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Un genocidio che si spiana da solo

Rafah scompare, centimetro dopo centimetro, sotto le lame dei bulldozer israeliani. Lenta e meticolosa, l’operazione di cancellazione avanza: si porta via le pietre, ma anche i corpi, le tracce, le prove. Quel che resta di Rafah – ultimo rifugio per mezzo milione di palestinesi in fuga dai bombardamenti – non è solo un campo di macerie, ma un laboratorio di impunità.

Israele ha già dichiarato quel territorio una zona cuscinetto, annettendosi un quinto della Striscia di Gaza. Ora, mentre i jet sorvolano le rovine e uccidono altre decine di palestinesi, le ruspe preparano il terreno per il futuro che verrà raccontato: nessuna traccia, nessuna prova, nessun crimine. Solo il deserto.

Non bastano i 51.500 palestinesi uccisi in diciannove mesi, i 117.000 feriti, i 15.000 dispersi stimati, senza contare chi è morto di fame, sete o mancata assistenza medica. Non bastano perché la fame e la sete sono diventati strumenti di guerra. Dal 2 marzo, nessun aiuto umanitario entra nella Striscia. Le scorte dell’Onu sono esaurite. E se l’Unrwa – l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi – provava a tamponare l’emergenza, la Casa bianca le ha appena tolto l’immunità, allineandosi alla narrazione israeliana che la vuole complice di Hamas. Così, il principale fornitore di cibo e assistenza rischia di essere travolto da cause e risarcimenti che lo metterebbero fuori gioco.

È un crimine che si consuma due volte: la prima sotto i bombardamenti, la seconda sotto le ruspe. Con un avallo internazionale che ha il coraggio di fingere pietà – come Donald Trump che, in volo verso Roma, confida di “voler essere buono con Gaza” – mentre smantella l’ultimo argine alla fame.

Di Rafah resterà solo il nome. E un genocidio che si autodistrugge per non lasciare testimoni.
Buon lunedì

Foto AS

Davide Conti: Dietro le parole vaghe di Meloni sulla Liberazione, il tentativo di riscrivere la storia

La risposta di piazza alla provocazione del ministro Musumeci che chiedeva un celebrazione sobria dell’ottantesimo della Liberazione è stata forte e chiara: cortei e manifestazioni che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone in molte parti d’Italia.

Dopo aver provato ad aduggiare la ricorrenza del 25 aprile imponendo 5 giorni di lutto nazionale per la morte del papa, senza riuscirci, la presidente del Consiglio ha abbozzato un timido: “Oggi l’Italia celebra l’ottantesimo anniversario della Liberazione. In questa giornata, la Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che da settantasette anni sono incisi nella Costituzione repubblicana”.

Frasi vaghe, involute – commenta lo storico Davide Conti – che lasciano pensare che il fascismo sia stato una parentesi nella storia mentre intanto si cerca di cambiare la Costituzione antifascista. In attesa di poter dialogare dal vivo con lui il 27 aprile (alle 10,30) alla Festa della Resistenza di Roma nello storico quartiere di San Lorenzo, gli abbiamo rivolto qualche domanda sul suo ultimo libro Roma in armi (Carocci editore): rigorosa e scientifica ricostruzione della Resistenza romana, che restituisce dignità alla Capitale, attraverso il racconto puntuale della coraggiosa azione rivoluzionaria compiuta dai gappisti, sostenuti dai romani delle borgate.

Un libro che affonda le radici in una lunghissima ricerca di Conti e che nel 2018 portò al conferimento da parte del presidente Mattarella della medaglia al valor militare a Roma  e che ora sfocia nella creazione di un portale dedicato alla Resistenza di Roma (con fotografie, video, documenti, dati, biografie) realizzato con fondi europei, dallo stesso Conti con il regista Aldo Di Russo.

Dopo l’armistizio, o per meglio dire la resa dell’8 settembre 1943, dopo le grandi perdite di Porta San Paolo e di altri tentativi di scontro frontale con i nazifascisti, a Roma per iniziativa della meglio gioventù – ragazzi e ragazze cresciuti sotto il fascismo, ma che il regime non era riuscito ad accecare – nacquero coraggiose forme di guerriglia contro la guerra totale perpetrata dai nazifascisti fatta di stragi, deportazioni, fucilazioni, prigioni e stanze di tortura.

Nonostante l’assoluta sproporzione di forze, i gruppi di azione patriottica del partito comunista, del partito socialista e delle squadre del partito d’azione, nella Roma occupata dai nazifascisti nel 1943 e 1944 organizzarono una suddivisione della città in 8 aree e dettero vita a comizi a sorpresa e ad azioni di guerriglia urbana. Nel libro Roma in armi, Davide Conti, con un approccio documentario rigoroso, ne ricostruisce minuziosamente la mappa e ce ne offre una chiave interpretativa.

Davide Conti come si è sviluppato questo tuo lavoro nato dall’incrocio di una mole impressionante di documenti: fogli clandestini dei partiti antifascisti, rapporti della questura e della polizia fascista, archivi giudiziari, giornali d’epoca, fonti orali?

Tutto è cominciato con il lavoro di ricerca che mi fu commissionato dall’Anpi di Roma. Mi fu assegnato l’incarico di fare una ricerca su queste fonti nuove con l’obiettivo di presentare poi un report, una sorta di perizia documentale sulla resistenza romana, su tutte le sue azioni militari e non, da presentare al Ministero. Accadeva nel 2016. Nel 2018 questo iter è andato a buon fine, ha passato il taglio del ministero della Difesa e quindi il presidente della Repubblica Mattarella ha firmato il conferimento della medaglia a luglio 2018 alla città di Roma. Questo libro scaturisce proprio da quella ricerca. Ho utilizzato una pluralità di fonti ponendo il focus sulle azioni militari e di guerra, che non avevano avuto il giusto riconoscimento.

I gappisti ebbero il coraggio di una lotta senza quartiere al nazifascismo che ha pochi eguali a livello europeo. Un altro tratto affasciante della resistenza romana che emerge dal tuo libro è l’incontro fra avanguardie partigiane e strati popolari delle borgate in chiave di liberazione e di riscatto. Perché è stato oscurato?

C’è un grande rimosso nella storia riguardo alla resistenza romana. All’indomani della fine della guerra sulla città è stata stesa una coltre di oblio perché quasi immediatamente tornò ad essere la capitale politica del Paese, conservatrice, democristiana. Divenne la capitale del cattolicesimo che era sempre stato ostile a una vicenda emblematica della resistenza armata dentro la città come quella di via Rasella. Questi due elementi immediatamente dopo la fine della guerra bloccarono la svolta storica. Inoltre i quartieri popolari subirono una pesantissima punizione da parte delle truppe tedesche per la loro osmosi con la resistenza armata. La loro storia è stata per decenni disconosciuta proprio per queste ragioni. Basti dire che il Quadraro venne rastrellato il 17 aprile del 1944 perché considerato un “nido di vespe”, cioè luogo in cui i partigiani trovavano rifugio, accoglimento, cure mediche, cibo, sostegno e il riconoscimento della medaglia al valore civile al quartiere è arrivata solo negli anni 2000. Per decenni quella vicenda era stata praticamente cancellata, perché parlare di quel rastrellamento punitivo della popolazione avrebbe significato porre all’ordine del giorno della discussione sulle ragioni per cui era avvenuto

 Perché il quartiere del Quadraro fu rastrellato?

Per le stesse ragioni per cui dieci giorni prima erano stati rastrellati con altrettanta violenza al quartiere di Centocelle, la zona di Borgata e Gordiani, tutta la cosiddetta ottava zona della periferia est della città, perché quella zona era il naturale habitat della Resistenza. Da qui il disconoscimento e l’oblio sulla Resistenza romana che ha portato anche all’oblio delle vittime della violenza nazista su Roma, fatto ancor più grave.

Proprio su questa negazione della storia si innesta la clamorosa uscita di La Russa su via Rasella dove, a suo dire, furono uccisi degli anziani musici e non delle SS e quella di Meloni sulle Fosse Ardeatine ( “Furono uccisi perché italiani”) fino al suo attacco strumentale al Manifesto di Ventotene?

Tutto ciò fa parte di questo tentativo di torsione della verità storica che è tipico di quello che nella storiografia viene chiamato l’uso pubblico della storia. Lo si fa non tanto per chiudere i conti con quel passato, ma per utilizzarli per governare il presente, per legittimare le scelte che si operano oggi. Attraverso la contestazione della Resistenza, contestano la radice resistenziale della Costituzione, ponendo così all’ordine del giorno la possibilità di cambiare la Costituzione, perché se si contesta la sua radice si può anche procedere al cambiamento del suo esito finale, ovvero la Carta, che infatti è l’obiettivo politico di questo governo che non ha mai riconosciuto l’antifascismo come radice storica della Costituzione.

E arriviamo così al ministro Musumeci che ha chiesto”un 25 aprile sobrio” per la morte del papa. In questo quadro Meloni ha abbozzato qualche frase del tipo: “Onoriamo valori democratici negati da fascismo”. Come definirle?

Frasi vaghe, involute. Posta di fronte all’obbligo – almeno da protocollo – di esprimersi pubblicamente sul tema la Meloni, dopo molte uscite assolutamente non congrue al suo ruolo di presidente del Consiglio, ieri ha provato ad accennare qualcosa, senza specificare. Ha cercato di formulare un concetto, ma sempre in maniera assolutamente inefficace, insufficiente nei fare i conti con la storia. Il fascismo non aveva soltanto “conculcato” le libertà dello Stato liberale. E’ accaduto molto altro. Il fascismo aveva costruito un modello oppressivo e liberticida che è stato completamente rovesciato dalla Costituzione antifascista. Questo è il nuovo! Se non si affronta tutto ciò si rischia di rappresentare il fascismo come qualcosa che al più interrotto lo sviluppo storico della democrazia liberale, si ritorna – al massimo – alle tesi di Benedetto Croce del fascismo come parentesi. Invece purtroppo il fascismo è qualcosa di profondamente e intrinsecamente legato alla società italiana al punto tale che gli eredi della Repubblica di Salò, gli eredi dell’Msi, a loro volta eredi dell’RSI, sono oggi al governo e possono permettersi di esserlo senza abiurare al senso del fascismo.

Come si deduce da provvedimenti come il decreto sicurezza e il progetto di premierato che impongono alla democrazia una torsione autoritaria?
Autonomia differenziata, premierato e decreto legge sulla sicurezza sono tre elementi assolutamente evidenti di questa torsione autoritaria che si coniuga con il ritorno nello spazio pubblico dell’idea della guerra come qualcosa di assolutamente ormai normale, assolutamente ordinario, che naturalmente incide sulla vita delle persone non solo per la politica di morte che esprime, ma anche per le condizioni oggettive di vita, di conversione dell’economia in economia di guerra, che significherà perdita di posti di lavoro, peggioramento delle condizioni di vita delle persone e quindi ulteriore impoverimento e allargamento della forbice della disuguaglianza.

Qui l’introduzione al libro Roma in armi (Carocci)

Qui l’articolo di Davide Conti su Left di aprile Chi ha paura dell’articolo 11

In foto WP: Militari fascisti della R.S.I. prendono parte al rastrellamento di civili davanti a Palazzo Barberini, a seguito dell’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944: alcuni dei fermati saranno poi trucidati alle Fosse Ardeatine

Qui il programma della Festa della Resistenza

La Resistenza come progetto politico per il domani. Una lettura del Manifesto di Ventotene

Viviamo l’anniversario della liberazione, quest’anno, in un mondo sempre più alla deriva verso autoritarismo e nazionalismo, anche nostalgici. Diventa così importante non solo ricordare la giusta e fondante lotta dei partigiani, ma ancor più interrogarsi sul valore attuale di ciò che onoriamo. La Resistenza non fu solo una battaglia contingente contro il Male del nazifascismo: fu il progetto politico di chi si opponeva – pur nella varietà delle singole posizioni – a ciò che l’Europa stava diventando nell’esasperazione criminale e totalitaria dei nazionalismi. Quello spirito, in Italia, fu incarnato dal CLN prima, e poi soprattutto dal lavoro dell’Assemblea Costituente. Ma purtroppo si perse poco dopo, con il prevalere della logica dei blocchi di Jalta e la rottura dell’unità nazionale, in mezzo agli ostacoli che le sfere d’influenza ponevano ad una piena e autonoma integrazione europea, in quanto tale una possibile rottura nello schema della contrapposizione.

Oggi più che mai è urgente recuperare quella disposizione d’animo. E Ventotene è una tappa obbligata e profonda, non foss’altro per queste ragioni. Ma poi, il mese scorso, la becera cronaca politica ci ha forzatamente riportato lì in modo scorretto, manipolando la realtà.

E allora, dobbiamo oggi tornare a dire sì, Meloni, l’Europa che vogliamo è proprio quella di Spinelli Rossi e Colorni, quell’Europa che lei presidente non ha capito. O rifiuta di capire, perché in fondo non le dispiace l’immagine della Fortezza Europa a protezione delle nazionalità, di cui però parlavano proprio Hitler e Mussolini nel 1938 (si vedano come sempre le illuminanti pagine di Klemperer, in presa diretta su quegli atroci discorsi).

L’uso fatto in Parlamento da Meloni si inseriva nel solco delle grette manipolazioni a cui ormai la politica ci sta abituando su ogni sponda dell’Atlantico, attraverso citazioni decontestualizzate e opportunamente tagliate a proprio vantaggio. Ma anche certa stampa, lisciando il pelo alla presidente, non è stata da meno, con toni sguaiati: l’ormai sempre presente Galli della Loggia ha ripubblicato con Il Foglio un suo passato intervento, titolato ora Perché il manifesto di Ventotene è una boiata pazzesca (19 marzo); Pierluigi Battista, su Huffpost e in un’intervista al Giornale (20 marzo), parla di dittatura illiberale e controllo oligarchico della proprietà privata in modo – volutamente – parziale.

In quei giorni il dibattito è stato acceso e a tratti sgradevole, mentre il testo in questione avrebbe richiesto un atteggiamento più posato e rispettoso. Nato in un momento storico preciso, e da misurare su quel riferimento – come è stato a più riprese detto –, rimane però un testo proiettato nel domani, e dunque parla a noi, chiede di agire. Questo non esclude che alcuni punti della riflessione possano essere oggetto di riformulazione, e lo stesso Spinelli vi tornò negli anni successivi alla guerra. Basterebbe già solo ricordare, e prendere in mano, la voce Europeismo da lui stesa per l’Enciclopedia del Novecento della Treccani nel 1977. Galli della Loggia ed esponenti di FdI accusano Spinelli di spirito giacobino-leninista, dimenticandosi la sua avversione per il regime sovietico, ma più in generale per ogni brutale repressione e oppressione. Infatti nella voce Treccani attacca l’imperialismo hitleriano e ma anche quello napoleonico (figlio del giacobinismo a cui Bonaparte aveva aderito in gioventù). E poi, sempre in quelle pagine, Spinelli riconosce nella Svizzera uno dei pochi modelli alternativi di successo da prendere a riferimento per la soluzione federale. Difficile immaginare un feroce bolscevico che prende a modello la realtà elvetica, no?

C’è povertà di spirito critico se si vuole parlare del progetto federalista di Ventotene senza tener conto del personale sviluppo della riflessione da parte dei suoi promotori. Ma lo spirito critico non è di moda oggi purtroppo.

Come ogni testo, tanto più se legato ad un progetto politico, parla a noi che lo leggiamo, anche a distanza, ma certo occorre esser consapevoli che termini ed espressioni vanno misurati sul vocabolario del tempo, specie sui punti tecnici, altrimenti il fraintendimento è all’ordine del giorno. Ma i politici cercano in modo spasmodico questa ignoranza.

«La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente». Meloni, Battista, Loggia, sembrano aver dimenticato l’art. 42 della Costituzione, che parla di «limiti», «funzione sociale» della proprietà privata, possibilità di esproprio, contrasto ai monopoli. Per loro anche la carta costituente è un pericoloso documento di statalizzazione? Di sicuro non piace sotto vari punti di vista, ormai è chiaro. Tutti accusano il manifesto di essere marxista, o bolscevico. Ma evitano accuratamente di soffermarsi su un’espressione fondamentale: «non dogmaticamente». Ventotene smentisce da sé tutti i suoi detrattori, e più avanti dice: «essere coerenti, quantunque sia abbastanza difficile, è infinitamente più facile che esser saggi» (ci pensi chi si vanta, a torto, di coerenza). Il rifiuto del dogma implica un approccio socio-economico pragmatico, in cui non si detta una regola fissa (abolita, limitata o estesa!). Ciò esclude in partenza giacobinismo, marxismo ortodosso, leninismo e stalinismo. Spinelli rifiuta il dogma in nome di una pluralità di opzioni, da vagliare sui casi specifici. Il manifesto rifiuta il socialismo tradizionalista dogmatico, rifiuta le rigidità e il fideismo, con i connessi rischi totalitari. Spinelli parla di un mondo socialista, sì, ma propone un «socialismo spregiudicato», libero da assiomi e teso verso una società più giusta, lontano da ogni «torpido tradizionalismo» in cui anche il comunismo corre il rischio di cadere, quando pensa solo a perpetuare la sua idea, senza mettersi in discussione. Spinelli propone una visione in grado di adattarsi incessantemente al cambiamento, dunque un vero progressismo.

Ma la selezione parziale è la miglior arma di manipolazione, e tutti hanno ignorato la complessità degli scritti di Ventotene che oltre al Progetto d’un manifesto vedono anche: Gli stati uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e politica federalista. Qui si specificano e approfondiscono punti trattati nel primotesto, e sono fondamentali per capire cosa pensavano Spinelli Rossi e Colorni. Emerge una riformulazione del socialismo che prendere le distanze in modo netto dall’Urss, ma anche dal dogmatismo di Marx, individuando alcuni errori nella teoria  socio-economica comunista (nell’assolutizzazione del concetto di lotta di classe e in forme di collettivizzazione piena). Si avanza in queste pagine una nuova visione socialista, che critica il capitalismo lasciato a se stesso, ma riconosce i vantaggi del libero scambio, e anche della produzione di profitto, purché indirizzata a investimenti redistribuivi, e non a forme di accumulo. Il vero bersaglio è la concezione monopolistica, propria del capitalismo estremo, ma che giustamente Spinelli riconosce, in forme deformate (monopoloidi) anche nel regime sovietico.

Pur nelle distanze, però, è su Marx che occorre misurare il termine su cui Meloni ha voluto di più calcare la mano: dittatura. Ogni parola ha diverse accezioni, specie se entriamo nel lessico di discipline come la politologia e la filosofia. Questo rende lo studio interessante ma anche insidioso, perché è necessario maneggiare con precisione i concetti. Se dittatura indica, nella percezione comune, un governo tirannico ed autoritario, anticamera del totalitarismo, occorre fare delle precisazioni per la filosofia e la storia delle forme di governo. Nell’antica Roma la dittatura era un assetto costituzionale previsto in momenti di crisi, una fase di passaggio in cui lo stato veniva traghettato da un prima ad un dopo. A questa formulazione non è estranea la visione di Marx quando parla di dittatura del proletariato. Strumentalmente la destra si ferma lì, spacciando questa teoria come il punto d’arrivo previsto dal comunismo. La dittatura del proletariato è per Marx un assetto di transizione: l’emergere delle contraddizioni e tensioni insite nel modello capitalista porterà inevitabilmente ad una crisi in cui la lotta di classe verrà esacerbata; per gestire la crisi e uscirne in modo nuovo, non reazionario, servirà – alla romana – una dittatura che guidi la mediazione dal capitalismo e comunismo, in vista addirittura di un’estinzione dello stato, idea certo non compatibile con idee di potere oppressivo.

Ora, Spinelli si distingue da Marx, ma legami restano nell’uso di certe parole. Davanti alla crisi della Seconda Guerra Mondiale, con il collasso prodotto dalle logiche degli Stati-Nazione, si potrà uscire in due modi: ripristinando l’ordine in ottica nazionale, o cercando una soluzione nuova. In entrambi i casi la transizione può esser definita dittatura – nel senso romano e marxista. Ventotene augura una «dittatura del partito rivoluzionario», cioè una soluzione di cambiamento. Questa dittatura è temporanea, per gestire nella fase di transizione le «informi masse»: qui, non c’è alcuna idea di popolo immaturo (cit. Battista e Loggia) ma, in termini filosofici (che pur nel distacco risentono del riferimento hegeliano-marxista), la consapevolezza di un ciclo dialettico della storia:  la crisi e la catastrofe della guerra hanno sfaldato il corpo civile, che deve ritrovare una sua integrità e coesione; questo risultato non può essere ottenuto con lo Stato-Nazione. Occorre superare questo concetto nello spazio europeo, e adottare la logica federale, in un progetto che coinvolga partiti di diversi orientamenti, per costruire la vera libertà di popoli e individui. La dittatura infatti non è classista ma rivoluzionario-federale, e unirà tutti gli oppositori del totalitarismo, dai comunisti ai liberali, purché sappiano uscire dagli schemi dogmatici delle loro correnti. Il manifesto è chiaro, lo scopo della transizione è creare condizioni istituzionali, costituzionali e dunque culturali «per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato»; «non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo», proprio perché non si mira ad una società servile (cosa che accadrebbe invece con un ritorno all’ordine capitalista e nazionalista lasciato a se stesso). La Federazione Europea avrebbe infine dovuto svolgere, per il manifesto di Ventotene, il ruolo di mediatore e garante nei rapporti fra altri popoli, memore dei suoi errori e rafforzato da una nuova visione.

La politica oggi affronta testi di tale profondità senza la necessaria consapevolezza, e senza il rispetto dovuto, alimentando un non-progetto che nega la riflessione e il confronto, cerca la via plebiscitaria per accumulare potere e imporre una visione ideologica. Le destre oggi alla ribalta sono figlie dei nazionalismi che portarono allora alla catastrofe, e non rinnegano quelle radici, anzi. Dall’Europa delle nazioni di Meloni, ai Patriots, lo Stato-Nazione è l’ideale perseguito, ostacolando l’unione e rompendo con ogni forma di controllo sovranazionale (vediamo moltiplicarsi gli attacchi alla Cpi, e ad altri organismi analoghi). Il ritorno di queste tendenze pericolose è stato certo incoraggiato dal rancore delle classi medie, cavalcato per acquisire consensi (pensiamo al caso emblematico di Trump), con una dinamica che già nel ’41 Spinelli individuava come propria dei totalitarismi. Ma anche una sbagliata realizzazione del sogno europeo, sfociato in forme tecnocratiche in più casi discutibili, ha contribuito. E sempre Spinelli ci avvertiva di questo rischio amministrativo-tecnicistico, nella voce Treccani: «Un’amministrazione è sempre necessaria per realizzare un piano politico, ma tende per sua natura a irrigidirlo […] Nessuna agenzia settoriale europea avrebbe avuto una forza trascinante per il resto delle economia e della società europea, ove fossero mancati impulsi politici nuovi». Un’impostazione amministrativa, con la sua natura ibrida, è  risultata più digeribile rispetto al vero federalismo, non intaccava veramente la sovranità nazionale. Ma il risultato a lungo andare è la rigidità, e questo elemento ha dato un nuovo ulteriore bersaglio ai nazionalismi. Per questo occorre tornare alla piena lezione di Ventotene, all’idea di esecutivo e legislativo europei «fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non su rappresentanze degli stati federali» (come invece accade). La linea di divisione morale non deve essere in questa fase destra-sinistra, ma come diceva il manifesto nazionalismo-federalismo, perché il progetto europeo di Ventotene aveva una natura interpartitica, di unità, come Bobbio riconobbe più tardi e come chiarì subito nella prefazione Colorni. Dopo aver realizzato a pieno questo spazio politico si lascerà alla vita libera la dialettica fra diverse e legittime posizioni, nel rispetto condiviso per l’umanità.

Non si tratta di trovare una soluzione definitiva e fissa, come invece avrebbe voluto un progetto marxista ortodosso. Il progetto federalista è socialista perché vuole realizzare condizioni eque e libere per tutti. Ma non si tratta di un risultato raggiunto una volta per tutte. L’opera rivoluzionaria è solo «l’inizio di un’operosità che potrà durare e svilupparsi solo finché gli uomini conservino una seria volontà di lavorare in quel senso». Non servono istituzioni perfette, ma «in cui si formino uomini desiderosi e interessati a svilupparle, come garanzia della loro libertà e come strumento per la loro ascesa a forme più alte di vita individuale e collettiva». Solo così «i pericoli di domani possono essere serenamente affrontati con la sicurezza che saranno superati. Se invece il tipo umano prevalente dovesse essere quello dell’uomo-soldato ubbidiente […] nessuna organizzazione sociale […] potrebbe mantenere una civiltà di uguaglianza e di libertà». La ricerca dogmatica marxista correva il rischio di produrre un mondo del genere, irrigidito in una soluzione fissata una volta per tutte e a cui obbedire. Spinelli riconosce che «la soluzione federalista, intelligente, e perciò non definitiva, mira ad allevare uomini cui si possa con fiducia affidare il compito».

L’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, ricercatore e insegnante

 

Il coraggio di dire no: Del Din e la Resistenza civile raccontati a teatro

La fermezza imprescindibile di un ideale contro la voluttà infernale del populismo e la sua violenza espressiva. Le sfumature vocali dei due attori in scena, Francesca Lepiane e Marco Strocchi, ripercorrono la vita folgorante di Renato Del Din attraverso emozioni contrastanti, prese di coscienza e attimi di oblio, come quando il partigiano morì nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1944, guidando l’assalto di soli tredici patrioti della Brigata Osoppo contro l’intero presidio nazifascista di Tolmezzo, capoluogo della Carnia, in Friuli. Colpito mortalmente durante la nottata in cui furono lanciate quaranta granate ed esplosi centinaia di colpi, il giovane sottotenente degli Alpini cadeva a terra, ma non ancora domato, si rialzava gridando «Viva l’Italia! Osoppo avanti!», finché una nuova raffica non ne stroncava il respiro.
Per l’ottantesimo anniversario della Liberazione la prima dello spettacolo “Il fuoco ci prenda” si tiene proprio oggi, venerdì 25, alle 20.30, al Teatro Candoni di Tolmezzo, dove si compì il destino di Renato, medaglia d’oro al valor militare. L’ufficiale ventunenne scelse di lanciarsi contro la caserma della milizia di Mussolini, per il suo odio viscerale nei confronti dei repubblichini e delle camicie nere, da lui definite «livide persone che hanno venduto l’anima, così come domani venderanno la sorella, al miglior offerente». Lo spettacolo della compagnia bolognese Solve Coagula, con la regia del giornalista e scrittore Alessandro Carlini, è realizzato dalla Nuova Pro Loco di Tolmezzo; mentre la data successiva, lunedì 28, alle 21, nella quattrocentesca Sala della Musica di Ferrara, è organizzata dall’Istituto di Storia contemporanea.
L’alternanza tra dialoghi e monologhi stringenti rispecchia l’animo duplice del ragazzo friulano, che se da un lato perde la vita con un’azione considerata da lui stesso “molto concreta” e “decisiva” su quel fronte, dall’altro sconta un atteggiamento idealistico insostenibile per un individuo, tanto da non sembrare nemmeno un figlio del secolo breve. La determinazione e l’integrità risorgimentale che lo muovono dalla prima battuta presagiscono che non possa arrivare incolume al seconda metà del Novecento. Renato si oppone con tutto se stesso – e dunque il sacrificio invocato de facto dalla sorella Paola Del Din – alla legalizzazione dello squadrismo e alla corruzione del carrierismo militare fascista a scapito della nazione che professavano di proteggere.
Sullo sfondo della narrazione, invece, scorrono foto originali e video dell’Istituto Luce, che cominciano dall’infanzia di Renato, dallo strettissimo rapporto con la sorella, che poi sarà a sua volta staffetta dell’Osoppo e agente del servizio segreto britannico (Soe) proprio per vendicare il fratello ucciso dai nazifascisti con il nome di battaglia di Renata. I due attori entrano nel vivo della scelta di Renato, nel suo antifascismo iniziato con l’idea di non giurare di fronte al Duce e maturato sin dai tempi dell’Accademia militare di Modena. Vengono riletti e interpretati i suoi scritti e le sue lettere scambiate con un amico, un altro ufficiale degli Alpini che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il dialogo tra i due è travolgente, due Italie si scontrano, due idee opposte di patria: quella fascista e mortifera che aveva demolito il regio esercito a cui Renato era devoto, e quella della Resistenza, purificatrice e di rinascita comunitaria.
Tratto dal romanzo biografico Se il fuoco ci desidera (Utet, 2024) di Carlini, il titolo si ispira all’incipit di una poesia del protagonista, radicale quanto la sua esistenza: «Se il fuoco ci desidera il fuoco ci prenda». Lo spettacolo ha le potenzialità e le risorse del teatro civile, con uno spazio scenico essenziale e pochi oggetti sul palco, tutti fortemente simbolici: dalla macchina da cucire che con il ticchettio ricorrente allude all’incedere della sorte nefasta di Renato, al cappello da Alpino, alla giubba divenuta un idolo devozionale per le donne di Tolmezzo che al pari della tragedia di Antigone sfidano le autorità rappresentate dai nazifascisti, e organizzano i funerali solenni del partigiano caduto, senza sapere chi fosse. Senza la necessità di saperlo. Le donne diventano protagoniste indiscusse, solerti, non più soltanto custodi della memoria di Renato, ma combattenti; come accadde nella cruda realtà del 27 aprile ’44, quando a Tolmezzo il corteo guidato da loro, poiché gli uomini temevano rappresaglie, avanzava nel capoluogo carnico intonando i salmi. Il loro passaggio proseguiva indisturbato, fra i militari armati fino ai denti e le mitragliatrici appostate nelle vie secondarie, che restarono in silenzio. Si pregava, non si sparava. Presero la via del cimitero e passarono davanti alle sentinelle nere che rodevano di rabbia, ma non mossero un dito, non fiatarono.
Quelle donne pagarono un prezzo per un emblema volutamente innominato: nello specifico una tra tutte, Maria Agata Bonora, finì in un campo di concentramento e spirò per le condizioni patite in prigionia dopo la fine della guerra. Tuttavia i rischi che si potevano correre all’epoca, ossia essere arrestati, interrogati, torturati, deportati o persino fucilati, non contavano per Renato, Paola e le donne di Tolmezzo. Una voce ritorna ostinata e indiscutibile che rammenta alla platea: «È rischioso, ma è più rischioso non farlo».

Che il fuoco ci prenda .
ph.© Serena Campanini

L’autore: Matteo Bianchi è giornalista e curatore di rassegne letterarie come Elba book festival

«Così decidemmo da che parte stare». La straordinaria storia della resistenza ravennate

Mentre la nebbia avvolgeva le campagne che corrono tra il Mar Adriatico e le colline Faentine, nell’autunno del 1943 prese vita a Ravenna un movimento partigiano capace di sfidare le truppe di occupazione nazifasciste e, con esse, ogni convenzione e logica militare. Questo straordinario capitolo di storia rivive ancora oggi negli occhi dei partigiani e delle staffette ancora in vita, e riaffiora con forza negli sguardi determinati di molti giovani, tra cui i pronipoti. Una memoria che, così come i papaveri che tingono di rosso quelle stesse pianure, riemerge con forza nel mese di aprile.

Fotogallery del reportage di Marco Scardovi

 

«A quattordici anni non si prova paura». Questa l’età di Anna Domenicali, che oggi di anni ne ha 96, quando divenne staffetta partigiana e iniziò a consegnare – a rischio della propria vita – messaggi e armi attraverso le campagne di Lugo di Romagna.
Nota ai più per essere stata l’ultima capitale dell’Impero Romano d’Occidente, in seguito alla sua liberazione avvenuta nel dicembre del 1944, Ravenna rappresentò l’avamposto più avanzato delle forze alleate in Italia e, in una nazione ormai lacerata dal conflitto, divenne simbolo di una delle più innovative esperienze di collaborazione tra formazioni partigiane e truppe alleate in Europa. Tutto ebbe inizio in una piazza di Ravenna l’8 settembre 1943 quando, al diffondersi della notizia dell’armistizio tra il Governo italiano e gli Alleati, Arrigo Boldrini – destinato a diventare il leggendario comandante partigiano “Bulow” – salì sul monumento a Garibaldi ed esortò la folla a non farsi illusioni: le truppe di occupazione tedesche sarebbero arrivate e la guerra non era finita. Era anzi necessario prepararsi a combattere e resistere. Queste parole segnarono l’inizio della Resistenza ravennate.
«Bisognava decidere da che parte stare», avrebbe poi affermato Pietro Valentinotti, tipografo di Cotignola che si unì alla Resistenza dopo l’armistizio. Poche e chiare parole, che contengono l’essenza e l’imperativo morale di quel momento.

Quanto a Boldrini, in seguito al suo discorso riuscì a sfuggire all’arresto solo grazie all’intervento di Natalina Vacchi (che sarebbe poi stata impiccata dai fascisti presso il Ponte degli Allocchi undici mesi dopo), con cui fuggì in bicicletta prima di iniziare la sua attività clandestina. Iniziò così una guerra di resistenza destinata a durare venti mesi, combattuta da persone capaci di scelte straordinarie che avrebbero cambiato il corso della storia locale.

Fantasmi nella pianura: Come Boldrini sovvertì le leggi della guerriglia partigiana
In Romagna, regione caratterizzata da quella che l’ufficiale britannico Vladimir “Popski” Peniakoff definì “un’antica tradizione di indipendenza di pensiero, e di intolleranza popolare nei confronti della tirannia”, prese forma un movimento di resistenza capace di sovvertire ogni ortodossia militare.

Se la dottrina bellica convenzionale voleva infatti che le operazioni di guerriglia avessero luogo in primo luogo tra le montagne – la cui conformazione e vegetazione sono normalmente in grado di offrire naturale protezione ai combattenti – in seguito ad alcune disastrose sconfitte negli altopiani della provincia, Boldrini avanzò una proposta che apparve tanto rivoluzionaria quanto azzardata: spostare la guerriglia verso il luogo in apparenza più vulnerabile, e andare verso una “pianurizzazione” del conflitto.
Nonostante la scelta potesse apparire rischiosa, essa si rivelò vincente. Il genio strategico di Boldrini risiedeva tanto nella profonda conoscenza del territorio e di chi lo abitava, quanto nella capacità di riconoscere e sfruttarne i vantaggi. Come sottolinea lo storico Nicola Cacciatore nel suo recente libro Alleati e partigiani nella liberazione di Ravenna, Boldrini comprese che «le componenti fisiche non fossero le sole a determinare l’habitat dei partigiani, ma occorresse considerare il tessuto sociale della zona».

Nonostante l’assenza di difese naturali, la pianura romagnola era stata nei decenni «sezionata con fitti reticoli di fossi, siepi, argini e canali» che creavano ostacoli artificiali sfruttabili dai partigiani con straordinaria abilità tattica. Come evidenzia Cacciatore, se tedeschi e fascisti ebbero per mesi l’impressione di combattere contro una schiera di fantasmi, ciò fu dovuto all’abnegazione dei contadini romagnoli che ospitarono e protessero i combattenti. «Seguendo una metafora di Mao Zedong», conclude lo storico, «i combattenti divenivano i pesci e la popolazione l’acqua».

I corsari di Sua Maestà e i banditi romagnoli
Uno dei capitoli più affascinanti di questa avventura si lega a una collaborazione tanto efficace quanto inaspettata: quella tra i partigiani guidati da Boldrini, chiamati in modo sprezzante dai Tedeschi “banditen” (banditi), e i soldati di un’unità irregolare dell’esercito britannico guidata dal leggendario, Vladimir Peniakoff, meglio conosciuto come “Popski”. Ingegnere di formazione, aveva negli anni coltivato la sua passione per l’esplorazione, il deserto e l’archeologia. Con lo scoppio della guerra in Nord Africa, queste competenze lo resero prezioso per le forze armate britanniche, che gli affidarono la creazione di un’unità speciale destinata a diventare celebre per le sue audaci incursioni dietro le linee nemiche, in nord-Africa e Italia. La Popski’s Private Army (PPA), pur ufficialmente incorporata nell’Ottava Armata britannica di stanza in Romagna, godeva di straordinaria autonomia operativa e si muoveva agilmente su jeep armate di mitragliatrici. Questi «corsari su jeep» – come Popski li definì all’interno della sua autobiografia – portavano come emblema l’astrolabio, antico strumento di navigazione che simboleggiava le tecniche di orientamento apprese durante i suoi anni trascorsi nel deserto.

Nell’autunno del 1944, la PPA attraversò le linee nemiche nella zona di Ravenna e, da quel momento, fino alla liberazione della città combatté fianco a fianco con le formazioni partigiane. Fu un incontro affascinante tra mondi distanti – quello degli avventurieri cosmopoliti di Popski e dei contadini romagnoli – uniti però da ideali molto simili e dalla lotta a un nemico comune e ciò che rappresentava. Un incontro magistralmente descritto dallo stesso Peniakoff all’interno delle sue memorie e del libro Corsari in Jeep (Danilo Montanari editore): «Portavano, su abiti borghesi, i fazzoletti rossi della Brigata Garibaldi ed erano forniti di armi tedesche; avevano un’aria selvaggia, ma parlavano a bassa voce ed i loro modi erano sottomessi, perché erano stanchi. Avevano combattuto continuamente contro i Tedeschi durante gli ultimi quattro mesi. Il comandante del distaccamento era un muratore, un pezzo d’uomo di trentatré anni, e si chiamava Ateo (Ateo Minghelli). Non era un nome di battaglia; lo portava di pieno diritto essendo stato chiamato così, alla nascita, in omaggio all’anticlericalismo del padre. Vi è in Romagna un’antica tradizione di indipendenza di pensiero, e di intolleranza popolare nei confronti della tirannia. I Romagnoli si rivoltarono prima contro il potere secolare della Chiesa; dopo l’unificazione dell’Italia, disprezzando i poteri governativi e non potendo chiedere aiuti a chicchessia, operai e contadini si erano organizzati in cooperative che nemmeno i fascisti erano riusciti a sciogliere. I socialisti trovarono qui aderenti in maggior numero che non in qualsiasi altra parte d’Italia. Quando, dopo la prima guerra mondiale, si formò il partito comunista, esso si sviluppò rapidamente in Romagna e oppose una costante resistenza sotterranea al fascismo. Dopo l’armistizio italiano (8 settembre, 1943) i Romagnoli, già avvezzi ad amministrare le loro cooperative ed aiutati dalla robusta organizzazione e dalla forte disciplina del partito comunista, disposero presto della più efficiente formazione partigiana d’Italia».

La straordinaria capacità di Popski di riconoscere il valore e le competenze dei partigiani ravennati, competenze che vennero messe a frutto nella liberazione di Ravenna, contribuì a ridurre in modo significativo le diffidenze nei confronti di brigate partigiane composte principalmente da comunisti, e favorì un modello di collaborazione che si sarebbe rivelato determinante nella fase finale del conflitto e nella liberazione del nord-Italia.
La figura di Popski assunse inoltre un ruolo centrale nel salvataggio della Basilica di Sant’Apollinare in Classe, patrimonio Unesco. Memore dei preziosi mosaici custoditi al suo interno, fece annullare personalmente il bombardamento alleato che era stato pianificato a causa della presenza di forze tedesche che ne utilizzavano il campanile come punto di osservazione strategico. La basilica venne poi successivamente liberata grazie a un’incursione.

Un’alleanza senza precedenti
Se l’incontro tra la Popski’s Private Army e i partigiani ravennati rappresentò un primo, significativo esempio di collaborazione tra forze irregolari, fu l’integrazione formale della 28ª Brigata Garibaldi nell’Ottava Armata britannica, avvenuta in seguito alla liberazione di Ravenna, a creare un modello senza precedenti di cooperazione nella storia della Seconda Guerra Mondiale.
Il percorso verso questa collaborazione non fu ovviamente privo di ostacoli. Negli ambienti politici e militari britannici persisteva infatti una profonda diffidenza verso le formazioni partigiane, specialmente quelle guidate dai comunisti. Il pragmatismo di Arrigo Boldrini si rivelò però determinante nell’abbattere queste barriere. Da un lato, l’efficacia e la disciplina dimostrate dai combattenti ravennati parlarono da sé; dall’altro, Boldrini impose rigide regole che proibivano l’esibizione di simboli di partito o l’esecuzione di inni politici durante le operazioni, assicurando che il movimento partigiano fosse – e venisse inoltre percepito – come un’autentica forza trasversale di liberazione nazionale.
La 28esima Brigata Garibaldi avrebbe poi combattuto fianco a fianco dell’VIII Armata Britannica fino alla fine del conflitto, rafforzando una collaborazione tra mondi fino a quel momento sconosciuti. La stessa VIII Armata era un mosaico che rifletteva la diversità etnica e culturale dell’Impero. Sotto un comando unificato operavano infatti soldati provenienti da cinque continenti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, indiani e combattenti appartenenti alla Brigata Ebraica. La battaglia decisiva di questa campagna avrebbe infine avuto luogo lungo il fiume Senio, nell’aprile 1945. Precedute da uno dei bombardamenti più significativi del fronte europeo, dopo mesi di stallo le truppe alleate e quelle partigiane avrebbero sfondato la linea del fronte, liberando la Romagna e avanzando verso il Veneto.

Un’eredità per l’oggi
Se la memoria storica appare oggi sempre più fragile – anche in ragione del rapido mutamento negli equilibri internazionali e dell’erosione di quei principi etici che, seppur spesso disattesi, avevamo considerato condivisi – preservare il retaggio della Resistenza non può che trascendere la semplice commemorazione e diventare fonte vitale d’ispirazione. Gli sguardi ritratti di partigiani e staffette – testimoni diretti di quella straordinaria stagione di lotta – si intrecciano qui con quelli dei pronipoti, naturali custodi di quei valori, creando così un ponte ideale tra il passato e presente. Sguardi come quello di Elisa Andraghetti, oggi consigliera comunale a Lugo e pronipote di Vincenzo Giardini, partigiano e primo sindaco della città nel dopoguerra. O quello di Camilla Mancini, attiva nell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e pronipote di Amos Calderoni, insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare, morto eroicamente in battaglia per proteggere la ritirata dei suoi compagni.
La storia della Resistenza ravennate si compone di queste narrazioni – delle storie di chi seppe compiere scelte straordinarie al fine di veder realizzata un’idea diversa di società, di chi fu in grado di anteporre al proprio interesse e quieto vivere ciò che sapeva essere giusto. Così come Boldrini sfidò le convenzioni militari trasformando un apparente svantaggio in un punto di forza strategico, così queste storie ci insegnano che l’ingegno, l’unità e la determinazione possono sovvertire qualsiasi logica di oppressione.

In apertura: Minny (Viera) Geminiani, nata ad Alfonsine (RA) nel 1926, contadina e mondina. Come staffetta partigiana, dopo l’8 settembre 1943, a rischio della propria vita, trasportò ordini, armi e medicinali ai partigiani nella zona tra Voltana e Alfonsine. Aiutò inoltre molti a evitare la leva imposta dal regime (foto dal reportage di Marco Scardovi)

L’autore: Marco Scardovi è operatore umanitario, autore di reportage fotografici e articoli di approfondimento. Lavora per un’organizzazione non governativa internazionale ed è stato assessore alla Cultura e alle politiche giovanili del Comune di Lugo di Romagna, dove attualmente presieda la commissione consiliare Politiche sociali, disabilità, pubblica istruzione, cultura, turismo e pari opportunità

Adriano Prosperi: «La storia tradita, ecco perché oggi serve una nuova Resistenza»

Adriano Prosperi

Nel suo nuovo libro Cambiare la storia, falsi, apocrifi, complotti (Einaudi) lo storico Adriano Prosperi analizza episodi di clamorosa falsificazione della storia: dal famoso falso della donazione di Costantino su cui si fondò tanto potere temporale della Chiesa, ai protocolli di Sion, su cui si è basato tanto antisemitismo. Inganni che hanno inciso pesantemente sul corso della storia.

«Questo libro è un po’ un esercizio, per così dire, di storia in pillole. La storia dovrebbe raccontare il vero. Invece è accaduto molto spesso che abbia raccontato il falso. Gli esempi purtroppo sono tanti», avverte il professore emerito della Scuola Normale superiore.

«Ogni falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita» scriveva Marc Bloch, come Prosperi ricorda nella premessa di Cambiare la storia. «È proprio così – dice a Left il professore -. Ogni volta è accaduto perché in qualche modo si erano generate le condizioni perché accadesse, proprio come notò Bloch. Non si sarebbe potuto impunemente raccontare il falso se non ci fossero state delle premesse, delle forze, delle tendenze, delle condizioni storiche. Raccontare che Costantino aveva regalato Roma e l’Impero al papato fu possibile finché il papato fece di tutto per sostenere la verità del falso.

Professore chi inventò il falso della donazione di Costantino?

Lo inventarono nella Curia romana e ne sostennero la veridicità per secoli. Poi a un certo punto comunque è accaduto che l’autorità politica, temporale, che il potere spirituale reclamava per sé si è ridotta e concentrata in un piccolo Stato che ha sede proprio a Roma.

Oggi, se dovesse fare un esercizio da contemporaneista, dove vede le falsificazioni della storia più evidenti? 

Purtroppo giungiamo al 25 aprile in un contesto in cui il vento della liberazione non soffia più. Chi vuole sostenerla deve fare conti con l’ostilità del regime politico, del potere dominante oggi; deve fare i conti con il tipo di cultura che si sta diffondendo ma anche con un contesto internazionale in cui quella speranza di conquista della libertà con la lotta dei cittadini si è molto allontanata dal nostro orizzonte dominato da oppressioni e guerre. Noi non avremmo mai potuto immaginare che ci sarebbero state altre guerre.

L’ottantesimo della Liberazione cade in un contesto internazionale di conflitti armati. Come lo vive?

Vede, io sono nato prima della seconda guerra mondiale, ricordo l’oppressione vissuta in quegli anni. La mia famiglia era contadina, mio padre era comunista dalla scissione di Livorno del 1921 e vivemmo quegli anni di terrore oppressi dalla potenza che ci occupava e che aveva dalla sua la collaborazione del fascismo. Io ricordo bene la strage del padule di Fucecchio che avvenne il 23 agosto del 1944, dieci giorni prima della liberazione della zona.

Fu una delle più efferate stragi nazifasciste come lei ha scritto in una toccante testimonianza «La mia liberazione» uscita nel 2015 su Micromega in cui ricordava che non furono risparmiati neanche donne e bambini. Si narra di neonati usati come bersagli di tiro a segno…

Da noi gli alleati arrivarono il 2 settembre del 1944. Quel 23 agosto i nazifascisti a Fucecchio uccisero 180 persone, fra loro donne, bambini, vecchi. Non possiamo dimenticare che insieme al battaglione nazista agiva anche uno specifico corpo italiano di SS: furono loro a guidare i tedeschi e al contempo i militari fascisti uccidevano direttamente chi li riconosceva. I nomi di questi assassini furono registrati soltanto da un parroco locale che però poi li cancellò dal suo diario perché non si alimentassero divisioni fra gli italiani. Il fatto vero è questo: ci furono italiani che fecero strage di italiani in nome del nazifascismo e questa fu la condizione in cui arrivammo alla liberazione che avvenne con l’intervento degli alleati.

Oggi a scuola queste vicende non vengono più ricostruite adeguatamente. E sui media e in tv politici e giornalisti di destra propongono una falsa narrazione di quel periodo che mette sullo stesso piano partigiani e nazifascisti. Come cambiò la sua vita dopo la Liberazione?

I miei genitori si sacrificarono perché io potessi studiare. La mia iscrizione al concorso per le scuole medie avvenne nel nome di Gramsci. Mio padre era stato colpito da una sua frase: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza». Su quella base si sentì in diritto di mandarmi a fare il concorso per docente alle scuole medie. Sono fatti che segnano la vita e che oggi mi fanno guardare al futuro con un senso di sconcerto e di grave preoccupazione perché non solo la pace – che allora volevamo riconquistare per il nostro popolo e per il mondo – ma molti altri valori sono sotto accusa. Oggi si parla di riarmo ed è a rischio la conquista della verità. Liberazione vuol dire anche liberazione dai falsi, liberazione dalla scuola fascista. E oggi la libertà di insegnamento è minacciata perché si progetta un insegnamento della storia che vuole inculcare nei discenti un certo concetto dell’identità, a partire dalle elementari.

Sul tema dell’identità lei ha scritto una interessante riflessione critica pubblicata da Laterza. Le nuove linee guida del ministro dell’Istruzione e del merito Valditara vanno nella direzione opposta?

In quel testo sull’identità, che ho letto in pubblico, mi sono chiesto cosa sia l’identità, questa maschera di plastica che dovrebbe compattare le persone. Il progetto Valditara prevede che si studi a scuola la nostra «identità italica»: quindi si partirà dai romani di un tempo e si arriverà ai romani di oggi….

Nel suo nuovo libro scrive: c’è stata un’epoca di nazionalismo in cui si proponeva un insegnamento della storia che si traduceva in un’ora di propaganda nazionalista. Il profeta ne fu Ernest Renan, autore per altro molto citato dalla nostra presidente del Consiglio. Che dire?

È un problema serio che mi pongo come cittadino italiano: mi chiedo come sia stato possibile tornare a rispolverare vecchie maschere naziste, fasciste, vecchie persone che si sono impadronite di quei simboli e che sbandierano quelle idee. Che cosa fa sì che gli italiani siano così proni nelle loro manifestazioni? Questo è veramente un problema.

Le parole “libertà e liberazione”, a cui abbiamo dedicato il numero di Left in edicola appaiono svuotate di senso nell’uso che ne fanno Trump e Vance. Il presidente degli Stati Uniti ha parlato di Liberation Day imponendo dazi, mentre il suo vice è venuto fino a Monaco di Baviera per farci la predica, evocando un’idea di libertà negativa, assoluta, che spezza i legami sociali. Come legge tutto questo?

Le parole possono ingannare, dipende dall’uso che se ne fa e dal modo in cui le si interpretano. Mi viene in mente il modo con cui la presidente del Consiglio ha rievocato il manifesto di Ventotene. Ne ho fatto una lettura pubblica qui nella città dove vivo, visto che era stato rispolverato soltanto per infamarlo. Da quell’ideale di un mondo libero dove i popoli si univano nasceva un’Europa dove il nazionalismo era dismesso, fu uno dei tanti episodi straordinari di quel periodo terribile. Mentre la guerra continuava, i patrioti, coloro che amavano l’Italia, si dovevano nascondere oppure erano prigionieri del regime, ma preparavano un futuro che immaginavano e costruivano secondo ideali totalmente diversi da quelli con cui oggi si vincono le elezioni, totalmente diversi dai modelli che vengono impartiti alle generazioni giovani nella scuola del governo Meloni.

Come rispondere, come resistere?

Con iniziative culturali. Per esempio, qui in Toscana c’è una compagnia teatrale Archivio Zeta che il 25 e il 26 aprile li celebra con uno spettacolo a Monte Sole, nei luoghi della strage di Marzabotto. Anche questo è un modo di alimentare la resistenza. L’hanno intitolato un programma della facoltà di Resistenza. Contro la somma delle ingiustizie, delle divisioni della società italiana che ci pesa e che si esercita soprattutto su chi viene da fuori, su chi non è considerato uguale agli altri. Speriamo che contro questa violenza, la parte positiva di questo nostro popolo che ha una storia così varia, così discontinua, così diversa dagli altri popoli europei, si faccia finalmente di nuovo valere.

Allargando lo sguardo anche oltreoceano balza agli occhi l’attacco alla libertà accademica. Facoltà prestigiose come Harvard, come la Columbia, sono attaccate da Trump. Il presidente Usa taglia i loro fondi e impone censure, mette al bando la cultura woke, mentre si riempie la bocca della parola libertà. Di fronte a tutto questo l’Europa dovrebbe tanto più riarmarsi di cultura riscoprendo le proprie radici culturali che sono quelle della ricerca e del confronto tra culture? 

Certamente, questa dovrebbe essere la risposta europea. Non è questo il messaggio che la presidente del Consiglio italiana ha portato a Washington. Ma quella che è in gioco come ha ben risposto l’Università di Harvard è la loro storia, i loro valori, i loro fondamenti, ma quella storia, quei valori e quei fondamenti erano anche i nostri e oggi non lo sono più. Oggi rischiano di essere vilipesi e abbandonati materialmente, perché nel momento in cui per esempio gli immigrati vengono deportati in una specie di altro mondo, in un altra area perché da noi non c’è posto, in questo momento è la nostra libertà stessa che dimostra di essere in grave crisi. Tutto questo è veramente intollerabile!

Nel suo nuovo libro lei parla di cancel culture. «Rappresenta il bisogno di liberarsi da una memoria collettiva di un occidente bianco, cristiano, schiavista, intollerante, colpevole di un domino sugli altri popoli», lei scrive. Dunque questa cosiddetta cancel culture, tanto vituperata da Trump e Meloni, corrisponde a un risveglio di coscienza civile. Al di là del fatto che abbattere le statue forse non è il sistema migliore, però è il segnale di una presa di coscienza, di una consapevolezza contro l’abuso?
Io penso di sì, che sia necessaria questa presa di coscienza. Si sta manifestando, se ne vedono frammenti qua e là in assenza di una forza politica autentica che la possa rappresentare. Almeno questo è quello che spero, che prenda forza, che trovi una traduzione politica. Io sono nato sotto Mussolini e ho vissuto la disperazione degli anni dell’occupazione tedesca, quindi so cosa vuole dire l’assenza di libertà. Allora la liberazione fu celebrata con un’esplosione vitale di popolo che si manifestò anche nelle elezioni politiche e dette vita a partiti antifascisti. Poi abbiamo varato la Costituzione, che oggi purtroppo soffre in alcuni suoi punti nodali proprio per le leggi liberticide che la maggioranza sta portando avanti. C’è da sperare in un soprassalto della storia in un mondo in cui le forme di oppressione, le forme di aggressione alla vita e ai beni comuni, oltre che alla libertà delle persone sta diventando sistematica. Viviamo un tempo in cui l’abbandono dei valori di libertà e di democrazia si manifesta in lutti quotidiani che ascoltiamo con orrore, sia che vengano dalla Palestina, sia che vengano dall’Ucraina. C’è da sperare che ci possa essere un riscatto che risani anche il regime americano.

Cosa furono gli americani per voi in quegli anni della Seconda Guerra Mondiale?
Io ho fotografie e ricordi dell’accoglienza che i soldati americani sopravvissuti alla guerra ricevettero dalla popolazione italiana, allora si avvertiva quel valore di libertà che portavano con sé, per cui ci sembrarono un popolo felice, un popolo diverso. Spero che quei valori di libertà tornino ad avere la loro forza contro questa santa alleanza di destra che si celebra oggi nella capitale degli Stati Uniti e questo è l’augurio che posso fare come ormai troppo vecchio professore, deluso dall’andamento delle cose in questo Paese, dai tanti tradimenti dei valori per i quali morirono allora tanti durante la lotta partigiana. Gli allievi della mia ex scuola, la Scuola Normale di Pisa, si sono dati il compito di leggere a voce alta, ciascuno di loro, una lettera dei condannati a morte della resistenza.

È profondamente commovente la storica raccolta delle lettere di quei partigiani  pubblicata anni fa da Einaudi.
È importante rileggere quelle lettere per ricordare perché cosa sono morte le persone, per che cosa hanno scelto di combattere e di morire, ricordarsi di questo ridà vita a quel senso della storia che passa attraverso la carne e il sangue, che passa attraverso le sofferenze, questo è il senso della storia che bisogna riscoprire, altro che una ideologica e vuota identità.

In apertura ritratto dello storico Adriano Prosperi (foto Ipa)

Il 25 aprile, un nuovo inizio

Il 25 aprile celebriamo la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Questa affermazione sembra scontata, ma leggiamola meglio.
Soffermiamoci su un’altra data. Quando il 2 giugno del 1946 le italiane e gli italiani si recarono al voto per scegliere, con il referendum, tra monarchia e repubblica, molti tra loro non avevano mai partecipato a una consultazione popolare. Per l’intero arco del regime fascista le elezioni erano state soppresse. L’ultima volta che in Italia si era svolto un confronto elettorale multipartitico era stato il 6 aprile del 1924. Quindi, prima della nascita di molti di quegli elettori, quelli più giovani. Quel 6 giugno fu anche un’altra prima volta perché, fino ad allora, in Italia le donne non avevano diritto di voto.

Il fascismo aveva sciolto e cancellato gli altri partiti e imposto il regime del partito unico. Aveva istituzionalizzato la figura del leader solo al comando e carismatico. Aveva creato un’organizzazione statale e sociale gerarchica, nella quale ogni posto chiave era ricoperto da un uomo del partito, dal capo del governo al “capo fabbricato”. Aveva soppresso la libertà di espressione, di informazione e di associazione. Aveva irregimentato tutti i cittadini in organizzazioni del partito fascista fin dalla più tenera età. E conscio della modernità nella quale operava, esercitava, attraverso i media dell’epoca, il cinema e la radio, una ossessiva pressione sulle menti.

Il fascismo non è stato inventato in Germania, né in Spagna, né in America Latina, né altrove. Il fascismo è un’esperienza italiana che ha, poi, trovato emuli in ogni parte del mondo. Un’esperienza italiana al punto che, proprio in lingua italiana, è stato coniato un termine – assunto poi nelle culture del resto del mondo – per descriverne l’assoluta pervasività nella società: totalitarismo. Già nel 1923 Giovanni Amendola, in un articolo scritto sulle colonne de Il Mondo, da lui fondato nel 1922, ne descrive la tendenza a costruire un “sistema totalitario” come “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo politico e amministrativo”. Il sostantivo “totalitarismo” nasce da quel ragionamento e sarà, in seguito, esteso agli altri regimi tipici del XX Secolo.

Ma lo stesso Mussolini rivendicherà pubblicamente la “volontà totalitaria” del fascismo togliendo ogni dubbio sulla natura perversamente innovativa del regime.
Ecco, dunque, l’enormità non solo della propensione dittatoriale del fascismo, ma del coraggio che animò coloro che gli si opposero. E di quelli che, a partire dall’8 settembre 1943, presero le armi per combattere i fascisti e gli invasori nazisti. Molti di quelli che animarono la guerra di Liberazione, i ventenni, non avevano conosciuto altro che il totalitarismo di quel regime. E avevano potuto soltanto immaginare e sognare la libertà.
Nella Resistenza non vi è nulla di scontato. E la Resistenza italiana è un fenomeno del tutto originale. Negli altri Paesi europei essa fu rivolta contro l’invasore nazista e i suoi complici locali. In Italia fu quello e non solo. Perché il nemico era anche ciò che restava del primo totalitarismo conosciuto dal mondo.

La Resistenza unì i patrioti italiani delle più varie idee. Le Brigate Garibaldi del Partito Comunista; le Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; le Brigate Matteotti del Partito Socialista; le Brigate Fiamme Verdi, del Popolo e Osoppo delle Democrazia Cristiana; le formazioni militari monarchiche e badogliane; e, ancora, formazioni trotskiste, anarchiche e via enumerando.
Esse si riunirono tutte sotto il comando unico del Comitato di Liberazione Nazionale. Il CLN era nato a Roma il 9 settembre 1943, in una riunione dei partiti clandestini che si opponevano al fascismo. La mozione approvata in quell’assemblea affermava: “Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”.
Non ha, dunque, alcun senso accostare la celebrazione della Resistenza e della Liberazione italiana ad altre vicende lontane nel tempo, nello spazio e nei contenuti. Farlo significa mistificare e, soprattutto, sminuire la dimensione e l’unicità di quell’esperienza.
Il 25 aprile noi celebriamo la Liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupante nazista.

In foto Anniversario della Liberazione Partigiani sfilano per le strade di Milano

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

 

Augurava il suicidio ai detenuti: promossa a garante

Asti ha il suo nuovo garante delle persone detenute. Si chiama Stefania Sterpetti, è medico chirurgo, militante di Fratelli d’Italia, e ha un curriculum sui social più eloquente di qualsiasi scheda professionale. Tra un post in cui inneggia al Duce e uno in cui definisce le persone migranti “ciarpame”, ha trovato anche il tempo di augurare il suicidio a una persona detenuta in sciopero della fame: “Visto che non c’è la pena di morte, si tolgano di mezzo da soli” scriveva serena. Perfetta per ricoprire un incarico di garanzia.

Quattordici voti del consiglio comunale di Asti, due in più di quelli raccolti da Domenico Massano, volontario che in carcere lavora davvero, le hanno consegnato le chiavi di una funzione che dovrebbe vigilare sui diritti di chi è privato della libertà. Diritti, non condanne aggiuntive. Ma qui non è questione di diritti. È questione di potere. E Fratelli d’Italia, per bocca del capogruppo Federico Cirone, si è premurata di sostenerla con entusiasmo. La militanza al posto della competenza, ancora una volta.

Sterpetti è una professionista della provocazione: cancella i post dopo le polemiche ma li aveva scritti. Uno, in particolare, fa elenco delle “opere del Duce”, invocando una qualche forma di risveglio nostalgico. Forse pensa che il carcere sia il luogo ideale per sperimentare quella certa idea di disciplina e ordine.

Una nomina che è un insulto ai diritti delle persone detenute. Ed è un segnale culturale preciso: normalizzare l’odio, farlo entrare nelle istituzioni, affidargli ruoli di garanzia.

Buon giovedì. 

L’antifascismo non è mai sobrio per natura

Sono quelli che dicono di seguire la parola di dio anche quando dio non è d’accordo. Quelli del governo Meloni devono avere pensato che fosse una botta di culo la morte di un pontefice proprio a cavallo del 25 aprile. E poiché di “papa se ne fa un altro” ma l’ottantesimo anniversario della Liberazione non è ripetibile, hanno escogitato un inusuale lutto nazionale di ben cinque giorni con l’intento di ammansire la Festa della Liberazione, confidando in una celebrazione meno libera, in linea con il digrignare di denti quotidiani a cui ci siamo abituati come rane bollite.

Si potrebbe parlare, ad esempio, della laicità di Stato, cerimonia ormai caduta in disgrazia in questo fiorire di inchieste speciali su bare e sugli anelli spezzati. Ma la laicità, tra i miasmi di questa epoca, è finita nel cesso quando una presidente del Consiglio ha deciso di etichettarsi come protettrice di dio – insieme alla patria e alla famiglia – senza prendere una pernacchia dagli elettori e senza un ammonimento dal Vaticano per i mancati diritti d’autore.

Il ministro Musumeci è stato l’apostolo prescelto per scolpire l’undicesimo comandamento: siate antifascisti con sobrietà. Il lutto nazionale per un capo di Stato estero dovrebbe essere il bromuro per considerare i fascisti solo degli effimeri maleducati e celebrare l’antifascismo con le mani giunte.

Ma l’antifascismo, per sua natura, è l’avversione a ogni contrizione, anche a quelle che banchettano sul cadavere del vescovo di Roma. L’antifascismo sobrio è giardinaggio. È il fascismo sobrio, il vero problema.

Buon mercoledì.

In foto: murale della street artist Laika “Antifascisti sempre”

Fuggire dal 25 aprile, come se fosse un virus

Meloni, La Russa e Fontana all'altare della patria

Ci sono malattie che si presentano puntuali, ogni anno. Per Giorgia Meloni e i suoi, l’allergia al 25 aprile è cronica. Quando arriva la Liberazione, c’è sempre un biglietto prenotato, una missione inderogabile, un viaggio che chiama. Quest’anno è l’Uzbekistan. Giusto il tempo di una cerimonia all’Altare della Patria, poi via, lontano, a Samarcanda, fino al 27 aprile. Un’assenza calibrata per evitare che il fastidio dell’antifascismo possa durare più di qualche ora.

Il presidente Mattarella, invece, sarà a Genova. Non fosse bastata la sua recente degenza ospedaliera, qualcuno aveva temuto di dover assistere a un 25 aprile officiato da Ignazio La Russa. Ma la Costituzione non prevede supplenze di comodo. La Russa, comunque, la sua parte l’ha già fatta: l’altro giorno era a Primavalle, a commemorare l’attentato del 1973. Un omaggio strumentale, tanto che Giampaolo Mattei, fratello delle vittime, ha denunciato la speculazione elettorale. Loro, i fascisti, si raccontano martiri per riscrivere la storia: trasformano carnefici in vittime, dissolvono le trame golpiste, dimenticano le aggressioni. Così, il 25 aprile si trasforma da celebrazione della Resistenza a terreno minato da narrazioni tossiche.

Due anni fa La Russa si rifugiava a Praga, l’anno scorso scompariva dopo il Vittoriano. Lollobrigida, quando contava ancora qualcosa, spiegava che la parola antifascista “ha portato a morti”. Fratelli d’Italia è questo: la destra anti-antifascista. In bilico tra negare e riscrivere. Intanto le opposizioni chiedono una cerimonia solenne al Senato. La Russa tace. Ma loro scappano: perché il 25 aprile, per chi ha certe radici, resta il giorno più difficile dell’anno.

Buon martedì. 

In foto la presidente del Consiglio Meloni, e i presidenti del Senato La Russa e della Camera Fontana Roma, all’Altare della Patria il 17 marzo 2025, foto Gov