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Il grande circo dei rimpatri

Le fascette ai polsi valgono più delle sentenze. Sono il manifesto da campagna elettorale permanente, il trofeo agitato contro le telecamere per dimostrare che “la pacchia è finita”. I migranti trasferiti in Albania legati come pacchi, esibiti come criminali, sono il prezzo pagato per un racconto che ha bisogno di cattivi da punire più che di soluzioni da costruire. Piantedosi rivendica. Salvini sghignazza. E nel frattempo, come ha denunciato Cecilia Strada, quei trasferimenti sono avvenuti senza alcuna informativa, con le fascette strette anche durante i pasti e per andare in bagno.

Dietro lo show, il fallimento: un protocollo da un miliardo di euro, che moltiplica i costi per ogni trasferimento e obbliga al ritorno in Italia prima di ogni rimpatrio. Una macchina assurda che somiglia più a un baraccone itinerante che a una politica migratoria. Ma funziona, perché mette in scena la cattiveria come virtù e la forza come propaganda.

Intanto, i numeri smentiscono l’allarme: il Viminale certifica il 28% in meno di sbarchi rispetto all’anno scorso. Eppure l’emergenza resta, perché serve. Serve a coprire i tagli, a distrarre dai fallimenti, a fare l’ammuina. Si cambia la destinazione, non la logica. Il Cpr albanese è solo il remake fuori confine dei lager amministrativi italiani.

In questa rappresentazione, la disumanizzazione diventa linguaggio di governo. Chi arriva in Italia viene trattato come rifiuto speciale, chi contesta viene accusato di debolezza. E intanto un’intera democrazia si abitua al filo spinato come ornamento istituzionale. Fino alla prossima foto. Fino alla prossima umiliazione da sbandierare come vittoria.

Buon lunedì.

Foto WMC

In cerca dell’assoluto. La fotografia di Franco Fontana all’Ara Pacis

03. Mare del Nord, 1976© Franco Fontana

Negli anni Settanta dello scorso secolo chi scrive era studente di architettura e allo stesso tempo un giovane dedito al lavoro della pittura. Scoprì a quel tempo le fotografie di Franco Fontana (classe 1933) a cui oggi Roma dedica una importante retrospettiva nel museo dell’Ara Pacis (sino al 31 agosto). La scoperta fu folgorante forse perché Fontana rappresentava l’esatto opposto di quanto il fotografo francese Henri Cartier-Bresson aveva delineato quale destino della fotografia. Per Cartier-Bresson la fotografia era l’arte dell’attimo. Lo chiama l’instant decisif. Era solo la fotografia che poteva consegnare al tempo futuro, il fumo che usciva in quel secondo dai tombini, le chiacchiere di due ragazze col cappellino in un bar di Parigi, la morte improvvisa di un legionario nella guerra spagnola. Sembrava una tesi convincente, ma le fotografie di Fontana erano l’esatto contrario della ricerca dell’attimo, era una ricerca di assoluto. Colpiva delle sue foto un respiro profondamente astratto. Le fotografie di Fontana appiattiscono, riportano al piano, ogni tipo di profondità. E’ una fotografia in chiave anti-prospettica e astratta. L’ambiente naturale nelle sue foto si trasforma in un collage di campi di colore che fanno pensare a Paul Klee: una vista marina si concentra solo sulla linea chiara che corre sull’orizzonte a separare il campo del cielo da quello del mare. Se erano raffigurate forme del costruito mai nessun elemento accessorio era aggiunto. Come Carlo Belli in KN aveva illustrato alla cultura italiana degli anni Trenta, l’astrazione ha sempre (e certamente in Fontana) una forte vocazione spirituale. Sembrava respirare profondo con quelle foto. Al giovane pittore di allora, molto influenzato dal critico Pierre Francastel che spiegava il cambio del concetto di spazio dal Rinascimento al cubismo, queste fotografie diedero una chiave per portare avanti quello stava anche lui cercando. In architettura perseguire questa via era impervio perché si era negli anni della Tendenza e di Aldo Rossi che ricercava al contrario valori figurativi in architettura: una fortezza, un casolare sul mare, un cimitero-città una nave-teatro. Ma in pittura sì che il pensiero di Franco Fontana poteva affilare lo sguardo. “Non si tratta di conservare il passato – scrisse Theodore Adorno – ma di realizzare le sue speranze”. Così le foto di Fontana aiutano a scoprire quello che la realtà che ci circonda non riesce ancora a essere.

L’autore: Antonino Saggio è architetto, docente universitario, saggista e editore
Foto di Franco Fontana Courtesy Museo Ara Pacis 03. Mare del Nord, 1976 © Franco Fontana

Se i detenuti aumentano, licenziamo i giudici. Nordio riscrive il Codice penale

In un Paese dove ventisei persone si sono già tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno, dove il personale penitenziario è allo stremo e i posti letto si moltiplicano solo nei comunicati, il ministro della Giustizia ha pensato bene di alleggerire l’atmosfera: “La colpa del sovraffollamento è dei magistrati che mandano in carcere le persone”. Un’affermazione che non meriterebbe nemmeno commento, se non fosse che a pronunciarla è il responsabile del sistema penale italiano.

Carlo Nordio è il Guardasigilli che ha firmato i decreti Caivano e Sicurezza, che ha inasprito pene, aumentato l’arresto in flagranza e gonfiato la detenzione preventiva. Ora scopre con candore che le carceri sono piene. E, invece di interrogarsi sulla qualità delle leggi o sull’assenza di una politica penitenziaria, punta il dito su chi quelle leggi le applica. I magistrati, colpevoli di fare il loro lavoro.

La logica si piega alla propaganda. Il Dap è acefalo da mesi, i percorsi alternativi alla detenzione sono sottofinanziati, la magistratura di sorveglianza è trattata da comparsa. Mancano interventi strutturali, mancano investimenti, manca soprattutto l’intenzione di riformare davvero. E mentre le celle scoppiano e i numeri parlano chiaro, il ministro si limita a lanciare battute, come se il suo ruolo fosse quello del commentatore, non del responsabile. Un uomo assente, che trasforma l’inerzia in accusa e il caos in colpa d’altri. Con buona pace di chi muore dietro le sbarre.

Buon venerdì.

Foto AS

Paragon, Mediterranea, il Copasir. Ma Cancellato?

Francesco Cancellato

Ieri, di fronte ai membri del Copasir, si sono seduti i rappresentanti di Paragon Solutions, l’azienda israeliana che produce lo spyware Graphite. È stata l’occasione per fare il riassunto. Il 31 gennaio l’azienda aveva sospeso i rapporti con l’Italia dopo la diffusione delle prime notizie sul possibile abuso di Graphite sugli smartphone degli attivisti di Mediterranea e del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Poi, il 5 febbraio, Paragon avrebbe deciso di rescindere definitivamente i suoi contratti con l’Italia per violazione delle clausole etiche. Rescissione bloccata il 14 febbraio, quando l’intelligence italiana e Paragon hanno deciso di sospendere l’uso di Graphite in attesa dell’audizione del Copasir.

Sappiamo ormai con notevole grado di certezza che i servizi segreti italiani hanno usato lo spyware contro alcuni attivisti della Ong Mediterranea su impulso della Corte d’Appello di Roma per “attività di controllo preventive”. Peccato che, in caso di indagine, qualsiasi informazione carpita con quel metodo non sia utilizzabile in fase processuale.

Continuiamo a non sapere, invece, chi abbia voluto ascoltare Francesco Cancellato, direttore di Fanpage. Un giornalista spiato senza che si sappia da chi è roba che farebbe impallidire perfino Orbán, soprattutto se quel direttore ha guidato un’inchiesta all’interno del partito della presidente del Consiglio per raccontarne i pericolosi legami con l’ideologia fascista.

Cancellato però sconta due peccati mortali: l’invidia dei colleghi e l’indolenza della politica. Quindi, per lui, solo silenzio.

Buon giovedì.

Foto dal profilo FB di F. Cancellato – Credits Ciaopeople

Un kit di sopravvivenza per la pace

Il 24 settembre 1938 Benito Mussolini, dinanzi a 100mila persone radunate a Belluno, chiese: “burro o cannoni?”. Il regime fascista scelse i cannoni e sappiamo tutti come finì. “Preferite la pace o il condizionatore acceso?”, chiedeva il 6 aprile 2022
l’allora Presidente del Consiglio italiano Draghi, rivendicando l’invio di armi a Kiev e la via militare come unica strada di fronte all’invasione russa dell’Ucraina.
Tre anni dopo, aprile 2025, non abbiamo la pace e per tenere acceso il riscaldamento d’inverno e il condizionatore d’estate paghiamo bollette alle stelle: +56,5% rispetto al 2019 quelle elettriche; +90,4% quelle del gas (dati Confcommercio).

Ancora una volta le classi dominanti scelgono il sentiero del riarmo. Fino all’altro ieri ci hanno detto che soldi non ce n’erano. Che il debito, il deficit, i vincoli, l’austerità, ci imponevano di stringere la cinghia. Niente per i nostri salari, i nostri ospedali, le nostre scuole, i nostri territori. Oggi, all’improvviso, crolla tutto. I “sacri” vincoli di bilancio sono falsi idoli che cadono da un giorno all’altro. I soldi appaiono. A palate: 800 miliardi. Ma per le armi, per riempire le tasche dei mercanti di morte, i portafogli delle grandi imprese belliche, tra cui le italiane Leonardo, Fincantieri, IDV. Che stappano champagne (o spumante, per i più nazionalisti).

Le grandi famiglie politiche europee sono d’accordo. Si dividono sui particolari: chi per il riarmo nazionale, chi per la Difesa comune europea. Chi i soldi vuole prenderli facendo debito comune, chi da nuovi tagli sociali, chi addirittura dai fondi europei per la coesione.

Nessuno però mette in discussione il diktat Nato che impone l’aumento delle spese militari (e, invece, oltre al diktat dovremmo mettere in discussione la presenza in Europa e la sopravvivenza stessa dell’Alleanza Atlantica). Al summit di giugno decideranno la percentuale: 3%? 3,5%? 5% come chiesto da Trump? Qualunque sarà, a oggi nessuno contesta la logica di fondo: tutti accettano supinamente il regime di guerra che vive della narrazione di una minaccia esistenziale di fronte alla quale avremmo la necessità di armarci. Hanno però un grande problema: sempre più persone non se la bevono. Ci hanno provato anche con uno stratagemma semantico: esce di scena il “ReArmEurope”, entra il “Readiness 2030”. La strana coppia Meloni-Sanchez ha insistito per il cambio di nome. Non certo di sostanza. Come se, parafrasando il test dell’anatra, un piano “che sembra un riarmo, cammina come un riarmo e starnazza come un riarmo”, possa essere cosa diversa dal riarmo solo perché non usiamo questa parola.

Ma niente. La maggioranza dei nostri popoli è contraria a qualsiasi forma di riarmo. Chiede più diplomazia, non più carri armati. Medici, non bombe. Borse di studio, non missili. Messa in sicurezza dei territori, non droni militari. Case, non bunker. Energia pulita, non ordigni atomici. Secondo un sondaggio Euromedia Research per La Stampa, il 94% degli italiani è contrario all’invio di truppe in Ucraina e l’87% a finanziare l’acquisto di armi.

Un’enorme maggioranza attaccata e schernita dal potere politico e mediatico. Proprio a commento del sondaggio Euromedia Research, l’1 aprile un editorialista di punta de La Stampa, quotidiano “progressista”, di proprietà di quella stessa Exor della famiglia Agnelli che possiede un’impresa bellica, Iveco Defence Vehicles, scriveva: “Un dato del genere sorprende anche chi è abituato a considerare l’Italia non proprio un Paese di eroi”.

Centodieci anni dopo l’ingresso dell’Italia nella carneficina della Prima Guerra Mondiale (24 maggio 1915), la retorica dei guerrafondai è sempre la stessa: allora ci chiamavano “panciafichisti”, oggi usano un meno poetico “pusillanimi”. Oggi come allora, contro il kit bellico di von der Leyen, Nato e governi nazionali, dobbiamo costruire il nostro kit di sopravvivenza popolare, per la pace e per il futuro: a partire dalle mobilitazioni popolari nelle strade delle nostre città, trasformando il rifiuto del riarmo in una forza politica, sociale, culturale.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo
Foto PAP

La ferocia non prevista dal codice

Ricordava martedì la presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio che l’overkilling, ovvero il numero spropositato di colpi inferti, «è una modalità esecutiva tipica del femminicidio». Settantacinque coltellate inferte durano un’eternità. Si dovrebbe, questa mattina, provare in classe il movimento della mano dall’alto verso il basso per settantacinque volte di seguito.

Le motivazioni della sentenza di ergastolo nei confronti di Filippo Turetta, femminicida di Giulia Cecchettin, hanno aperto il dibattito su come possano non essere considerate crudeli settantacinque coltellate di seguito sul corpo straziato della ragazza. Lega, Forza Italia, Alleanza Verdi e Sinistra, Movimento 5 Stelle ieri hanno ritenuto “inaccettabile” la mancata crudeltà sancita dai giudici.

L’avvocato della famiglia Cecchettin sottolinea che «Giulia ha vissuto una lucida via crucis e Turetta non ha avuto tentennamenti, ha protratto sempre di più il suo patimento, è enorme il numero di colpi ma sono enormi i tempi. Giulia è stata lucida per molti terribili minuti, si è vista sequestrata, tacitata, colpita, ha percepito forte il senso della fine».

Per i giudici quelle settantacinque coltellate sono invece la dimostrazione dell’imperizia di Turetta. Ha dovuto colpire ripetutamente perché non aveva le competenze per eseguire un lavoro veloce e “pulito”.

Ma la legge è fatta per essere corretta, perfino riscritta. Se l’overkilling è un carattere distintivo del femminicidio, basta un ripensamento dell’attuale modalità di giudizio, magari con la larga maggioranza indignata di ieri. Quello è il compito della politica.

Buon mercoledì.

Nerone ha preso la tessera del club

L’incendio divampa e Lui affina lo swing. Le borse bruciano, i fondi pensione evaporano, gli economisti scappano in diretta tv, ma Donald Trump si ritira nei suoi fairway sauditi come un autocrate da operetta convinto che basti un colpo di driver per spegnere le fiamme. Gli Stati Uniti sono a un passo dalla recessione, lo scrive persino il Wall Street Journal, eppure l’unica breaking news dalla Casa Bianca è la vittoria del presidente a un torneo di golf.

Anche i padroni del capitale — quelli che l’hanno incoronato — ora si lamentano. Jamie Dimon, Elon Musk, Larry Fink, Bill Ackman: miliardari che invocano razionalità, come se non avessero finanziato l’irrazionale. Piangono sul fuoco che hanno acceso. Ma Paul Krugman li inchioda: “Chi ha messo al comando questi malevoli pagliacci?”

Nel frattempo Trump affila le leggi speciali. Il 20 aprile potrebbe invocare l’Insurrection Act, la legge marziale. Non per un’emergenza, ma per difendersi dalla democrazia. È l’America delle borse che crollano e della polizia in assetto da guerra. È il capitalismo che ha fatto il giro completo: prima lo show, poi l’autocombustione.

Nerone suonava la lira mentre Roma bruciava. Trump gioca a golf. Ma stavolta, a bruciare, è il mondo.

Buon martedì.

Perché la forzatura pro Europa non aiuta né l’europeismo né l’Europa

Se già c’era stato qualcosa di ambiguo nell’invito a scendere in piazza “per l’Europa” del 15 marzo scorso – lanciato da Michele Serra e dal giornale Repubblica e raccolto dalle forze politiche del centro-sinistra, da organizzazioni sindacali, associazioni e singoli individui, che sono tutti andati con le motivazioni più varie – la manifestazione ha poi rivelato come fosse una chiamata in favore del riarmo, dell’idea che siamo minacciati e dobbiamo quindi prepararci a difenderci (con buona pace dei tanti “no war” presenti). L’adunata ha così avuto due effetti, dentro e fuori la piazza.

Il primo è stato quello di evidenziare tanto la contrapposizione tra i sostenitori del “riarmo” e i suoi oppositori, ma anche tra chi sostiene la necessità di una difesa “comune” e chi, invece, guarda con favore al riarmo dei singoli Paesi membri. L’appello alla piazza ha infatti coinciso con la decisione di Ursula Von der Leyen di procedere con il piano ReArm Europe che prevede l’aumento fino a 800 miliardi di euro della spesa militare dei Paesi membri – fuori dai vincoli del patto di stabilità – senza affrontare il tema della difesa comune.

I Paesi europei, però, già sono tra quelli che più spendono in armamenti nel mondo. Secondo i dati di fonte Nato, i Paesi membri europei hanno destinato nel solo 2024 ben 470 miliardi di dollari alla spesa militare – contro i 968 degli Usa e i 146 della Russia –, in aumento per il decimo anno consecutivo, di cui 86 della Germania (è il secondo Paese Nato per ammontare), 81 del Regno Unito e 64 della Francia. Consentire un aumento della spesa dei singoli Paesi fino a 800 miliardi, ovvero il triplo del valore annuale attuale – è stato fatto notare – non contribuisce alla spesa “comune” della UE che, se davvero fosse rafforzata, potrebbe portare ad un risparmio per i singoli Paesi. Il problema, però, è che non esiste uno Stato Europeo e dire “Rearm Europe” è insensato e dunque ognuno farà da sé, a cominciare dalla Germania, l’unico Paese che può ampliare il suo debito oltre misura.

Così, quella stessa Germania, che nell’originario atlantismo postbellico andava imbrigliata, riemerge ora con serie mire egemoniche – già avviate con Scholz (100 miliardi di euro, tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina) –per riprendersi quella supremazia economico-finanziaria, imposta con i vincoli del patto di stabilità e poi con l’austerity che era stata narrata come un grande successo dell’euro e del “whatever it takes”. Seppellendo definitivamente Willy Brandt e la sua Ostpolitik che aveva contribuito alla distensione e che era culminata nella Conferenza per la sicurezza in Europa di Helsinki il cui Atto finale obbligava i firmatari, tra cui Usa e Urss, al rispetto dei confini, alla soluzione pacifica dei conflitti, alla non ingerenza nei reciproci affari interni, alla difesa dei diritti umani.

Se l’Atto fosse stato applicato avrebbe sostituito la Nato, quando nel 1991 furono sciolti Patto di Varsavia e Unione Sovietica. Gli occidentali avrebbero protetto le minoranze russe nell’Europa post-sovietica (nei Baltici, in Ucraina, in Georgia), ma così non fu. La lingua e i diritti dei russi sono oggi calpestati da Kiev come nei Baltici: il 25% della popolazione lettone è russa e così si dica per il 24% degli estoni e il 4,5% dei lituani.

Dal momento che l’Europa non esiste, proporre una difesa comune, peraltro, è solo sviare. Come si può avere una difesa “comune” senza uno Stato “comune”, senza un’entità governativa democratica comune?

Il secondo effetto è stato quello di chiamare a raccolta in una generica manifestazione «a favore dell’Europa» forze e sigle varie sulla base di motivazioni anche molto diverse, unite sotto la bandiera blu stellata, evidenziando, nelle declamazioni fatte dal palco, un europeismo di maniera, retorico e, a tratti, suprematista, lontano dalle premesse egalitarie, sociali e inclusive – anche se spesso solo di facciata – che avevano caratterizzato lo sforzo per «restare in Europa» che, dall’adesione al trattato di Maastricht nel 1992 all’entrata in vigore dell’euro, avevano contraddistinto l’europeismo del centro-sinistra.

Certo, i tempi sono cambiati, ma non solo per la sciagurata postura iper-atlantista assunta sulla vicenda ucraina, quanto perché da allora ci sono stati la crisi del 2008, quella greca e del debito sovrano, cui l’UE ha sempre opposto il rigorismo dell’austerity, per fare un’eccezione solo in occasione della pandemia, e che il centro-sinistra ha duramente pagato in termini di consensi per la sua ostinata adesione al dictum ordo-liberista proveniente da Brussels. Essere europeisti oggi – in quello “spirito” di Ventotene tanto sbandierato – dovrebbe voler dire no tanto al riarmo che al neoliberismo. E ad ogni mira egemonica. Perché Europa ha voluto dire colonialismo e imperialismo, fino ai giorni nostri.

Perché non solo furono europei fascismo e nazismo. Furono europei gli sterminatori prediletti dal dio maledetto della bibbia, in America Centrale come in Africa e Asia. Europeo fu Leopoldo del Belgio che si impossessò con la forza delle armi dell’immenso territorio del Congo, uccidendo milioni di indigeni (ma loro non vengono ricordati come lo sono le vittime della Shoah) come europei sono coloro che ancora oggi finanziano e armano le bande criminali che occupano Goma e l’est del Congo (non più belga) per rapinarne le risorse. Europea fu la Compagnia delle Indie Orientali di cui parlano William Dalrymple in Anarchia e Amitav Gosh ne La maledizione della noce moscata. Europei furono quelli che hanno impiccato Mossadeq, primo ministro iraniano che aveva nazionalizzato le compagnie petrolifere. Europei furono i mandanti dell’omicidio di Patrice Lumumba.

Eppure, dopo la Seconda guerra mondiale e, soprattutto, dopo che aveva preso piede l’idea di una unione doganale che sarebbe poi divenuta la Comunità Economica Europea e infine l’Unione Europea, avevamo creduto che si dovesse essere europeisti. Perché poteva voler dire rispetto dei diritti umani e sociali in un quadro democratico progressivo e di politiche redistributive. Nel suo Discours a la nation europeenne, nel 1933 Julien Benda aveva scritto che, se vogliamo fare l’Europa non dobbiamo partire da quel che siamo, ma da quello che vogliamo, perché non c’è un’identità europea, ma può esserci una volontà di essere europei.

Ma da Maastricht in poi l’Europa è stata lo strumento della libertà d’impresa – del capitale – contro il lavoro, del mercato, che non è mai “etico”, contro le istanze non economiche di equità e giustizia sociale. E la logica neoliberista ha prevalso, svuotando lo Stato e le politiche pubbliche, estendendo il dominio dell’economia e la logica concorrenziale e dell’efficienza in ogni campo, fino a svuotare la politica stessa. E la democrazia ha fallito, non proteggendo i non protetti, non tutelandone i diritti, emarginandoli. I quali non garantiti hanno finito per non credere più nella democrazia stessa e in quelli che li dovevano rappresentare.

Il consenso delle élite dominanti e dei partiti “progressisti” si è venuto restringendo. E per tutta risposta, con il prevalere di entità extra-statuali il potere è passato di mano. Non più ai governi, ma al capitale sovranazionale del tecno-capitalismo che della democrazia ora sembra volersi liberare, come un inutile orpello, e che oggi guarda con favore alle derive illiberali, autocratiche e totalitarie.

Perché chiamare ad una manifestazione di adesione in favore dell’Europa oggi? C’era forse qualcuno che si era espresso contro l’Europa? O forse, nonostante l’affermazione del contrario, la chiamata era proprio in favore dell’Europa del riarmo (al di là della questione ucraina)? Un riarmo che, in via di principio, non trova giustificazioni se non quelle, tutte da dimostrare, che Putin avrebbe “implicitamente” dichiarato guerra alla UE e che la Nato sarebbe in via di smantellamento, venendo così a mancare l’ombrello americano. Così, invece di andare in direzione di una difesa comune, in mancanza dell’ombrellone Nato si procederà con tanti “ombrellini” (difficile pensare che la Germania si farà mai proteggere dalla Francia).

Giorgia Meloni, poi, ci ha messo del suo, stravolgendo il messaggio del manifesto di Ventotene, contribuendo così a promuovere, per reazione, un’adesione all’Europa che finisce per mettere in secondo piano l’accettazione del piano di riarmo. Tuttavia, è proprio rifacendosi a quel manifesto, e all’Europa che in molti avevano desiderato, che sostenere l’Europa oggi dovrebbe significare auspicare un’unione pacifica, che promuove la coesistenza e la distensione, che stigmatizza l’operato di Israele e fa rispettare il diritto internazionale e le disposizioni dell’ONU, non la corsa al riarmo e alla contrapposizione militare. Non occorre rifarsi a Spinelli, Rossi e Colorni, peraltro, perché basterebbe richiamare Brandt, Palme, Pertini e Berlinguer per trovare riferimenti più vicini e attuali.

Che adesso i sindaci di Bologna e Firenze si propongano di rinnovare la chiamata a favore dell’Europa non contribuisce né all’europeismo né alla pace. Perché non chiarisce che l’Europa che vogliamo non è quella che va verso il riarmo e la guerra e nemmeno quella neoliberista ma quella, disattesa più volte, dell’equità e dell’inclusione, ponte tra mondi e culture, fautrice della distensione – non della deterrenza – e della coesistenza pacifica negoziata. Fare confusione sull’Europa, contrapponendo “europeisti” e “pacifisti” nuoce ad entrambe le cause e porta solo al “via libera” per l’opzione militare, la peggiore di tutte, che smentisce tanto l’europeismo originario che la causa della pace.

Il Governo Meloni elimini l’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita

È da gennaio che siamo tornati a segnalare l’incongruità dell’aspettativa di vita quale criterio di calcolo per l’accesso alla pensione. Perché, di fatto, sul piano scientifico, essa non è affatto un criterio.

È un argomento sul quale insistiamo da molti anni. L’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita è, infatti, una norma di singolare iniquità introdotta dal Governo Berlusconi con la legge Finanziaria del 2009.
Si tratta di un meccanismo indifferenziato di aumento dei requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico legato, per l’appunto, all’aspettativa di vita, certificato periodicamente dall’Istat, a prescindere dall’attività lavorativa svolta. Che prevede, quale ulteriore elemento di iniquità, che i risparmi che ne conseguono, anziché rimanere all’interno del sistema previdenziale, siano utilizzati per ridurre il debito pubblico.

Prima di analizzare nel dettaglio l’assurdità di questa misura, vediamo cosa dice un’analisi presentata alla fine della scorsa settimana da Ezio Cigna, responsabile delle Politiche Previdenziali della Cgil. “Nel sistema previdenziale italiano – spiega Cigna – è previsto un meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti pensionistici in funzione dell’aumento della speranza di vita, come rilevato periodicamente dall’Istat. Ogni due anni, attraverso un apposito Decreto interministeriale emanato dal Ministero dell’Economia e dal Ministero del Lavoro, vengono aggiornati i requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione. Questo sistema incide direttamente su due canali di uscita: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata”.

“Dopo l’adeguamento del 2019 – prosegue -, che ha portato l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e i contributi richiesti per la pensione anticipata a 42 anni e 10 mesi (41 e 10 mesi per le donne), i requisiti sono rimasti stabili per i bienni successivi. Tuttavia, sulla base delle attuali proiezioni demografiche, nel 2027 è previsto un nuovo incremento pari a 3 mesi, che porterà l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi e i contributi necessari per la pensione anticipata a 43 anni e 1 mese per gli uomini e 42 anni e 1 mese per le donne, a meno che il Governo, come ha promesso, intervenga per non allungare ulteriormente i requisiti di accesso alla pensione.”

Ne consegue che, se dal mese di gennaio del 2027 dovessero scattare i 3 mesi di aumento, secondo le stime della CGIL oltre 44mila lavoratrici e lavoratori che hanno lasciato il proprio impiego in base ad accordi di accesso all’Isopensione, ai contratti di espansione e di solidarietà, stipulati tra il 2020 e il 2024, si ritroverebbero, per un periodo massimo di tre mesi, come “esodati”, cioè senza reddito da lavoro né nuova contribuzione, né con la pensione prevista.

Un errore madornale. Che ricorda la vicenda delle otto “salvaguardie” che il Parlamento, in particolare con l’azione della Commissione Lavoro della Camera che presiedevo a quell’epoca, dovette accendere per porre riparo all’errore compiuto nella legge Monti-Fornero che di “esodati” ne creò più di 150mila (all’epoca il periodo di reddito zero poteva arrivare fino a 6 anni). La memoria della politica può essere davvero corta.
E, soprattutto, in questo caso, vogliamo sottolineare di nuovo l’assurdità di questo meccanismo automatico legato a un criterio del tutto discutibile.

Questo perché, spiegava un articolo di Salvatore Cavallo che pubblicammo, già nel 2017, in un numero della rivista ‘LavoroWelfare’ dedicato interamente a questo argomento, “ci sono acclarate evidenze scientifiche che dimostrano come la speranza di vita alla nascita varia a seconda, non solo del titolo di studio e del reddito disponibile per il soggetto, ma anche della tipologia di attività lavorativa svolta […] Accanto ai fattori demografici e sociali, quali il sesso, il luogo di nascita, di lavoro e il titolo di studio, si utilizza la storia lavorativa individuale ed il settore economico di appartenenza per spiegare le differenze tra le curve di sopravvivenza individuali (…). A parità di fattori demografici, una vita lavorativa in settori non ‘usuranti’, insieme a una carriera stabile caratterizzata da alte forme di protezione e sicurezza sul lavoro, aumenta la probabilità di vivere più a lungo”. In buona sostanza: un professore ha buone probabilità di vivere più a lungo di un operaio.

Non vi è dunque alcuna equità né oggettività in questo criterio. Esso è arbitrario nella sua concezione così come nell’automatismo della sua applicazione.
L’allarme lanciato dalla Cgil è più che legittimo. Sia per le ragioni appena esposte, sia perché il Paese non ha alcun bisogno di rivedere il penoso “film” degli esodati. È il caso che la politica prevenga tempestivamente questa eventualità e che elimini, una volta per tutte, dalla struttura del sistema previdenziale, un criterio che tale non è. Del resto, il sistema è già ampiamente equilibrato attraverso i cosiddetti coefficienti di trasformazione, che bastano e avanzano.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Foto AS

A Gaza non è un’emergenza. È una punizione

Non si può più chiamare emergenza ciò che dura da mesi, né tragedia ciò che viene pianificato, replicato, giustificato. Un milione di bambini nella Striscia di Gaza è oggi senza cibo, acqua potabile, medicine. L’Unicef parla di “aiuti salvavita fermi in magazzino”. E aggiunge: “Non si tratta di una scelta o di carità, ma di un obbligo previsto dal diritto internazionale”. Come se il diritto internazionale non fosse ormai solo un fondale sbiadito in questo massacro a rate.

Dal 2 marzo non è entrato più nulla. Nessun camion, nessun latte per i neonati. Nel centro e sud della Striscia, i cibi complementari sono finiti. Per i 10mila bambini sotto i sei mesi restano solo alternative impastate con acqua non sicura. Anche l’acqua è diventata arma di guerra. I litri disponibili per persona sono scesi da sedici a sei, e presto saranno meno di quattro.

Intanto, Israele continua a colpire ambulanze e tende per sfollati, come documentato dal New York Times. A Khan Younis i raid del 5 e 6 aprile hanno ucciso almeno 19 persone, tra cui diversi bambini.

Se un milione di bambini muore lentamente e nessuno fa niente, la notizia non è la morte. È il silenzio. E il silenzio non è mai neutrale.

Buon lunedì.

Foto: Una ambulanza della Luna rossa colpita dall’esercito israeliano a Khan Yunis: