra”, diplofonie e testi desemantizzati», continua il musicista. Le influenze sono eterogenee: da John Cage a Bobby Mc Ferrin, dagli Area ai Daft Punk. Per farla breve, quello di Yosonu non è solo un album, ma un vero e proprio esperimento. Che continua durante i live, in cui Costa mantiene un paio di fraseggi del disco per poi liberare l’improvvisazione. I suoni, tra le mani e tra le corde vocali di Peppe Costa, si fanno umani. «Una musica “a costo zero”», sostiene il musicista. E anche ascoltarla non costa niente, basta andare sul loro sito.

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«Applicando l’analisi all’idealismo» si prega di aprire gli occhi

«Ogni individuo si muove, pensa, domanda, dubita, indaga, vuole sapere; e se è vero che, forzato dall’abitudine ad adattarsi, finisce prima o poi per dare l’impressione di essere sottomesso alla visione dominante, non si deve credere che questa sottomissione sia definitiva». Lo scriveva non molto tempo fa un giovane professore italiano a Oxford (ora a Parigi), Emanuele Ferragina, oggi coautore della nostra storia di copertina, nel suo libro La maggioranza invisibile.

«Noi non ci stiamo. Vogliamo provare a cambiare. Vogliamo ascoltare tutti e proporre una sintesi diversa ». Lo diceva qualche giorno fa il meno giovane segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, lanciando una nuova “coalizione sociale”: «Dobbiamo riconoscere i nostri ritardi e i nostri errori, riunificare il lavoro e allargare la rappresentanza», così ha detto. Lavoro e lavoratori per il sindacalista, la maggioranza del Paese fatta di uomini e donne, resi invisibili da una politica che ha scelto di essere cieca, per il giovane professore di Oxford.

Distanti storicamente e culturalmente, i due in questi giorni, per uno strano caso o forse no, sembrano quasi parlare la stessa lingua. Diritti universali, la garanzia di un reddito minimo, una nuova visione del mondo del lavoro. «Un lavoro che non deve per forza accrescere il Pil, ma deve contribuire all’accumulazione sociale di ricchezza», come scrive Ferragina. «Un lavoro con i diritti. E un reddito minimo garantito che permetta di sottrarsi alla ricattabilità e alla precarietà. Che permetta di scegliere», chiosa Landini.

C’è un «gigante bambino», come chiama il giovane professore la sua “maggioranza di Paese” invisibile perché annullata da una politica che ha scelto di chiudere gli occhi, e non rappresentata da un sindacato rimasto vecchio, che aspetta di essere visto e rappresentato. «Il mondo ci è cambiato sotto i piedi e noi continuiamo a guardarlo con lenti vecchie. La nostra società è – continua a essere – preda di un’enorme miopia». Donne e uomini. Disoccupati, Neet, pensionati meno abbienti, migranti e precari. Ignorare questa realtà sociale genera iniquità e «significa scegliere la cecità», il professore insiste. Il sindacalista, a distanza, prova a rispondere, rompe il fronte disperso e rinunciatario di una sinistra che non c’è e che pensa di non potere più nulla contro il nuovo Cesare Renzi.

Landini chiama tutti in piazza perché ci sono da fare delle battaglie insieme: il referendum sul Jobs act, la rivendicazione del salario minimo, la patrimoniale sui grandi patrimoni, la lotta all’evasione fiscale e l’abbassamento drastico dell’età pensionabile. Questa è la base sulla quale vuole unire la sua maggioranza “visibile”. Unions!, così chiama la prima piazza della sua coalizione sociale. Usa una parola straniera che richiama le origini del movimento operaio e sindacale quando, tanti anni fa, per conquistare libertà e diritti, donne e uomini si coalizzarono.

Lo incalza a distanza il giovane professore: «Ostinati e contrari all’ideologia dominante», alle “rivoluzioni passive”, ai partiti pigliatutto, ai novelli Cesare, c’è da riumanizzare lo spazio sociale «sulla base di un proposito onesto». E sembra suggerirgli: «Occorre promuovere l’agenda dell’uguaglianza efficiente. Primo tassello di un’ambiziosa piattaforma politica di lungo periodo: migliori servizi, maggiori investimenti nell’università e nel capitale umano, un welfare state universale». Perché «il cambiamento che vogliamo, in realtà è lì, basta inseguirlo collettivamente. Ma per farlo bisogna tornare ad avere il coraggio di contemplare quell’idea di cambiamento, rimirarla, concepirla insieme come un obiettivo possibile. Un obiettivo non utopico». «Applicando l’analisi all’idealismo» c’è da guardare la realtà con occhi diversi per  ricostruire «una nuova visione del mondo». Si prega di aprire gli occhi, aggiungiamo noi.

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La luce viva di Morandi fino al 21 giugno al Vittoriano di Roma

Morandi non è il pittore delle bottiglie e della polvere intrisa di nostalgia gozzaniana. Come perlopiù si dice. Modernissimo, sensibile, instancabile sperimentatore fra olio, acquerello, incisione, il suo sguardo era del tutto anti naturalistico. Nel Complesso del Vittoriano dove – fino al 21 giugno – è aperta la mostra Giorgio Morandi, 1890-1964, le sue composizioni di oggetti verniciati ci vengono incontro come luminosi orizzonti urbani fatti di segni geometrici; le sue bottiglie dal collo lungo svettano nel cielo e i suoi fiori di carta, lontani da ogni intento mimetico, più che impressionistici annunci di primavera, appaiono come eleganti composizioni architettoniche.

Da vivere, più che annusare. A Morandi non interessava dipingere in termini oggettivi ciò che aveva davanti agli occhi, ma trasfigurava gli oggetti in evocative presenze, fin quasi a farne dei segni astratti. Che catturano l’attenzione dello spettatore come fossero fotogrammi di una visione interiore, come un flusso musicale di suggestive modulazioni tonali, via via sempre più delicate fin quasi a scomparire.

Questa straordinaria retrospettiva romana che Maria Cristina Bandera dedica al pittore emiliano, dopo 15 anni di studi e una mostra al Metropolitan Museum di New York, non si limita a ricostruirne il percorso in senso filologico ma, attraverso precise sequenze, riesce a mettere in risonanza 150 opere fino a farne un unico flusso vitale che avvolge e seduce lo spettatore. Passando dalle prime composizioni cubiste, in cui gli oggetti paiono scomposti, a quelle inondate da luce radente e quasi marmorizzate (in cui la curatrice ci fa scoprire non solo accenni a Piero ma anche alla londinese Cena di Emmaus di Caravaggio), per arrivare a composizioni via via sempre più sintetiche e a nature morte dove i contorni sembrano dissolversi, farsi sfrangiati, impalpabili.

Non c’è ombra di metafisica nella luce e nel nitore di questi dipinti morandiani, abitati da un silenzio ricco di sfumature. Solo dal vivo si scopre la speciale forza del colore di Morandi (che nessuna riproduzione può catturare) anche quando il quadro è realizzato solo in una scala di bianchi e grigi, si scopre la vena di inquietudine che percorre gli acquerelli in cui le forme appaiono in negativo e la fine stilizzazione di incisioni su lastre dorate, con cui evocava paesi spogliati da ogni significato realistico. «Morandi è partito da Cézanne per fare una cosa più moderna», suggerisce la curatrice nel catalogo Skira. Ne ha ricreato la poetica per arrivare alla sintesi, all’essenziale.

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