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Elogio della ribellione culturale all’idea di società imposta da Meloni e Trump

Per chi crede nel ruolo del sapere e dell’istruzione, e specie per i giovani che si proiettano nel mondo della ricerca, lo storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari, offre con Libera università (Einaudi) un riferimento importante, un manifesto di resistenza intellettuale per i nostri tempi, in cui più urgente si fa l’impegno civico della cultura.

Incertezze crescenti si sommano l’una all’altra, e chiederebbero risposte ponderate. Invece la politica di estrema destra getta benzina sul fuoco, per portare avanti programmi ideologici reazionari, da Washington a casa nostra, da Budapest a Tel Aviv. Il decisionismo autoritario viene presentato come soluzione, ma i momenti di crisi vorrebbero altri strumenti: pensiero critico e capacità di «comprendere la vita e la mente degli altri», per seguire Montanari e dirla con le parole di Virginia Woolf.

E queste abilità si coltivano nei luoghi di formazione, oggi sotto

Esodo infinito. Perché i giovani lasciano l’Italia

«I ricercatori hanno già gettato molta ombra su questa materia e, se continuano le loro investigazioni, presto arriveremo a non saperne niente del tutto», scrive con la sua penna tagliente Mark Twain. Le ombre sono i dubbi della scienza e della ricerca, ma sono anche un invito ad approfondire quanto ancora non conosciamo. Qual è il futuro delle università in Italia? Sarà affievolita la luce della conoscenza, oppure no? Il tema riguarda tutto l’occidente, specie dopo gli attacchi sferrati al mondo della ricerca Usa da Donald Trump, ma sul versante italiano la crisi è di molto precedente all’insediamento del tycoon. I numeri non mentono e sono sconfortanti, stando a quanto emerso da un’analisi  a cura della Classe di scienze politico-sociali della Scuola Normale superiore (Sns) di Pisa, durante un incontro che si è tenuto a Palazzo Strozzi a Firenze al quale hanno partecipato, tra gli altri il direttore della Sns, Luigi Ambrosio, il preside della Classe Guglielmo Meardi, il rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, e Maria Luisa Meneghetti dell’Accademia dei Lincei.

«Le università sono sotto attacco in Italia e all’estero». L’allarme è stato lanciato ad una sola voce da economisti, umanisti e esperti in diverse discipline. È dunque «urgente una riflessione sul contesto internazionale e sugli sviluppi in Italia, sul ruolo sociale degli studi universitari, sulle risorse disponibili e sui cambiamenti istituzionali in corso».

Si diceva dei dati.

Ricercatori e docenti nel mirino di Trump

Le istituzioni scientifiche pubbliche statunitensi hanno vissuto profondi sconvolgimenti dall’inizio dell’amministrazione Trump e si teme che i tagli che sono stati proposti ed imposti siano propedeutici ad un’ondata di privatizzazioni. A fine marzo, il segretario della Salute, Robert F. Kennedy Jr., ha annunciato che l’amministrazione cercherà di tagliare un totale di 20mila posti di lavoro dal Dipartimento della salute e dei servizi umani (Hhs), pari a circa un quarto della forza lavoro (passando da 82mila a 62mila dipendenti). L’Hhs supervisiona l’approvvigionamento alimentare degli Usa, monitora le epidemie, conduce ricerche mediche fondamentali e gestisce l’assicurazione sanitaria per quasi metà del Paese (attraverso i programmi Medicare, Medicaid e Medical Health per i veterani militari). Tra i settori con i maggiori tagli figurano agenzie note, come i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) e la Food and drug administration (Fda). Il primo aprile, 10mila lavoratori dell’Hhs e di agenzie come il Cdc e la Fda sono stati licenziati, con tagli mirati nelle risorse umane, acquisti, finanza ecc.

Colpito anche il National institutes of health (Nih), composto da 27 istituti e centri di ricerca, il più grande finanziatore della ricerca biomedica e comportamentale al mondo, con migliaia di ricercatori che lavorano o ricevono sovvenzioni per i loro programmi di ricerca. Quasi tutti i ricercatori biomedici nel mondo accademico, e molti di loro lavorano per aziende private, dipendono in qualche modo dai finanziamenti del Nih.

I laboratori sono gestiti come piccole imprese, con scienziati senior che richiedono costantemente sovvenzioni per il funzionamento, acquisto di materiali e pagamento degli stipendi. Le sovvenzioni del Nih

Scienziati in fuga

Un’emorragia silenziosa. Un fenomeno a senso unico. È la nuova emigrazione giovanile italiana. A lasciare la Penisola sono soprattutto laureati, ricercatori, spesso anche docenti universitari. Costretti ad andarsene non per scelta ma per necessità, in cerca di opportunità e salari coerenti con la propria formazione che l’Italia non offre per via di scellerate politiche portate avanti da governi di diverso colore. E quel che è peggio, questo fenomeno non è compensato da ingressi equivalenti – men che meno oggi con il governo di Giorgia Meloni – quindi impoverisce progressivamente il tessuto culturale, sociale e produttivo del nostro Paese privandolo di competenze fondamentali per innovazione e sviluppo. Eppure oggi ci si presenta una grande opportunità.

L’amministrazione Trump ha dato vita a una sconcertante politica di drastica riduzione, se non eliminazione totale, di fondi federali a istituti di ricerca e università statunitensi, mettendo da un lato a rischio, solo per fermarci al mondo della medicina, intere linee di ricerca da cui può dipendere la salute pubblica mondiale, e dall’altro paradossalmente spingendo il mondo scientifico Usa a cercare in altri Paesi le risorse e le strutture necessarie per portare a compimento il loro lavoro.

Su Scientific American è stato rilanciato il grido d’allarme di circa 1.900 scienziati di massimo livello, tra cui premi Nobel, sui rischi per il futuro della ricerca scientifica negli Stati Uniti causati dalle recenti mosse dell’amministrazione Trump. E secondo molti, tra cui gli estensori del manifesto ReBrain Europe (vedi box a pagina 13), questa improvvisa crisi nordamericana rappresenta, per l’Italia e per l’Europa, un’opportunità straordinaria e una chiamata a alla responsabilità nella difesa di valori come la libertà scientifica e lo sviluppo della ricerca di eccellenza. Ci siamo chiesti: il nostro Paese può essere un hub di richiamo? E l’Europa alle prese con i dazi di Trump, la guerra in Ucraina e un’atavica crisi politica?

Per approfondire questi temi abbiamo rivolto alcune domande ad Alessandro Foti. Ricercatore in immunologia al Max Planck Institute di Berlino in Germania.È autore del libro Stai fuori! (con prefazione di Riccardo Iacona, edizioni Dedalo), un lavoro che fonde la struttura di un saggio con quella di un libro d’ inchiesta – e anche un po’ autobiografico – che attraverso dati e testimonianze, a partire dall’esperienza vissuta sulla propria pelle, analizza le carenze strutturali italiane e propone soluzioni per frenare l’esodo e invertire questa tendenza. Una fotografia impietosa dello stato in cui versa il nostro Paese ma anche una finestra aperta sul mondo esterno – dalla Germania, in cui appunto vive e lavora, alla Francia e altri Paesi anche meno ricchi dell’Italia – dove invece sui giovani e sul miglioramento della condizione giovanile si punta senza ipocrisia e tentennamenti. Ma senza avere ancora una visione di Europa unita culturalmente, socialmente e politicamente.

L’avversione di Trump per la ricerca e il mondo scientifico può essere un’opportunità per l’Europa?
Sì, in teoria è una grande occasione. La situazione

Sognando un’Europa della conoscenza

Trump va alle crociate contro le università americane, colpevoli di propalare sapere. Negli Usa ormai vengono stilate liste nere di docenti, censurate biblioteche scolastiche, mentre in alcuni Stati repubblicani i manuali scolastici vengono riscritti secondo l’ideologia suprematista, bianca e cristiana. È un assalto senza precedenti all’istruzione e alla ricerca scientifica, tra tagli alle agenzie federali, parole censurate e dati rimossi dai siti federali. Trump punta a togliere autonomia alla ricerca scientifica e colpisce il ruolo delle agenzie pubbliche come il National Institutes of Health o la National Science Foundation. Nella nazione che nell’immaginario collettivo, a torto o ragione, rappresenta il Paese della libertà, il presidente va all’attacco del libero pensiero, pretendendo che il mondo della conoscenza adegui i propri programmi alla sua visione reazionaria e discriminatoria.

Trump vuole che siano espulsi dalle università Usa studenti di origine straniera a cominciare da chi ha partecipato a manifestazioni pro Palestina, tacciate di antisemitismo. Come è accaduto a Mahmoud Khalil, attivista palestinese e laureato alla Columbia, portavoce del movimento nonviolento “Gaza Solidarity Encampments”. Dietro c’è una precisa strategia per soffocare la libertà di espressione che nasce da lontano. Già nel 2021 il cattolico tradizionalista J. D. Vance tenne un discorso intitolato “Le università sono il nemico”. Gli studenti stranieri per il vice presidente Usa sono il nemico interno. Ma proprio ricercatori e scienziati che lavorano in Nord America e arrivati da ogni parte del mondo hanno contribuito alla costruzione del soft power americano e alla sua egemonia internazionale.

Donald Trump lo sa?

Sembrerebbe di no dato che sta tagliando il ramo su cui gli Usa sono seduti. Le conseguenze saranno ancor più distruttive dell’effetto boomerang dei dazi e si sommeranno ad esse. La comunità scientifica negli Usa lo ha denunciato apertamente. La rivista Nature ha scritto che Trump si è ispirato all’ultra conservatore e religioso “Project 2025” per bloccare le ricerche considerate ideologicamente scomode, come quelle sul climate change e su questioni di salute pubblica. Il proposito nazionalista trumpiano di far uscire gli Usa uscire dall’Oms, sposando tesi no Vax rientra in questo quadro. La protesta degli scienziati non è rimasta all’interno del mondo accademico ma è tracimata anche nelle strade come ci racconta Alessandro Scassellati Sforzolini in un reportage sul collasso democratico e costituzionale a cui gli Usa stanno andando incontro.

Ma come sempre non ci accontentiamo di analizzare i fatti e con questo numero di Left, facendo nostro il manifesto ReBrain Europe firmato da oltre mille scienziati, lanciamo una proposta: “Riarmiamoci di cultura!”. Invece di spendere 800 miliardi per Riarm Europe, l’Europa investa in cultura e ricerca. L’Italia torni a investire in cultura e ricerca.

Si presenta un’occasione. Gli allarmi di deriva autoritaria e oscurantista che arrivano dagli Usa dovrebbero risvegliare quella bella addormentata che è l’Europa. Pensiero critico, ricerca scientifica, cultura sono la nostra colonna vertebrale da millenni. Oggi che più che mai il Vecchio continente dovrebbe e potrebbe recuperare le proprie radici culturali, trovando su questa base una unità politica in un mondo che cambia.

Come reazione a chi impone una visione guerrafondaia e discriminatoria della società è il momento di tornare a investire massicciamente in ricerca, potendo oltretutto attrarre ricercatori e scienziati intenzionati ad andarsene dagli Stati Uniti.

Alcuni Paesi come la Francia e la Germania, ma anche la Spagna «lo stanno già facendo», ci racconta il ricercatore del Max Planck di Berlino, Alessandro Foti. E l’Unione europea? «Bruxelles dovrebbe dire: investiamo subito 3-400 miliardi e ci portiamo a casa mezza Harvard. Ma non lo fa, e i pochi Paesi che hanno intravisto l’opportunità vanno in ordine sparso». Ancora più sconcertante è la situazione dell’Italia le cui politiche miopi non sono in grado nemmeno di far rientrare i ricercatori italiani che – come Foti – a decine di migliaia sono andati all’estero per cercare condizioni di lavoro migliori e occasioni di realizzazione professionale.

«Mai più guerra, mai più fascismo, mai più distruzione», costruire la pace non con i muri, diceva Altiero Spinelli, immaginando un’Europa che superasse la logica della forza militare, promuovendo il diritto internazionale, il dialogo, i diritti umani. Il Manifesto di Ventotene, scritto in carcere da antifascisti, è stato la prima dichiarazione di una nuova Europa libera, democratica e solidale.

Da questo nucleo è nata l’idea di welfare europeo, che ha portato a sistemi di sanità pubblica, istruzione accessibile, protezione sociale e diritti del lavoro: elementi che, con tutte le differenze tra Stati, sono un tratto distintivo dell’Europa rispetto ad altri modelli, come quello Usa. La cultura del welfare è anche cultura della responsabilità collettiva: nessuno deve restare indietro, e la libertà personale non può prescindere dalla giustizia sociale.

Le parole chiave per realizzare tutto questo sono cultura, ricerca, conoscenza, come strumento di emancipazione e superamento delle disuguaglianze. Spinelli e Rossi capivano che non bastava costruire istituzioni comuni. Serviva una “coscienza” europea, una cittadinanza fondata su valori comuni: libertà, giustizia, solidarietà. E questi valori, prima che dai trattati, nascono dalla cultura: dalla scuola, dalla memoria storica, dalla letteratura, dall’arte. Di cui l’Europa è ricchissima.

Come ci ricorda Carlo Ossola in un suo bel libro di qualche anno fa, l’Europa nasce come rete di università nell’XI secolo quando ancora non esistevano  confini nazionali. Si svilupparono come istituzioni autonome di studio e insegnamento, distinte dalle scuole ecclesiastiche e monastiche medievali. I clerici vagantes, giovani, studenti non necessariamente legati ai istituzioni religiose, si spostavano da un centro di studio all’altro, di città in città in cerca di sapere, insegnamento: Bologna, Parigi, Oxford, Salamanca.

Nell’epoca dei Comuni e, persino, delle Signorie, la cultura era un’arma diplomatica potentissima. Basta pensare a quale egemonia conquistarono Firenze e Venezia grazie ai loro artisti e viaggiatori, solo per fare qualche esempio.

Ma ora in Italia c’è un ministro dell’Istruzione che vorrebbe imporre una visione nazionalistica della storia patria, come denuncia lo storico Adriano Prosperi. Il governo Meloni ripropone il falso storico delle radici cristiane dell’Occidente quando è evidentissimo che senza gli studi di algebra, di astronomia, di ottica ecc , diffusi da illustri immigrati dal mondo arabo il Vecchio continente non avrebbe potuto progredire nelle scienze.

Non cadiamo nella trappola del trumpismo de’ noantri, apriamo le porte a chi è portatore di altre culture. Invertiamo la rotta e rilanciamo università, finanziamo la ricerca pubblica e di base, proteggiamo la libertà degli insegnanti, degli studenti, degli artisti come dice l’articolo 33 della Costituzione. E riprendiamo il filo della storia che ha portato l’Europa nel dopoguerra ad attrarre gli scienziati che se ne erano andati per fuggire dal nazifascismo.

In quell’epoca nacquero centri scientifici di eccellenza basati sulla cooperazione, la pace e l’apertura intellettuale. Un esempio è il Cern di Ginevra, fondato nel 1954, voluto da 12 Paesi come polo di ricerca condiviso in fisica che divenne il simbolo della nuova Europa scientifica. Fu pensato proprio per evitare che la scienza venisse usata a fini bellici (come era accaduto nel Progetto Manhattan). Estendiamo l’Erasmus e il programma di Horizon Europe.

Soprattutto torniamo ad agire a livello comunitario. L’Europa della conoscenza richiede uno sforzo collettivo. In questo senso, la battaglia per l’università libera è la stessa battaglia per un’Europa democratica.

Illustrazione di Alessia Marzano, Officina B5

«La precarietà è il lavoro». Cronache dal sindacato che ascolta chi non ha voce

«Ho chiamato mia sorella per aiutarmi in questo mio stato psicofisico in cui ero persa. E lei mi ha detto: “Basta, tu adesso non metterai più piede lì”». Noemi, architetta, è stata vittima di mobbing nell’azienda dove ha lavorato per cinque anni. Racconta la sua storia seduta davanti a Esc Atelier di San Lorenzo, lo spazio sociale in cui hanno sede le Camere del lavoro autonomo e precario (Clap). È qui che ha deciso di rivolgersi per cercare supporto dopo l’ennesima violenza. Un giorno «c’è stata una delle più grandi violenze verbali che il datore mi ha fatto, sbattendo i pugni sulla scrivania, dicendomi che non valevo niente, che ero una testa di cazzo, e che dovevo stare zitta perché le mie parole stavano dando troppo fastidio». Per l’architetta i problemi hanno avuto origine un anno prima di abbandonare il lavoro, quando le è stato conferito un incarico superiore, a tempo indeterminato, dopo anni di part-time involontario e finta partita Iva. Nonostante l’avanzamento di carriera, era demansionata e derisa dal titolare, da cui ha anche subito delle molestie. I casi di mobbing sono difficili da riconoscere e da dimostrare legalmente, ma, con l’aiuto della sorella, Noemi decide di entrare in contatto con il sindacato. Non bussa alla porta di un sindacato tradizionale. Si rivolge alle Clap.

Le Clap sono un sindacato di base auto organizzato che cerca di raggiungere i luoghi di lavoro instabili e precari, quelli in cui il sindacato tradizionale non riesce ad arrivare. Cerca di organizzare i non-organizzati, i lavoratori senza diritti, precari e intermittenti. Offrono sportelli settimanali di consulenza sindacale e legale in più quartieri di Roma. Esc è la sede principale di un coordinamento dislocato in più spazi sociali: Casale Garibaldi a Centocelle, Acrobax a San Paolo, Communia a San Lorenzo e Genzano di Roma. «Scusate, siamo ancora in riunione, volete una birra per non restare a mani vuote?». Tiziano riempie due bicchieri dalla spina del bancone, si accende una sigaretta e torna all’assemblea di coordinamento, nella stessa sala che ospita lo sportello tutti i lunedì sera, dalle 17:30 alle 19. Tiziano è uno dei due coordinatori, insieme a Emanuele. Entrambi hanno preso parte al movimento studentesco dell’Onda tra il 2008 e il 2011. Fanno parte di quella generazione che si è affacciata a un mondo del lavoro segnato dal Jobs Act e dalla fine del lavoro garantito.

Mentre partecipano alla fondazione di Esc, si formano sul campo, tra lavoro precario e informale. Tiziano ha lavorato in una libreria e nei pub, ha fatto la maschera nei musei e il ricercatore. Emanuele ha lavorato per anni senza orari, a nero, nella ristorazione, come driver, come facchino. Proprio dalla riflessione teorica e vissuta sullo sfruttamento lavorativo nell’epoca post-fordista, 10 anni fa, nascono le Clap, che sono ora la loro principale occupazione. La sfida, raccontano, è organizzare quelle nuove figure difficilmente rappresentabili con gli strumenti del sindacato tradizionale, nella convinzione che «nessuno è inorganizzabile»: finte partite Iva, lavoratori autonomi, lavoratori del settore informale o a part-time involontario, rider, camerieri, impiegati in home office, operatori dello spettacolo. D’altronde, il coordinamento nasce proprio come realtà auto-organizzata da precarie e precari.

Non sono, però, solo precarie e precari a rivolgersi allo sportello, qui a San Lorenzo. Noemi aveva un contratto indeterminato nel momento in cui si è affidata alle Clap, e così è stato per Kessy. Da quando è arrivato in Italia dalla Nigeria, Kessy ha sempre avuto contratti regolari. Come ultimo impiego, ha lavorato in un’azienda di affissioni pubbliche in appalto dal Comune di Roma. Ma i conti non tornavano: gli straordinari non venivano registrati né retribuiti. Dopo aver scritto un reclamo formale, i titolari hanno cercato motivi per mandarlo via. Ora è disoccupato e, mentre cerca di recuperare i soldi che gli devono, sta cercando lavoro come corriere. In effetti, le casistiche dipendono dalle specificità del territorio di Roma: la città dei ministeri, della ristorazione selvaggia, dei flussi migratori. Ad attraversare lo stanzone industriale di Esc sono giovani architetti, migranti senza documenti, badanti, stagisti. Le Camere del Lavoro Autonomo e Precario finiscono per occuparsi di una gamma vasta di situazioni lavorative, di lavoro precario e di lavoro stabile ma sfruttato, di posizioni più o meno qualificate, di diverse classi sociali. Davanti a questa apparente contraddizione, Emanuele e Tiziano rispondono: «La precarietà è il lavoro».

E anche i numeri lo confermano. Secondo un report della CGIL sul lavoro precario, nel 2023 il 49% dei contratti attivati a Roma (690.492) ha avuto la durata di un giorno. L’incidenza assume una valenza maggiore se paragonata al resto dell’Italia, dove la media nazionale è del 13,7%. A questo si aggiunge anche che dal 2009 al 2023, nel Lazio, l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato si è più che dimezzata, passando dal 18% all’8%; al contrario, i contratti a tempo determinato sono aumentati del 67% sempre nella stessa finestra temporale.

A ragionare sul concetto di precarietà è anche Salvatore Corizzo, uno dei due avvocati che lavora nelle Clap. «Il termine precarietà nasce a metà anni ’90. Mi chiedo se oggi, con la distruzione di qualsiasi garanzia che esisteva per lavoratori e lavoratrici, abbia ancora senso parlarne». L’ufficio legale si trova vicino Valle Aurelia, da tutt’altra parte di Roma rispetto allo sportello di Esc. Ad accogliere le persone un poster con le parole dell’operaista Toni Negri. «L’amore è il cuore pulsante del programma che abbiamo sviluppato fino a questo punto, senza il quale il resto sarebbe un ammasso senza vita». Poco più in là, l’ufficio dove Corizzo sta partecipando a un caso di conciliazione tra lavoratrici in home office e una piattaforma di prenotazione voli.

«Ormai la precarietà è proprio esistenziale» spiega l’avvocato. «Una volta il lavoro veniva visto come elemento di garanzia che ti permetteva di accedere a un mutuo per comprare casa, poterti permettere delle cure e così via. Oggi non è più così». Per Salvatore Corizzo, la precarietà lavorativa non ha a che fare solamente con paghe basse e insicurezza contrattuale. Il fronte dello sfruttamento si è spostato sulla afflizione psicofisica. Il lavoratore e la lavoratrice diventano una cosa di proprietà del datore, proprio come nella vicenda che vede coinvolta Noemi, un caso di cui l’avvocato si sta occupando. Questo smantellamento delle tutele lavorative è stato aggravato recentemente con il Collegato Lavoro, l’ultima riforma del governo Meloni che favorisce contratti precari, cancella le causali per i contratti a tempo determinato introdotte dal decreto Dignità ed equipara l’assenza superiore ai 15 giorni a dimissioni volontarie, con conseguente rifiuto dell’indennità di disoccupazione. La qualità del lavoro è diminuita sia dal punto di vista delle garanzie che da quello dell’accesso al welfare.

«L’unica distinzione che secondo me andrebbe fatta è quella tra lavoro degno e lavoro indegno, al di là dell’inquadramento contrattuale più o meno precario». Sul territorio nazionale, a un innalzamento dell’occupazione – al 61% nel 2023 secondo l’Istat, in aumento del 2,4% rispetto al 2019 – corrisponde una crescita del lavoro povero. L’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023. Secondo i dati dell’Osservatorio sul Precariato INPS, poi, una parte consistente dell’aumento dell’occupazione è correlato a un aumento del lavoro intermittente (+10,2%), occasionale (+19%) e stagionale (+17,8%). Alla crescita occupazionale, quindi, non corrisponde necessariamente un miglioramento delle condizioni lavorative né delle retribuzioni, vista la diminuzione del 6,9% dei salari reali nel 2024, come riportato dall’Ocse.

Resta il fatto che la precarizzazione del lavoro ha eroso la capacità di organizzazione delle lotte sindacali. Giulio Marcon, esperto di politiche del lavoro, è convinto che «le politiche liberiste degli ultimi cinquant’anni – dal pacchetto Treu, al Jobs Act, al più recente Collegato Lavoro – siano state frutto della volontà diretta di indebolire il sindacato. Questo è avvenuto nel contesto di una riorganizzazione della produzione in senso post-fordista dove convive il vecchissimo, le forme servili del caporalato, con il nuovo, le nuove figure introdotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale». I sindacati sembrano non reggere il passo e fanno fatica a intercettare il lavoro diffuso. Per questo, secondo Marcon, si dovrebbe tornare a un «sindacato di strada» capace di intercettare i lavoratori al di fuori della fabbrica. Nel riaccendersi del dibattito tra sindacato orizzontale e verticale, le Clap sviluppano un modello alternativo: «Clap per noi è un sindacato sociale, più che di base. Nel senso che mette insieme l’azione sindacale con il meccanismo di mutuo soccorso, in un’ottica di generalizzazione del conflitto», racconta Salvatore Corizzo.

La prima caratteristica di questo modello è la gestione orizzontale. Le decisioni vengono prese in forma assembleare. L’altra è favorire la partecipazione diretta degli assistiti ai tavoli di lavoro. A questo si aggiunge l’aspetto mutualistico che passa, ad esempio, per la costruzione di casse di resistenza per sostenere eventuali spese di causa. Il radicamento sul territorio permette, quindi, anche di intervenire fuori dal posto di lavoro. Come nota Emanuele, «non ci si può occupare del lavoro senza occuparsi del non lavoro, e quindi degli ammortizzatori sociali e del welfare». Da una parte, perché «la produzione eccede i confini tra pubblico e privato, per cui si è produttivi anche quando non si lavora», sottolinea Tiziano. Dall’altra, perché il precariato si associa a una precarietà esistenziale. Secondo l’Istat il 25% degli italiani sono a rischio di esclusione sociale, al di là del grado di stabilizzazione lavorativa: «Se arriva una bolletta più onerosa, se ti si rompe la macchina o se hai delle spese sanitarie, diventi povero. Viviamo in una condizione di precarietà diffusa», spiega Marcon. Mentre il governo Meloni vanta un innalzamento del numero di occupati, diminuiscono i salari e la qualità del lavoro. Intanto, le nuove generazioni, deluse dall’“economia della promessa”, cercano di riappropriarsi degli strumenti sindacali dentro e oltre il tempo del lavoro.

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Lavoro sicuro a parole, ma non nei fatti: l’Ai Act italiano dimentica la prevenzione

Per il primo maggio Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di intitolare la Festa del Lavoro al tema “Uniti per un lavoro sicuro”. A sua volta, il presidente della Repubblica Mattarella ha richiamato la problematica dei bassi salari e delle morti sul lavoro, mentre la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, annuncia lo stanziamento di 650 milioni di euro (in aggiunta ai 600 milioni previsti dai bandi Isi dell’Inail) per la sicurezza sul lavoro, da discutere con le parti sociali.

Se il buongiorno si vede dal mattino, al di là delle improvvisate promesse governative in occasione del primo maggio, sarebbe bene porsi una domanda. Come mai dell’attenzione (era ora) alla sicurezza sul lavoro non c’è traccia (se non a parole, alle quali non seguono i fatti) nel disegno di legge di iniziativa del governo sulla intelligenza artificiale, approvato il 20 marzo scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera?

Infatti, da un suo primo esame, si evidenzia la mancanza di un incisivo ed esplicito collegamento tra l’utilizzo di questi nuovi dispositivi di intelligenza artificiale (Ai) e il tema della prevenzione e della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Si ha l’impressione che il legislatore si sia limitato a una mera trascrizione dell’Ai Act varato dall’Unione europea lo scorso anno, senza alcun sforzo di innovazione basato sulla situazione concreta del nostro Paese a proposito di infortuni, incidenti mortali e malattie professionali.

È pur vero che il disegno di legge, composto di 28 articoli, richiama all’articolo 11 il tema della salute e della sicurezza nell’ambito del comma relativo alle “Disposizioni sull’uso dell’intelligenza artificiale in materia di lavoro”. In particolare, laddove si fa riferimento al fatto che “l’intelligenza artificiale è impiegata per migliorare le condizioni di lavoro, tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori…”. Ma tutto si ferma lì e una frase non basta.

È prevista poi, all’articolo 12, l’istituzione, presso il ministero del Lavoro, di un “Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro”, che ha il compito di “definire una strategia sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo….e di promuovere la formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro”. Anche in questo caso non esiste alcun esplicito riferimento al tema prioritario della salute e sicurezza. Ciò detto, sorprende ancora di più il fatto che, quando si va alla sostanza, cioè all’articolo 23, “Investimenti nei settori dell’intelligenza artificiale, della cybersicurezza e del calcolo quantistico”, che prevede lo stanziamento di un miliardo di euro, il tema della “tutela della integrità psicofisica dei lavoratori”, evocato all’articolo 11, scompaia del tutto.

Eppure, nella importante indagine promossa dalla commissione Lavoro della Camera, “Indagine conoscitiva sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e mondo del lavoro”, il nesso tra l’utilizzo della digitalizzazione dei processi produttivi e dell’Intelligenza artificiale ai fini della tutela della integrità psicofisica dei lavoratori era emerso in tutta evidenza nel corso delle numerose audizioni e ampiamente ripreso nel documento conclusivo.

È ormai chiaro che, se vogliamo abbattere il muro delle 1.000 morti all’anno, contenere gli infortuni e la crescita delle malattie professionali, occorre incentivare le imprese all’adozione di queste nuove strumentazioni tecnologiche. Gli esempi di dispositivi già esistenti non mancano: la web app per il monitoraggio dell’utilizzo effettivo dei dispositivi di protezione individuale, il badge di cantiere, l’air bag di caduta, i dispositivi di AI anti collisione, il casco intelligente, la tecnologia indossabile che monitora flusso sanguigno-temperatura-battito cardiaco (parametri vitali), l’ergonomia degli esoscheletri, i dispositivi di uomo a terra e uomo isolato, il cantiere digitale.

Rimane un mistero il fatto che la commissione Lavoro della Camera non sia coinvolta in questa discussione. Questo la dice lunga sulla disattenzione del legislatore sui temi della prevenzione. Quello che non manca è il cordoglio, ormai di circostanza, di fronte alle morti sul lavoro. Se si vuole davvero mettere mano alla situazione, nel passaggio alla Camera il disegno di legge va profondamente cambiato: ad esempio, agli articoli 19 e 23, che contengono i settori e le risorse da investire, sarebbe necessario fare riferimento, oltre alla cybersicurezza, alle telecomunicazioni e al 5G, anche al cofinanziamento dei dispositivi di digitalizzazione e di Ai a vantaggio delle imprese che scelgono di utilizzarli al fine di migliorare gli standard di sicurezza nelle singole aziende.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Foto Adobe stock

Lavoro, precarietà e disuguaglianze: ritratti di un’Italia che non si arrende

S. è operaio di una grande multinazionale statunitense che ha deciso di vendere e andar via. I 27 mesi di crollo della produzione industriale hanno il suo volto e quello dei 413 colleghi che oggi lottano per guadagnare il diritto al futuro. Non sono soli. In Italia in migliaia sono nella stessa situazione, a causa di imprese che sono libere di fare il bello e il cattivo tempo, di delocalizzare dopo aver succhiato alle casse pubbliche; a causa di un potere politico che è loro complice e senza alcun progetto di politica industriale al servizio del Paese e non delle grandi imprese.
E, intanto, l’inflazione schizza, la cassa integrazione pure e coi salari che ci sono molti devono scegliere tra pagare una bolletta o fare una visita medica.

Chiara è receptionist. Trotterella tra diversi B&B di un unico proprietario. Uno di quelli che si piange sempre addosso e che, tra un lamento e l’altro, nega ai dipendenti un contratto regolare e l’ha assunta “in grigio”, cioè per molte meno ore di quelle effettivamente lavorate. Poi, però, con una telecamera davanti straparla di giovani che non hanno più voglia di lavorare, che non sanno cosa significhi “sacrificio”…
Lui si arricchise; Chiara, invece, è il volto della turistificazione per i “nostri”: salari da fame e precarietà, soprattutto per giovani e donne. Ma anche la battaglia per un lavoro regolare e per un salario minimo di almeno 10€ l’ora.

Soumaila è bracciante. È arrivato quasi dieci anni fa da un Paese lontano migliaia di km. Oggi raccoglie ortaggi per 3€ all’ora. Tutto il giorno nei campi, senza stare a badare a meteo o fatica. Di lui e di quelli come lui si parla solo quando fanno la fine di Satnam Singh o Paola Clemente. O, nelle analisi dei think thank imprenditoriali, come quantità di braccia necessarie per sostenere un “output agricolo” sufficiente per un nuovo slancio dell’export tricolore. Soumaila produce made in Italy, ma in Italy non ha nemmeno la cittadinanza.

Katia insegna. In realtà è parte della più grande lotteria nazionale italiana. Quella che inizia sul finire dell’estate e che ti tiene incollata a mail e telefono in attesa di quel messaggio che fa la differenza tra una disoccupazione l’annuncio di qualche settimana o mese di lavoro, lontana centinaia di km da dove sei nata e vivi. Qualunque cosa dicano media e politici, qui di “choosy” e schizzinosi ci sono solo quelli che bevono Don Perignon.

Ci sono volti che, purtroppo, non sono più tra noi. Come quello di Patrizio Spasiano, 19enne tirocinante per 500€ al mese, ucciso da una fuga di ammoniaca il 10 gennaio. Ha il suo viso la battaglia per la sicurezza sul lavoro. Quella per mettere le nostre vite davanti ai profitti di aziende che, per qualche euro in più, sono disposte a manomettere le sicure dei macchinari. Nel solo 2024 ben 1.482 lavoratori e lavoratrici non hanno fatto più ritorno a casa.

E ci sono volti che non vediamo più in Italia. Come quelli di Valeria, una delle 113mila giovani che nel solo 2024 ha deciso di scappare via ed emigrare all’estero. Alla ricerca di quelle condizioni minime che qui troppo spesso vengono negate – non solo salario, ma anche stabilità e rispetto.

Per capire a che punto sia il mondo del lavoro nell’Italia del 2025, basterebbe una carrellata di questi volti e di queste storie.
Lavoratori e lavoratrici, ecco la nostra identità collettiva. Con interessi comuni. Come dimostra un sondaggio di Noto sul salario minimo: a favore il 64% degli italiani. Di qualunque orientamento politico. Perché la maggioranza del Paese sente l’urgenza e la necessità di alzare i salari. Non certo le armi, come da progetto delle classi dominanti, in Europa e in Italia.
È questo il bivio dinanzi a cui ci troviamo. Per imboccare la strada giusta nell’interesse della maggioranza serve costruire la più ampia mobilitazione popolare possibile.
A partire dal 1 maggio, giornata internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, non certo di chi il nostro lavoro lo sfrutta tutti i giorni.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Pap

Primo Maggio, ultima chiamata. I lavoratori continuano a morire

Nel 2024 sono morte 1.090 persone lavorando. Tre al giorno. Senza contare i 589.571 infortuni registrati e le 88.499 denunce per malattie professionali. È una strage continua, ma così regolare da sembrare normale. Una strage che chiamiamo “lavoro”.

Crescono gli ispettori (+59%), aumentano i controlli (+42%), ma il 74% delle aziende ispezionate è risultata irregolare. Oltre 80.000 illeciti, 19.000 casi di lavoro nero, 1.226 per caporalato, 83.330 violazioni sulla sicurezza. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha sospeso 15.000 attività imprenditoriali, quasi 5.500 solo per violazioni sulla sicurezza. Ha accertato oltre 200 milioni di euro di contributi non versati, ha promosso quasi mille incontri di sensibilizzazione. Ma non basta.

Ogni anno annunciano potenziamenti, nuovi ispettori, campagne informative. Ma intanto si continua a morire. Si muore nei cantieri, nei capannoni, nei campi. Si muore in silenzio. Per negligenza, per risparmio, per assenza di controlli. Ogni morte è una sconfitta dello Stato, ma anche un favore a chi del profitto fa scudo contro ogni responsabilità.

Il Primo Maggio dovrebbe celebrare chi lavora, non commemorare chi muore. Invece è diventato il giorno del bilancio: più denunce, più malattie, più irregolarità. Eppure non cambia nulla. Ogni governo che accetta questa normalità ne è complice. Ogni ministro che taglia fondi, ogni dirigente che minimizza, ogni politico che distoglie lo sguardo è parte di questa lunga, lenta mattanza.

Buon mercoledì. 

 

Foto AS

Il premierato che c’è già

Nel Parlamento italiano il primo maggio dura dodici giorni. Non è una battuta, è la fotografia impietosa che Stefano Iannaccone traccia su Domani. Sedute sospese, commissioni ridotte ad audizioni a distanza, aule vuote. È il simbolo di una politica che si arrende alla propria irrilevanza mentre Giorgia Meloni consolida un premierato di fatto senza bisogno di riforme.

Il governo decide senza contraddittorio, converte decreti in leggi senza dibattito, annuncia iniziative senza mediazione. La “madre di tutte le riforme”, sbandierata come priorità istituzionale, è scomparsa dal calendario, ma il potere si è già riorganizzato intorno alla figura della premier. Senza resistenza. Senza alternative.

La morte di papa Francesco e i dazi di Donald Trump anestetizzano un dibattito politico che, a destra come a sinistra, sembra incapace di reagire. Le opposizioni si aggrappano ai social, ma la mobilitazione sui referendum per il voto dei fuorisede è tiepida, burocratica, inadeguata. Giuseppe Conte tenta una mossa sui diritti dei lavoratori, ma il rumore si spegne senza eco.

Nel frattempo la Camera e il Senato sembrano esistere solo per ratificare decisioni già prese altrove. I numeri raccontano una resa: quasi tre voti di fiducia al mese, record assoluto per un governo politico. I luoghi della rappresentanza si svuotano senza che nessuno si prenda la responsabilità di difenderne la dignità.

Il risultato è un’Italia in cui la democrazia formale sopravvive, mentre quella sostanziale si consuma nell’indifferenza. E Giorgia Meloni, senza colpo ferire, trasforma l’inerzia collettiva nella propria incoronazione.

Buon martedì.