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Ecco cosa Meloni ha portato in dote a Trump e le conseguenze per noi

Giorgia Meloni? Una persona fantastica. Parola di Donald Trump, in uno dei momenti del vertice bilaterale Usa-Italia tenutosi a Washington giovedì 17 aprile.

In effetti il presidente statunitense ha più d’un motivo per rallegrarsi di ciò che Meloni ha portato in dote. Gli Usa affrontano la questione dazi direttamente coi rappresentanti dell’UE – e finora i colloqui col Commissario europeo al commercio, lo slovacco Maroš Šefčovič, non hanno dato grandi frutti; ma altre partite hanno dato a Trump diverse ragioni per riempire di complimenti la presidente del Consiglio italiana.

Meloni ha promesso che già a giugno 2025 – cioè tra soli 2 mesi, in occasione del vertice Nato all’Aja, Olanda – l’Italia raggiungerà l’obiettivo del 2% di Pil in spese militari. Secondo l’Osservatorio indipendente Mil€x si tratta di circa 11 miliardi di euro in più all’anno rispetto alla spesa prevista oggi pari all’1,5% circa del Pil italiano. E questo non è che il primo passo. Perché, come ha detto Trump, sorridendo in risposta alla promessa di Meloni, “non è mai abbastanza!”
Infatti, dal vertice Nato di giugno, l’obiettivo schizzerà dall’attuale 2% al 3%, al 3,5% o, come chiede Trump, addirittura al 5% del Pil.

Ricordate quando ci dicevano che le pensioni non si potevano aumentare, che i precari della scuola non si potevano stabilizzare, che la sanità pubblica non si poteva finanziare con più denaro pubblico perché soldi non ce n’erano?
Ecco. Dimenticatelo. Ora i soldi ci sono. Per le armi, però. Non per i nostri salari e le vite della maggioranza della popolazione.

Anche se lo stesso Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), autorità di controllo sui conti, nella stessa giornata del viaggio di Meloni a Washington, ha presentato delle elaborazioni che pongono più di un dubbio sulle effettive possibilità di finanziamento delle nuove spese militari.

Stando alle simulazioni dell’Upb, se l’Italia attivasse la clausola del ReArm Europe (oggi, grazie alla strana coppia Meloni-Sanchez, Readiness 2030) che prevede lo scorporo della spesa militare in eccesso fino all’1,5% del Pil, non infrangerebbe il Patto di stabilità, ma provocherebbe un ritardo nell’uscita di Roma dalla procedura per deficit eccesivo, che tornerebbe sotto il 3% soltanto nel 2030. Preoccupazioni che aprono crepe nel governo, col ministro dell’Economia e delle Finanze, il leghista Giorgetti, che ha dichiarato che “in questo momento il governo italiano non utilizzerà la deroga al patto di stabilità per le spese militari”.

Questo, però, si vedrà poi. Intanto Meloni ha ribadito “l’inscalfibile impegno con la Nato”, ribadendo l’impegno a raggiungere subito il 2% del Pil in armi, sottoscritto nel 2014 da un governo di centrosinistra guidato da Matteo Renzi (all’epoca Pd) e confermato da tutti i governi successivi, tanto quelli a guida M5S quanto quelli a guida tecnica, con Mario Draghi presidente del Consiglio.
Nella promessa di Meloni c’è un di più, come si può leggere nella dichiarazione conclusiva dell’incontro: “La nostra cooperazione nel campo della Difesa deve poggiare su una profonda ed estesa catena di forniture transatlantica. […] Siamo pronti ad aumentare la cooperazione in armamenti e tecnologia, inclusi produzione e sviluppo congiunti che rafforzino la capacità indstriale statunitense e italiana in Difesa”.
Meloni ha promesso cioè una maggiore dipendenza dal complesso militare-industriale a stelle e strisce, da cui già oggi l’Italia dipende per la maggior parte del proprio import.

E l’autonomia strategica di cui tanti parlano?
Andiamo a vederla anche sotto la lente degli approvvigionamenti energetici, altro capitolo al centro dell’incontro di Washington.
Meloni ha promesso che l’Italia comprerà dagli Usa sempre più Gnl, gas naturale liquido. Già dalla presidenza Biden la quota di Gnl statunitense sul totale è salita dall’8,5% del 2021 al 36,2% del 2024, diventando il secondo fornitore, dietro solo al Qatar.
E se nel 2021 gli Usa per Roma erano il decimo fornitore di idrocarburi (con una quota del 2,3%), nel 2024 sono balzati al quarto posto con una quota del 10,6%, dietro solo ad Algeria, Azerbaijan e Libia. Il balzo nel triennio è pari a un incredibile +413,3% (dati Confartigianato).

Oggi però Trump esige ai suoi vassalli molto di più: vuole acquisti europei in Gnl addirittura per 350 miliardi. Meloni ha risposto: signorsì signore. Sull’attenti e obbedire.

Ricordate quando ci dicevano che dovevamo passare dall’eccessiva dipendenza dal gas russo alla diversificazione delle fonti per non essere più succubi di un unico Paese e delle sue possibili bizze? Ecco. Dimenticatelo. Ora si passa a dipendere, anche per l’energia, sempre più dagli Usa di Trump.
Per non parlare della transizione energetica a un sistema non più fondato sui fossili, ma su energie rinnovabili. Un terreno su cui l’Italia potrebbe essere all’avanguardia e che, invece, viene messo in secondo piano – anche in termini di finanziamenti – dal “Make Fossils Great Again” (ammesso che abbiano smesso di esserlo in questi ultimi anni, al di fuori dei discorsi pomposi di qualche funzionario).

L’azione politica si valuta non solo sulla base di ciò che si fa (o, in questo caso, di ciò che si promette di fare), ma anche di ciò che non si fa (in questo caso di ciò che si promette di non fare): Meloni si è impegnata ad allineare l’Italia ai paradisi fiscali europei, Irlanda in primis, nella difesa delle grandi imprese Big Tech statunitensi: Amazon, Google, X, Apple, Microsoft, ecc.

Fosse per Meloni, la cerchia di potere economico che circonda Trump, da Musk a Bezos, passando per Zuckerberg, potrebbe dormire sonno tranquilli.
Nel capitolo “Usa-Italia: cooperazione per la prosperità”, i due governi sottolineano l’importanza della libera iniziativa economia tra le due sponde dell’Atlantico. Convenendo perciò che “un ambiente non discriminatorio in termini di tassazione dei servizi digitali è necessario per consentire gli investimenti delle aziende tecnologiche all’avanguardia”.
In queste righe c’è l’impegno di Giorgia Meloni a opporsi ai possibili tentativi Ue di introdurre una tassa sulle big tech, pur minacciata in queste settimane di guerra dei dazi.
In cambio di cosa? Di un vago impegno Usa a favorire gli investimenti statunitensi in servizi cloud e IA (intelligenza artificiale) in Italia – quindi in realtà un ulteriore regalo alle imprese big tech Usa – e a sostenere l’Italia quale “data hub per il Mediterrneo e il Nord Africa”.

Un po’ pochino forse. A meno che Meloni speri di guadagnare crediti presso i grandi miliardari USA ed essere invitata al matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez, per il quale il boss di Amazon ha praticamente affittato mezza Venezia per tre giorni, bloccando la vita di migliaia di persone comuni?

C’è infine un’altra partita in cui Giorgia Meloni si è fatta ingaggiare dal presidente Trump: quella contro il rivale strategico statunitense, la Cina. L’Italia si impegna infatti a sviluppare quella che è stata definita la “via del cotone”, un corridoio che “collegando partner attraverso porti, ferrovie, cavi sottomarini e stimolando sviluppo economico e integrazione dall’India ai Paesi del Golfo, a Israele, all’Italia e quindi agli Stati Uniti”, si pone in alternativa alla Via della Seta, promossa da Pechino e che, inizialmente sottoscritta dall’Italia aveva poi visto il ritiro dal progetto una volta insediatosi il Governo Meloni.

Se vi state chiedendo se si sia parlato anche di ciò che accade in Medio Oriente, questo passaggio – con successivo riferimento agli accordi di Abramo – è l’unica volta in cui viene menzionato Israele. Gaza, evidentemente non esiste. O, forse, credono sia già un grande resort.

Per chiudere, ritorniamo all’inizio: “Giorgia Meloni, una persona fantastica!”.
Le parole di Trump di ci interrogano. “Fantastica”? Se sì, per chi? Per Trump, visti i tributi che gli ha portato in dono. Non certo per la maggioranza della popolazione. Che, se queste promesse

diverranno realtà vedranno i soldi delle loro tasse – il 95% della principale imposta italiana, quella sul reddito, pesa su lavoratori e lavoratrici dipendenti e pensionate/i – spesi sempre più in armi buone a riempire i portafogli delle imprese belliche, a partire da Leonardo; in energie fossili, che approfondiscono da un lato la crisi climatica, dall’altro la nuova dipendenza dal signore statunitense.

L’ennesima dimostrazione che l’ultradestra parte sovranista e fiera, ma quando arriva è sempre vassalla e “cameriera”.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Pap

In apertura Meloni e Trump, foto Gov

La dittatura razionale

Nessuno sembra capire quale sia il reale scopo finale di Trump. Da quello che dice sembra lui faccia sempre e solo riferimento a trattative commerciali con tutto il resto del mondo. È solo una questione di soldi. L’unico scopo sembra essere quello di drenare ricchezza agli altri Paesi. Allo stesso tempo l’amministrazione Usa è impegnata a smontare pezzo per pezzo l’amministrazione federale. Una decostruzione degli apparati dello Stato di cui è incaricato l’uomo più ricco del mondo e che viene raccontata come necessaria per eliminare sprechi di danaro pubblico. Accanto a questo c’è l’aspetto di scontro con il potere giudiziario colpevole di applicare la legge e opporsi alla volontà del governo rappresentante la volontà del popolo e quindi infallibile, che evoca una possibile crisi costituzionale nella misura in cui le decisioni dei giudici venissero effettivamente disattese. E ancora l’attacco violentissimo contro i media indipendenti, contro tutti coloro che genericamente non sono d’accordo, come gruppi di potere che sono contro il popolo americano e che quindi sono fondamentalmente dei criminali. I casi sono tanti ma ha fatto scalpore che il Washington Post di Jeff Bezos (il proprietario di Amazon) si sia adeguato immediatamente al nuovo corso eliminando la pubblicazione delle opinioni politiche. La velocità e la evidente falsità delle affermazioni portate a giustificazione delle azioni del governo americano ci fanno pensare che si tratti di assurdità, di boutade che servono ad un progetto che noi non riusciamo a capire. Non sembra di leggere notizie dagli Usa, sembra di stare leggendo 1984 di Orwell: la neolingua, che elimina o cambia le parole permesse, la riscrittura della storia, l’imporre bugie come verità… Il progetto di Trump non è così strano né inconsueto. Lo si è già visto più volte nella storia ed è il progetto di ogni dittatura.

Si tratta di smontare ogni potere, anche il più piccolo, che possa mettere in discussione il dittatore, di isolare il Paese dal resto del mondo per far sì che ci siano meno relazioni possibili con altri Paesi, di costruire un nemico esterno che compatti la popolazione attorno al dittatore, di irregimentare la stampa in modo che non venga contraddetta la narrazione, di stabilire una superiorità della nazione e della sua popolazione rispetto al resto del mondo eventualmente anche riscrivendo e reinventando la storia, di decidere cosa è permesso vietando tutto il resto in nome della… libertà. Ogni dittatore pensa di essere il salvatore del proprio Paese, della popolazione che lo abita. Forse pensa di non essere violento nella misura in cui la violenza che esercita con la dittatura è quanto necessario per “liberare” il popolo. Per renderlo libero dall’oppressione, da una fantomatica non-libertà che sarebbe legata all’assenza della dittatura. Siamo abituati a pensare agli Usa come al Paese della libertà, perché ci sono sempre stati raccontati così, come il Paese delle opportunità infinite, del sogno americano, della ricerca della felicità stabilita dalla costituzione. Il Paese dove il liberalismo trova la sua massima espressione, liberalismo che sarebbe espressione della libertà di azione dell’essere umano, che sarebbe la sua verità più profonda.

Ma è vero che quel liberalismo è libertà? Per capire questo dobbiamo prima di tutto comprendere cosa significa la parola libertà. Analogamente alla parola sorella uguaglianza, ma forse anche di più di essa, la parola libertà ha un significato che non è ben definito. Da sola non significa molto. È un concetto molto astratto che non ha di per sé un contenuto umano e morale. Ha bisogno che sia accompagnata da qualche altra parola che le faccia assumere un significato. Può essere libertà di parola, di movimento, di impresa, di pensiero, etc.. Proprio perché non ha un contenuto ben definito la libertà teoricamente non ha limiti definiti e quindi, nella misura in cui l’essere umano è pensato come violento, potrebbe essere oppressione verso gli altri. Allora il pensiero razionale ha inventato il concetto per cui la propria libertà finisce la dove inizia quella degli altri. Concetto senz’altro condivisibile ma non sufficiente per stabilire veramente cosa sia la libertà. Detto così sembra essere più un tentativo di controllo di una possibilità di azione che potenzialmente è mortale verso gli altri. La ragione e la legge servirebbero per limitare questa azione violenta contenendola entro limiti moralmente accettabili. La violenza, pensata come naturale negli esseri umani, viene sublimata e diventa altro: da violenza fisica diventa potere materiale mediato dalla potenza economica. Non esistono più gli schiavi ma esistono i lavoratori sfruttati. Non esistono più le razze ma esistono i poveri che ci invadono dagli altri Paesi e che non si integrano perché portano una cultura diversa. Se la donna decide che non è moglie e madre la sua libertà sessuale viene descritta e immaginata come prostituzione.

Il liberalismo ha un contenuto violento nella misura in cui rende merce l’essere umano e le sue attività. Il danaro, nella misura in cui ne viene teorizzata l’accumulazione estrema, da mezzo di scambio e di relazione diventa strumento di manifestazione di potenza e quindi di oppressione. Sottostante a questo c’è l’idea che ci possa essere una libertà assoluta che si potrebbe esprimere nella realtà materiale grazie alla potenza economica. In realtà si tratta di una illusione.

Nella realtà materiale non ci può essere libertà assoluta nella misura in cui gli esseri umani hanno degli ovvi limiti di spazio e tempo nella realizzazione della vita. La scienza e la tecnologia, prodotti della fantasia umana, ci permettono di estendere i limiti di spazio e tempo a cui possiamo arrivare. Ma la nostra libertà è comunque limitata dalla realtà. Non siamo liberi di uscire dalla finestra invece che dalla porta di casa perché ciò sarebbe un suicidio. Questa ipotetica libertà assoluta tanto decantata non esiste affatto. Non c’è nessuna libertà nell’affermare un falso storico così come non c’è nessuna libertà nell’affermare che una scoperta scientifica non esiste. Si tratta di affermazioni che esprimono in realtà l’esatto opposto ossia una incapacità di rapporto con la realtà e un pensiero che di fatto è un delirio. Il delirante che pensa e dice di essere Napoleone, non è libero nemmeno un po’. Il dittatore che pensa di ricostruire l’impero del passato e crede di essere Giulio Cesare non è libero per niente perché non ha rapporto con la realtà storica, materiale e umana. Allora possiamo dire che la libertà materiale è nel rapporto con la realtà. Analogamente possiamo dire che la libertà di pensiero sta prima di tutto in un rapporto vero e sincero con la realtà del pensiero umano. Bisogna comprendere gli altri e comprendere se stessi, comprendere il pensiero e gli affetti. Pensare agli altri come esseri umani uguali a noi e in quanto tali liberi tanto quanto noi.

Massimo Fagioli aveva sintetizzato questa apparente contraddizione in una frase geniale. «La libertà è l’obbligo di essere esseri umani». Cioè l’obbligo del rapporto con gli altri senza negarne la realtà. Allora si può scoprire una libertà che è quella della fantasia nel rapporto con gli altri. Una libertà quella sì infinita così come sono infinite le possibilità di realizzazione nel rapporto con l’altro diverso da sé. La dittatura razionale è quella che nega la realtà degli altri perché non ha rapporto con gli altri. La razionalità che nega gli affetti, che nega la fantasia, che nega la possibilità di una ricerca che viene dal rapporto con chi è diverso da noi. La razionalità non pensa possibile l’esistenza di ciò che è diverso. Se ciò esiste non è come sé stessa esso è non umano e quindi deve essere eliminato perché pericoloso. L’arte geniale, l’irrazionale diverso e incomprensibile, diventa allora «arte degenerata». Potremmo pensare che le dittature sono “eccessi” della ragione, impazzimenti completi dovuti a qualcosa di nuovo che è comparso e che rende la ragione improvvisamente stupida e quindi violenta. Difficile immaginare cosa sia il nuovo a cui le nuove dittature del mondo si vogliono opporre. Ma certamente l’Europa delle tante lingue e nazioni diverse che convivono in pace da 60 anni è qualcosa di prezioso che dobbiamo preservare.

Il percorso solitario di Casorati

La mostra intitolata semplicemente Casorati in Palazzo Reale a Milano è un’antologica che ricostruisce l’intero arco di attività dell’artista, ripercorrendo le diverse stagioni della sua pittura. Concepita proprio per le sale di Palazzo Reale, l’esposizione, raccoglie cento opere di assoluto rilievo, tra dipinti, sculture, disegni e opere grafiche, provenienti soprattutto dalla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, il museo italiano depositario del più cospicuo nucleo di opere dell’artista della città a cui fu legato per buona parte della sua vita, a partire dal 1917, anno in cui, dopo il suicidio del padre, appena tornato dal fronte, l’artista decide di stabilirsi. Nel 1990 era stata organizzata nella stessa sede una iniziativa analoga.

Questa mostra dunque rappresenta una nuova, ulteriore occasione per celebrare un maestro del Novecento italiano e per rinnovare la meraviglia di fronte a una selezione delle sue tele, disperse per musei e gallerie di tutto il mondo. Su di lui è stato scritto molto. I critici d’arte, fin dai suoi esordi, si sono chiesti quale fosse l’origine del suo stile personale, unico, nel quale sono visibili molte influenze e molti rimandi a grandi maestri del passato, ma rielaborati all’interno di una cifra stilistica personale ben riconoscibile. Singolari furono anche le circostanze in cui si manifestò (o forse sarebbe meglio dire si rivelò) il suo talento: mentre studiava pianoforte Padova, nel 1901, a diciotto anni cadde in un forte esaurimento nervoso che lo costrinse a smettere. Durante la convalescenza in una casa di campagna scoprì la pittura. I genitori lo sostennero affidandolo alle lezioni di Giovanni Vianello, a quell’epoca uno dei pittori più celebri a Padova.

Nel 1906 si laureò in Giurisprudenza, ma l’anno successivo un suo quadro fu ammesso alla settima Biennale di Venezia. Felice Casorati aveva solo ventiquattro anni e dipingeva da sei anni. Quello stesso anno la famiglia si trasferì a Napoli. Il giovane pittore trascorse molte ore nel Museo di Capodimonte a studiare le tele dei grandi maestri e a dipingere nel suo atelier. Frutto di questi studi solitari è Le vecchie, tela che verrà esposta alla Biennale del 1909 e che verrà acquistata dalla Galleria Nazionale d’arte moderna a Roma. In quello stesso anno esce a Parigi il Manifesto del futurismo. Ma la strada del pittore torinese seguirà una propria strada, decisamente divergente rispetto a quella dei pittori futuristi. Nel 1911 si trasferì insieme alla famiglia a Verona.

Qui entrò nel vivace ambiente artistico cittadino e, tramite i contatti con l’ambiente mitteleuropeo, anche con lo stile della Secessione viennese e, più nello specifico, con la figura di Gustav Klimt. Lo stile di Casorati in questi anni assorbe queste “influenze viennesi”, ma le rielabora all’interno della sua cifra stilistica, che si arricchisce ulteriormente di temi e declinazioni. Si avvicina così al gruppo di pittori che orbitavano intorno alla galleria Ca’ Pesaro di Venezia, che dal 1908 in poi rappresentò una sorta di “controcanto” rispetto alla Biennale. il conflitto tra le due istituzioni scoppiò virulento con la mostra del 1913, tanto che il consiglio comunale propose la chiusura d’ufficio della galleria, che proprio quell’anno aveva ospitato la prima personale di Casorati.

Con lo scoppio della Guerra, questa contrapposizione perse vigore e gli artisti che si erano raccolti intorno alla galleria e alla figura del critico d’arte Nino Barbantini presero ognuno una propria strada. Felice Casorati, pochi giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, è chiamato alle armi. L’unica tela direttamente legata all’esperienza al fronte è Giocattoli, dove compaiono dei soldatini di piombo tra le sagome di case, alberi e animali ridotti a balocchi infantili posati su una tovaglia scura con motivi geometrici, eloquente e plastica rappresentazione della tragica stupidità della guerra. Ma sarà a partire dal 1917, quando l’artista è congedato e, dopo la tragica scomparsa del padre, decide di stabilirsi a Torino, che Casorati darà forma a quel personalissimo stile per il quale diventerà noto in tutto il mondo, che erroneamente verrà associato a quel “ritorno all’ordine” promosso dalla rivista Valori plastici e da Margherita Sarfatti.

La “maestra di buone maniere” del Duce fu, in effetti, una estimatrice del torinese, tuttavia Casorati era e rimase anche in seguito un artista solitario, il quale, proprio in quegli anni subito dopo la guerra aveva raggiunto una consapevolezza e una cifra stilistica uniche e riconoscibili. Quando nel 1920 Casorati visitò la mostra di Cézanne alla Biennale, pur attratto dalle tele del maestro francese, comprese che la sua strada divergeva in modo deciso da quella del cubismo, che proprio dalla lezione del pittore provenzale era partita. In relazione alle sue tele, la critica ha coniato il termine di “quattrocentismo”, per indicare le evidenti connessioni con la grande pittura italiana di quel secolo (soprattutto Piero della Francesca, Mantegna e Antonello da Messina per la ritrattistica). Questo è un fatto, che poi la critica ha usato per esaltare o denigrare la sua opera (le migliori tele di Casorati suscitano sempre una forte reazione, in un senso o in quello opposto).

Ma nella sua solitaria ricerca, il pittore torinese non si limitò a citare alcuni grandi maestri della pittura italiana. Piuttosto ne prese alcuni elementi formali per elaborare un suo linguaggio figurativo col quale fu in grado di esprimere contenuti profondi. Basterebbe citare La donna e l’armatura, una tela del 1921 nella quale un nudo femminile in primo piano è accostato alla sagoma di un’armatura in secondo piano, in una composizione che mette in risalto in modo plastico il contrasto tra il corpo femminile e una vuota corazza (mondo maschile e femminile? Il desiderio e il suo esatto opposto?). Un tema che poi svilupperà nella tela del 1925 Conversazione platonica, un quadro che a suo tempo fece scandalo, nel quale dietro a un nudo femminile appare la sagoma di un uomo vestito con il volto coperto dall’ombra di un cappello.

Casorati fu un maestro del Novecento che seguì una strada diversa da quella del cubismo e delle avanguardie, ma che non guardò semplicemente al passato. Per apprezzarlo bisogna abituarsi all’idea che l’arte del ventesimo secolo non segue un unico cammino, ma che può divergere in “sentieri laterali”, aperti da alcuni artisti solitari, che sicuramente meritano attenzione.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, saggista e docente universitario. Per i tipi di Left ha pubblicato il libro Carlo Levi, vita di un antifascista, medico e artista 

Immagine d’apertura, un particolare di Conversazione platonica, 1925, olio su tavola, Collezione privata. © Felice Casorati by SIAE

La bugia del riarmo utile, smontata in due righe. Dall’Ufficio parlamentare di bilancio

Accade spesso così. Mentre dalla cucina arriva il profumo delle armi, in salotto si avvicendano esperti veri e presunti che decantano il riarmo come portata principale della salute pubblica. A sentire le voci degli appassionati bellicisti, pare che le bombe siano un toccasana per chi le compra e per chi le produce. Peccato solo per quei fastidiosi effetti collaterali di chi le riceve sulla testa.

Da mesi, chi si permette di contestare che le armi siano le proteine del rilancio economico italiano viene immediatamente rinchiuso nell’armadio dei pacifinti, stirpe di traditori della Patria che anelano di essere invasi ancora.

Ieri, l’Ufficio parlamentare di bilancio – che di mestiere guarda dentro i numeri – ha spiegato che “un aumento delle spese per la difesa e relativo scostamento […] causerebbero un aumento del debito di 0,7 punti percentuali fino al 137,3% nel 2028 […] con un peggioramento della dinamica negli anni successivi e debito/Pil in salita dopo il 2031”. Non solo. “L’attivazione della clausola di salvaguardia concessa dall’Ue per il rafforzamento del settore della difesa potrebbe determinare un ritardo nell’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivi”.

Insomma, la spesa militare è regressiva, giova solo alle tasche degli armaioli e alla libido dei prepotenti.

Anche il moltiplicatore delle spese per la difesa è basso. Per il ministro Crosetto i benefici si moltiplicherebbero per 3; per l’Ufficio parlamentare di bilancio non si raggiunge nemmeno l’1, ovvero si perde. Riarmarsi quindi non è solo il viatico dell’ammazzamento più comodo, ma è anche un pessimo affare. Con buona pace – pace – degli esperti da salotto, quelli che in guerra ci mandano sempre i figli degli altri.

Buon venerdì.

FotoGov

Il coraggio di essere libere. Il romanzo d’esordio di Natascia Ronchetti

Giornalista economica e di inchiesta per testate nazionali, dal Sole 24 ore a L’Espresso, con Lo sguardo buio (AIEP Editore) Natascia Ronchetti debutta come autrice di romanzi. Da poco approdato in libreria il libro fa tesoro del mestiere giornalistico che si affida alle fonti per restituire un quadro fedele della realtà. La narrazione parte dagli anni bui del Fascismo per svilupparsi nei decenni successivi, dalla fine della seconda guerra mondiale all’esordire del femminismo. Ambientato a Bologna, la sua città, racconta la storia di un Paese in profondo cambiamento. Protagoniste sono quattro donne, differenti tra loro, eppure rappresentative di un tempo in cui la tradizionale famiglia patriarcale subiva i primi scossoni dell’emancipazione femminile, talvolta agognata, talvolta sfiorata, talvolta soffocata. Marina, Anna, Alide, Anita sono donne combattute riflesse nella figura di Claudio, marito, padre e datore di lavoro.

Le donne del suo romanzo hanno caratteristiche definite. Incarnano remissività, rassegnazione, ribellione, accettazione. Sentimenti espressi o repressi. Oggi a che punto siamo?
Ancora adesso non riesco a disgiungere completamente la rassegnazione dall’idea tirannica che esista un destino ineluttabile a cui piegarsi. Idea estremamente reazionaria: imprigiona nell’immobilismo e nell’accettazione. Alcune delle donne del mio libro sono vittime rassegnate. Altre si ribellano a un sistema patriarcale maschilista e autoritario. Oggi tanto è cambiato. La remissività non è più considerata una lodevole virtù femminile come era un tempo. Eppure l’insidia è sempre lì. A fronte di molte donne che reagiscono con forza – e spesso per questo vengono punite, come purtroppo ci insegna la cronaca quotidiana – ce ne sono ancora tante, troppe, che tollerano soprusi. Mancanza di coraggio, di autostima, di appigli esterni? O forse anche oggi ci mette lo zampino pure quell’idea tirannica?

Lei affronta il tema dell’istruzione femminile, dell’alfabetizzazione emotiva. Tra le giovani donne di allora e di ora, cosa è cambiato e cosa è immutato in termini di consapevolezza e autodeterminazione?
Apparentemente è cambiato tutto. Nella realtà dobbiamo ancora lottare per la piena parità di genere. Le donne sono più istruite, concludono più brillantemente gli studi. Ma si confrontano quotidianamente con il gender gap nelle retribuzioni, nell’accesso al lavoro. Quanto all’alfabetizzazione emotiva credo che abbiamo ancora molta strada da fare. Confuse da stereotipi e preconcetti talmente introiettati da non affiorare alla coscienza a volte ci arrendiamo a persuasioni manipolatorie, allontanandoci dalla comprensione piena delle nostre emozioni. E ci facciamo spaventare dalla legittima rabbia che proviamo.

Il protagonista maschile, Claudio, è animato da un sincero sentimento progressista, che non riesce tuttavia ad incarnare, risultando ambivalente. L’uomo di oggi, a cosa tende e cosa non attua?
Così come la cultura e l’istruzione non affrancano dal maschilismo e dal senso di possesso così idee progressiste possono non collimare con una intima e convinta adesione all’emancipazione femminile. D’altronde il tragico fenomeno della violenza di genere è trasversale a tutte le classi sociali e non conosce colori politici. Credo che anche l’uomo più evoluto possa pure oggi cadere nella tentazione di rimpiangere altri tempi. Tempi in cui il maschio esercitava il controllo sulla donna. Magari è un processo inconscio, represso e non ammesso. Ma sappiamo che non bastano pochi decenni per cancellare una mentalità che è il prodotto di secoli di esercizio del potere.

Dopo due testi impegnativi con un taglio più giornalistico – Finanza etica. Una rivoluzione silenziosa (2013) e Il rituale del Femmicidio (2016) – Lo sguardo buio  come si colloca?
Lo avevo in testa da tempo e volevo collocarlo a Bologna non perché è la mia città ma perché ha avuto molte cose da dire nel corso degli anni. E’ una città che ha sofferto molto. E non mi riferisco solo alla seconda guerra mondiale, il cui scoppio, con l’invasione della Polonia da parte delle armate di Hitler, è l’incipit del romanzo. Basti pensare alla strage alla stazione ferroviaria del 2 agosto 1980. Eppure Bologna non si è incattivita. Così come non si incattiviscono le protagoniste. Sono rabbiose, ribelli, remissive o troppo arrendevoli. Ma non cercano vendette. Solo libertà.

Come si può affrontare il tema dei diritti e dell’emancipazione femminile senza cadere nella retorica? Le parole paiono non scuotere più le coscienze…
Abbiamo superato molti ostacoli. Ma credo che il sistema dell’informazione non abbia ancora raggiunto la piena maturità nel raccontare cosa sono la violenza di genere, la discriminazione, il sessismo. Certi titoli hanno ancora l’impronta del paternalismo maschilista. L’assuefazione è un pericolo già concreto. La fretta, le generalizzazioni e a volte la semplice superficialità minano la capacità di comprendere che le storie di violenza hanno tutte, tragicamente, una stessa matrice: secoli di sopraffazione.

Il dopo guerra di allora fu uno slancio al miglioramento, alla costruzione. Come immaginare un post guerra dei conflitti in corso?
Credo che siamo tutti spaventati di fronte a una storia che tragicamente si ripete. C’è però una tragica novità. Il ritiro verso i nazionalismi e l’attacco ai diritti che consideravamo acquisiti, il disconoscimento delle più elementari manifestazioni di solidarietà, una sorta di disarmo etico. E poi c’è il trumpismo, con un terrificante corredo di misoginia e machismo.

Che urgenza hai sentito e su cosa hai voluto porre l’attenzione?
Sulla tragedia e sulla speranza, che nonostante tutto riesce quasi sempre ad essere consolante e persino più forte del dramma. Proprio come una nascita, una nuova nascita: addolcisce il dolore per una perdita.

Gaza, la generazione amputata

Una foto che ritrae un bambino senza braccia è l’immagine dell’anno del World Press Photo. A scattarla la fotografa palestinese Samar Abu Elouf per il New York Times. Il bambino ritratto è Mahmoud Ajjour, gravemente ferito da un attacco israeliano nel marzo 2024, uno dei pochi a essere riuscito a fuggire dalla Striscia per ricevere cure mediche. Secondo l’Onu, già lo scorso dicembre Gaza contava il più alto numero pro capite di bambini amputati al mondo. «Siamo i feriti che curano i feriti». Questo sono i medici a Gaza a loro volta resi obiettivi di guerra dall’esercito israeliano.
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile l’ennesima pioggia di missili israeliani ha colpito l’ospedale battista Al Ahli nel nord della Striscia di Gaza, per la quinta volta dall’inizio della guerra. Il pronto soccorso è stato distrutto e reso inagibile, mentre i medici hanno cercato di evacuare i 100 pazienti in barella. Un bambino è morto per il freddo, altri due adulti per la mancanza di cure.
Qualche giorno dopo la fine della tregua tra Israele e Hamas, il 31 marzo, al dottor Mohammed Tahir, neurochirurgo iracheno in servizio a Gaza da diversi mesi, viene impedito di rientrare nella Striscia per un’ulteriore missione dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti. Da quasi due anni, il dottor Tahir cura i bambini, gli innocenti, i feriti nella Striscia sotto i bombardamenti.
Il suo account Instagram viene chiuso poco dopo, l’organizzazione no profit di cui fa parte, Fajr Scientific non dà spiegazioni e si affretta a sostituirlo con un altro medico pronto a partire. Nei suoi post il dottor Tahir usava spesso il «noi» riferendosi ai professionisti che prestano servizio negli ospedali di Gaza. Un “noi” che rappresenta la comunità di medici internazionali che, dall’inizio dei bombardamenti israeliani, tra mille difficoltà, tenta di salvare la vita ai civili, soprattutto ai bambini, di rendere il dolore degli interventi meno terribile. Una comunità scomoda, in un territorio e tra una popolazione che vede leso il diritto alla salute in guerra.
Il 26 marzo, MedGlobal ha lanciato un appello per il rilascio del dott. Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Gaza nord e medico responsabile della missione di MedGlobal, detenuto nelle prigioni israeliane dal 2024. Safiya è stato rapito dall’IDF il 27 dicembre 2024 insieme a diversi civili e altri membri dello staff ospedaliero. Gli è stato negato un incontro con il suo avvocato per 47 giorni dopo il suo arresto. Secondo il suo team legale, «nessuno ha divulgato le accuse o le presunte prove segrete su cui si basava il caso, negando di fatto alla difesa ogni possibilità di contestazione».
Il dottor Safiya è di nazionalità palestinese, è stato arrestato mentre cercava di negoziare l’evacuazione imposta dall’esercito israeliano al suo ospedale e subisce la sorte dei medici e degli operatori sanitari palestinesi che sono considerati un pericolo, in una deriva razzista che ostacola le cure. Quando invece per le ONG sarebbe fondamentale avere sul campo professionisti originari del territorio in cui operano, che facilitano le comunicazioni, che conoscono la lingua, i luoghi e affrontano più prontamente le situazioni.
Proprio un medico è stato una delle prime vittime del genocidio a Gaza, a due settimane dall’inizio della guerra: il chirurgo Medhat Sedim, ucciso dai bombardamenti a casa sua dopo il turno in ospedale, in seguito a diversi giorni consecutivi passati a curare ininterrottamente le vittime del fuoco israeliano, essendo uno dei pochi chirurghi del luogo specializzati nella cura delle ustioni.
Il 23 marzo di quest’anno, 14 soccorritori e operatori sanitari palestinesi della Mezzaluna Rossa sono stati uccisi a bordo delle loro ambulanze dall’esercito israeliano in un attacco che è stato definito dalla stessa Croce Rossa come il più grave contro i propri membri da diversi anni.
Secondo quanto riportato dall’Ocha, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, dal 7 ottobre 2023, almeno 399 operatori umanitari, tra cui 289 dipendenti delle Nazioni Unite, 34 dipendenti della Mezzaluna rossa palestinese (Prcs) e almeno altri 76 dipendenti di Ong sono stati uccisi a Gaza.
«Li stiamo tirando fuori in uniforme, con i guanti», ha detto Jonathan Whittall dell’Ocha in una dichiarazione dopo la scoperta della fossa comune in cui erano stati sepolti con le loro ambulanze. «A uno di loro sono stati tolti i vestiti e un altro è stato decapitato», ha spiegato ai reporter del network giornalistico +972 Mahmoud Basal, portavoce della Difesa civile a Gaza.
Secondo i dati del ministero della Salute palestinese 1.151 operatori sanitari, tra medici, infermieri, personale che lavorava negli ospedali sono stati uccisi dall’esercito israeliano in quello che secondo il ministro è «un attacco sistematico e deliberato al sistema sanitario» in perfetta violazione del diritto internazionale. Al 24 febbraio scorso erano 517 gli operatori sanitari detenuti nelle prigioni israeliane e gli ospedali e le strutture sanitarie hanno subito, secondo l’Oms, 1415 attacchi dal 7 ottobre. Durante la guerra 34 ospedali sono stati distrutti e costretti a chiudere, insieme ai 240 centri e strutture sanitarie e alle 142 ambulanze che sono stati anch’essi presi di mira. Si stima che il danno totale al settore sanitario superi i 3 miliardi di dollari.

Il diritto internazionale calpestato
L’ospedale Kamal Adwan di cui il dottor Hussam Abu Safiya, ancora in carcere, è direttore, è stato occupato due volte, la prima a dicembre 2023, la seconda alla fine del 2024, quando sono stati dati alle fiamme diversi dipartimenti, causando la morte di 29 palestinesi, di cui 4 operatori sanitari.
Ancora più cupo, se possibile, il destino dell’ospedale Al-Shifa, assediato per due mesi lo scorso anno, dove i neonati sono stati lasciati senza incubatrici e i pazienti privati di cure e di cibo. Un’infermiera interpellata da Human Rights Watch ha raccontato che le forze israeliane hanno iniziato a sparare prima che finisse l’evacuazione, accanendosi contro la terapia intensiva “senza sosta”. Sempre ad Al Shifa «i pazienti sono stati tenuti senza cibo, acqua e medicine, sdraiati sul pavimento. I medici della dirigenza dell’ospedale hanno raccontato che le forze israeliane li hanno usati come “scudi umani” per aprire o sfondare le porte ed entrare e controllare se le stanze erano vuote». È tutto in un rapporto di Hrw, che racconta le violazioni – commesse da Israele – della Convenzione di Ginevra, l’accordo internazionale del 1949 che protegge gli ospedali, le strutture sanitarie, i pazienti in tempo di guerra.
Esecuzioni a freddo di pazienti incapaci di muoversi e deambulare, gas lacrimogeni e fumogeni per costringerli alla fuga, privazioni e il divieto di seppellire i cadaveri sono solo alcune dei crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano in questo complesso ospedaliero. «Le ruspe militari israeliane hanno dissotterrato e schiacciato i corpi sepolti nel terreno dell’ospedale» raccontano i sanitari sopravvissuti a Kamal Adwan. La madre di un paziente dell’ospedale di Nasser ha raccontato invece di aver visto cani e gatti mangiare i corpi dei cadaveri di pazienti evacuati e bombardati durante la fuga.
Sia nella struttura sanitaria Nasser a Khan Younis che in quella di Kamal Adwan a Jabalya è stato impedito da Israele alle missioni Oms di visitare le condizioni dell’ospedale. Dei tunnel sotterranei, della presenza degli uffici di Hamas all’interno degli ospedali non è mai stata confermata l’esistenza da Ong, media internazionali e testimoni diretti. Ma questo continua ad essere il pretesto delle forze armate israeliane per mettere al tappeto il sistema sanitario di Gaza.
«Consideravano qualsiasi dipendente [del settore pubblico] un membro di Hamas, quindi in virtù del mio lavoro in ospedale, pensavano fossi un membro di un’organizzazione terroristica» dice il dottor Mahmoud Abu Shahada, medico arrestato e torturato con violenze fisiche e psicologiche per quasi un anno, dopo l’assedio all’ospedale Nasser.

Nessuna via di fuga
Tra le violazioni della Convenzione di Ginevra, le sempre più frequenti richieste di evacuazione negate. Da ottobre 2023, secondo L’associazione per i diritti umani israeliana Phri, sono state presentate 15.600 richieste di evacuazione medica, ma solo il 34% è stato approvato. I tassi di approvazione per i bambini rimangono particolarmente bassi: solo il 51,7% per le età 0-5 e il 37% per le età 6-18.
Tra i pazienti oncologici, il 50% delle richieste di evacuazione è stato respinto, ritardando il trattamento e peggiorando i risultati. La carenza di forniture mediche è diffusa, con il 45% dei medicinali essenziali non disponibili nel nord di Gaza e il 59% nel sud.
«Dall’inizio degli attacchi», raccontano da MSF, «il personale e i pazienti di Medici senza Frontiere hanno dovuto evacuare 20 diverse strutture sanitarie e hanno subito 41 episodi violenti, tra cui attacchi aerei che hanno danneggiato ospedali, colpi di carri armati contro rifugi, offensive via terra contro centri medici e attacchi contro convogli. Episodi che dimostrano il palese disprezzo per l’azione medico umanitaria medica e la mancanza di protezione dei civili e delle strutture mediche».

Un monumento alla crudeltà
Chi gestisce i rifornimenti medici a Gaza è, dall’inizio dell’occupazione israeliana, il Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories), che ha sempre attuato una politica particolarmente ambigua per quel che riguarda il materiale che può entrare o non entrare nella Striscia. A capo dell’ente, il generale Ghassan Alian contro il quale l’Ong palestinese Hind Rajab Foundation ha presentato a gennaio una richiesta di arresto alla Corte penale internazionale e alle autorità italiane per crimini di guerra, in occasione di una visita segreta del generale a Roma.
A lui si attribuisce, infatti, la responsabilità di aver affamato la popolazione di Gaza nell’ultimo anno e mezzo, delle condizioni igieniche precarie a causa della mancanza di acqua potabile e del conseguente proliferare di epidemie. Sempre il Cogat vieta l’ingresso di medicinali salvavita e strumentazione medica di vario tipo considerata “dual use”, cioè passibile di essere utilizzata per scopi civili o militari.
Dopo la fine della tregua a marzo di quest’anno Msf racconta che «Da oltre un mese, nessun aiuto umanitario o camion con cibo e forniture sta entrando a Gaza. È il periodo più lungo dall’inizio della guerra senza che nessun camion entri nella Striscia. Gli ultimi rifornimenti che i nostri team sono riusciti a far entrare a Gaza sono stati tre camion di forniture, per lo più mediche, il 27 febbraio. Prima del blocco totale delle autorità israeliane, avevamo diversi camion pronti ad entrare con rifornimenti, ma ora siamo costretti a razionare i farmaci, le forniture chirurgiche e i medicinali per le malattie croniche. Abbiamo letteralmente le mani legate e è ogni giorno più difficile assistere la popolazione di Gaza. Le autorità israeliane stanno ancora una volta normalizzando l’uso degli aiuti come strumento di negoziazione. È scandaloso: gli aiuti umanitari non dovrebbero mai essere utilizzati come merce di scambio in una guerra».
Sin dalla presa del valico di Rafah da parte dell’esercito israeliano a maggio dello scorso anno, queste negoziazioni sulle spalle dei pazienti che necessitano dei farmaci e anestetici stanno impedendo il lavoro dei medici e hanno il costo devastante di vite umane che potevano essere salvate.
Era già una delle rivendicazioni disperate della lettera aperta scritta lo scorso ottobre da 99 medici operanti a Gaza a Joe Biden. Dall’appello apprendiamo che si contavano fino a quel momento già 120 mila vittime, dal momento che, ricordano i medici, ai numeri diffusi dai media andavano aggiunte anche le morti “indirette” dovute alla mancanza di cure, alla malnutrizione, alle scarse condizioni igieniche dei pazienti negli ospedali bombardati.
«I corpi mutilati di donne e bambini sono un monumento alla crudeltà» recita l’appello, mentre i medici combattono con «condizioni operatorie impossibili, mancanza di forniture igieniche di base come il sapone e mancanza di forniture chirurgiche e farmaci, compresi gli antibiotici».
Myriam Laaroussi, coordinatrice dell’emergenza di Msf a Gaza ricorda che «anche prima della ripresa degli attacchi, durante il cessate il fuoco, il sistema di ingresso delle merci imposto dalle autorità israeliane, già utilizzato per ostacolare sistematicamente gli aiuti umanitari, ha reso impossibile intensificare adeguatamente la nostra risposta. È un sistema non trasparente che ostacola e limita costantemente l’ingresso di forniture salvavita, come bisturi, forbici, concentratori di ossigeno, impianti di desalinizzazione e generatori. Anche quando gli ingressi vengono approvati, i tempi di attesa sono lunghi e il processo rimane un complesso ostacolo burocratico.
Come Msf chiediamo alle autorità israeliane di mettere immediatamente fine alla punizione collettiva della popolazione palestinese e all’assedio disumano di Gaza, oltre ad assumersi le proprie responsabilità di potenza occupante per facilitare l’ingresso di aiuti umanitari su larga scala».
Appelli inascoltati, medici vittime di guerra, ostacoli burocratici per salvare la vita dei bambini, ospedali che si trasformano in basi militari, come afferma un dottore intervistato dal network +972 riguardo l’assedio dell’ospedale Al Shifa: «Eravamo circondati da carri armati, droni che ronzavano sopra la nostra testa, senza elettricità, senza cibo. Operavamo con la luce dei cellulari. Non stiamo solo curando un trauma, lo stiamo vivendo».

L’autrice: Angela Galloro è giornalista

Chi comanda davvero, se nessuno risponde?

È strano come, in Italia, lo spionaggio politico sembri fare meno scandalo delle intercettazioni su un trafficante. Eppure in mezzo ci sono preti, attivisti, armatori e un direttore di testata. Le vittime non sono comparse ma coscienze scomode. E chi dovrebbe chiedere chiarezza, balbetta.

Il governo italiano, secondo Citizen Lab, ha gli strumenti per sapere chi ha spiato chi. E allora perché tace? Perché quando si pronuncia la parola Paragon – che è la nuova Echelon, ma con meno pudore – da Palazzo Chigi si distolgono gli occhi? L’Aise ha spiato Mediterranea, questo è certo. Cancellato no, almeno ufficialmente. Ma allora chi?

Intanto a Bruxelles, dove il Parlamento europeo avrebbe dovuto ascoltare Casarini e don Ferrari, le destre hanno fatto saltare tutto. “Troppo italiano”, hanno detto. Come se la democrazia avesse bisogno di passaporto. Il 23 aprile gli attivisti saranno comunque lì, fuori, in piazza. Dentro, invece, le istituzioni giocano a rimpiattino. Non per difendere la sicurezza nazionale ma per proteggere la propria opacità.

Se l’abuso non scandalizza più, è perché l’abuso è diventato regola. Chi governa deve dire se ha ordinato lo spionaggio. O se ha permesso che altri lo facessero. Il resto è omertà. E un Paese che accetta lo spionaggio politico come normalità ha già smesso di essere democratico.

A meno che il vero scandalo non sia proprio questo: considerare un sacerdote e un giornalista liberi come una minaccia. E non chi li ha messi sotto sorveglianza.

Buon giovedì.

Elezioni in Ecuador: L’opposizione contesta la vittoria di Noboa e chiede il riconteggio

Quito – il presidente uscente Daniel Noboa ha vinto le elezioni in Ecuador con il 55.65% dei voti contro il 44.35% della candidata di Rivoluzione cittadina Luisa González. Sin dall’inizio dello spoglio si è manifestato un trend nettamente a favore del presidente uscente che ha vinto in 18 province su 24. Daniel Noboa ha dichiarato che questa vittoria è storica e con un ampio margine di 10 punti percentuali non mostra dubbi sul vincitore. «Questa vittoria è il risultato della lotta e della perseveranza di ogni componente della squadra che vuole costruire un nuovo Ecuador». Se Noboa festeggia la vittoria, dall’altra parte Luisa González a due ore dal conteggio ha dichiarato di non riconoscere il risultato e di chiedere al Consiglio nazionale elettorale che si ripeta lo spoglio in quanto- afferma – si è verificato il più grottesco broglio elettorale della storia repubblicana del Paese. Ha ricordato che nelle elezioni passate la Revolución Ciudadana aveva sempre riconosciuto la sconfitta ma in questo caso non lo fa. Nei fatti 11 sondaggi, tra cui alcuni vicini al governo, davano la vittoria a lei e nessuno aveva mostrato una differenza tanto amplia come quella che si è vista alla fine dello scrutinio. «Io denuncio davanti al mio popolo, ai mezzi di comunicazione e al mondo intero che l’Ecuador sta vivendo una dittatura». Così ha chiuso il suo intervento dal quartier generale della RC a Quito.

La denuncia di irregolarità perpetuate dal Cne da parte della coalizione di sinistra
Nei giorni scorsi c’erano state delle avvisaglie da parte di alcuni attori della sinistra sul comportamento del Consiglio nazionale elettorale dell’Ecuador durante la seconda fase delle elezioni. In un comunicato congiunto la Revolución Ciudadana, Pachakutik, Reto, Partido Socialista Ecuadoriano e Centro Democrático avevamo denunciato la preoccupante azione del Cne che ha destabilizzato l’opinione pubblica e i comizi durante il ballottaggio. Nel comunicato si legge che durante tutto il processo elettorale si è assistito a una vergognosa gestione del Cne che non ha compiuto le funzioni dettate dalla Costituzione. Per esempio si è registrato un cambiamento all’ultimo momento di ben 18 seggi elettorali con la scusa dei temporali invernali, in pieno silenzio elettorale sono state annunciate azioni di governo, a delegazioni di osservatori internazionali è stato negato l’ingresso nel Paese per assistere ai comizi, sono state usate risorse dello Stato per la consegna di Bonus (570 milioni di dollari), ci sono stati pagamenti all’ultimo momento per fornitori statali, per non dire del decreto dello Stato di massima allerta in 7 regioni, sospendendo i diritti civili di inviolabilità del domicilio, di circolazione e di riunione e poi la sospensione della votazione degli ecuadoriani in Venezuela.

Le alleanze di Luisa González non hanno fatto somma
Dal 9 febbraio fino a due giorni prima delle elezioni la candidata Luisa González e il partito della Revolución Ciudadana avevano lavorato abbastanza nel tessere alleanze e di costruire un discorso basato sull’unità cercando di abbandonare rancori e personalismi. Va detto che il lavoro di Luisa González e della sua squadra è stato sostenuto da una buona comunicazione politica, scegliendo anche i tempi politici giusti. Dall’8 marzo al 11 aprile la Revolución Ciudadana ha raccolto l’appoggio del Partido Socialista Ecuadoriano, del candidato Carlos Rabascal della Izquierda Democrática, del partito Pachakutik e della Conaie, del Centro Democratico, della lista Amigo e di Jan Topic che prevedevano un plus al voto raccolto al primo turno. Una serie di alleanze che avevano rotto con il trend delle ultime tre elezioni presidenziali nelle quali la Revolución Ciudadana viveva in pieno isolamento. In politica la sommatoria non sempre fa una coalizione e le somme non sono mai meramente aritmetiche. Il voto vive processi di carattere sociologico e culturale che vanno oltre la matematica, detto questo al secondo turno Luisa González non solo non aumenta voti ma addirittura ne perde quasi 115 mila. Come spiegarlo?

I bonus elargiti da Noboa
Durante il dibattito presidenziale del passato 23 marzo Noboa aveva annunciato che dal giorno dopo avrebbe elargito bonus e benefici economici a vari settori della popolazione. Dalla metà di marzo fino a qualche giorno prima delle elezioni Noboa ha offerto ben 14 benefici economici tra bonus, borse di studio e pagamenti arretrati per il popolo ecuadoriano. Una generosità che costa allo Stato 518 milioni di dollari. Noboa ha promesso e dato un bonus di 510 dollari a 56 mila unità della Polizia nazionale, 400 dollari a 83 mila Jóvenes en Acción che consiste in un programma nazionale che promuove l’imprenditoria giovanile tra i 18 e 29 anni, 400 dollari a 120 mila Ecuatorianos en Acción che consiste in un programma nazionale per tutti i cittadini dai 30 ai 64 anni per promuove il lavoro comunitario e fomenta la partecipazione. Sicuramente questi bonus hanno fatto il loro effetto e migliaia di ecuadoriani hanno preferito l’uovo oggi che la gallina domani. A questo si aggiunge il ruolo dei mezzi di comunicazione tutti schierati a favore di Noboa, il discorso trito e ritrito anti Venezuela della desdolariación. Così, l’Ecuador dovrà vivere 4 anni ancora di neoliberismo. Resisterà? Io penso di no.

L’autore: Davide Matrone è docente all’Universitad politecnica salesiana

In foto Daniel Noboa con la moglie Lavinia Valbonesi alla cerimonia di insediamento nel 2023

Ricerca, libertà, dissenso: vietati fino a nuovo ordine

Negli Usa Harvard ha detto no. Un no che pesa più di tutti i sì silenziosi raccolti negli ultimi mesi nei campus statunitensi. Un no che suona come un avvertimento: il pensiero critico non si baratta per un assegno, nemmeno da 2,2 miliardi di dollari.

Il rifiuto di piegarsi ai diktat di un’amministrazione che, nel nome di una presunta “lotta all’antisemitismo”, chiede l’eliminazione di politiche per l’equità e l’espulsione di studenti dissenzienti, non è solo un atto accademico. È un gesto politico. Un gesto che arriva dopo mesi di purghe nelle università, con centinaia di visti revocati e studenti stranieri arrestati come nemici interni, colpevoli di avere opinioni. L’università di Columbia ha chinato la testa, cancellando corsi e carriere. Harvard no.

Non si tratta solo di difendere i campus. La battaglia in corso tocca le fondamenta stesse della democrazia americana. Il piano MAGA non nasconde più nulla: decostruire l’università, spogliarla di ogni capacità critica, trasformarla in un’agenzia governativa del pensiero unico. Usare la leva dei fondi per installare il terrore tra presidi e rettori. Altro che “woke”: è vendetta, razzismo, repressione.

Il silenzio di molti rende il coraggio dei pochi ancora più evidente. Come ricorda Obama, “l’indagine intellettuale, il mutuo rispetto e il dibattito rigoroso” non sono un lusso, ma il minimo sindacale in un paese che voglia ancora definirsi libero.

Harvard non ha salvato l’America ma ha rispettato se stessa. Chissà se nel loro piccolo qui da noi vi saranno scuole che faranno argine.

Buona mercoledì. 

 

Foto AS

Punire tutto, risolvere niente

Un decreto che scavalca il Parlamento, ignora la Costituzione e criminalizza la marginalità sociale. Così si presenta il nuovo decreto Sicurezza, scritto con l’inchiostro dell’emergenza ma senza l’urgenza dei fatti. Bastano trentasei ore e una manciata di righe dell’Associazione nazionale magistrati per svelarne la natura: 14 nuovi reati, 9 aggravamenti di pena, e nessuna soluzione.

Nel nome dell’ordine pubblico si colpisce chi occupa case, chi resiste in modo non violento, chi lavora con la canapa legale. Si costruisce un diritto penale simbolico che inasprisce senza distinguere. L’occupazione abusiva di un alloggio viene trattata come un omicidio sul lavoro. Le carceri scoppiano, ma si aggiungono nuovi reati e si restringono i benefici penitenziari, persino per le donne incinte.

Mentre Piantedosi promette altre misure, chi lavora nella legalità – come i commercianti di cannabis light – viene abbandonato nel vuoto normativo. Pagano tasse su merce che da un giorno all’altro diventa illegale. E il dissenso? Equiparato alla devianza. La disobbedienza civile evocata da Franco Corleone è una risposta necessaria a uno Stato che preferisce reprimere piuttosto che governare.

Perché quando si governa con la paura, la legge diventa manganello.

Buon martedì.