Trump va alle crociate contro le università americane, colpevoli di propalare sapere. Negli Usa ormai vengono stilate liste nere di docenti, censurate biblioteche scolastiche, mentre in alcuni Stati repubblicani i manuali scolastici vengono riscritti secondo l’ideologia suprematista, bianca e cristiana. È un assalto senza precedenti all’istruzione e alla ricerca scientifica, tra tagli alle agenzie federali, parole censurate e dati rimossi dai siti federali. Trump punta a togliere autonomia alla ricerca scientifica e colpisce il ruolo delle agenzie pubbliche come il National Institutes of Health o la National Science Foundation. Nella nazione che nell’immaginario collettivo, a torto o ragione, rappresenta il Paese della libertà, il presidente va all’attacco del libero pensiero, pretendendo che il mondo della conoscenza adegui i propri programmi alla sua visione reazionaria e discriminatoria.
Trump vuole che siano espulsi dalle università Usa studenti di origine straniera a cominciare da chi ha partecipato a manifestazioni pro Palestina, tacciate di antisemitismo. Come è accaduto a Mahmoud Khalil, attivista palestinese e laureato alla Columbia, portavoce del movimento nonviolento “Gaza Solidarity Encampments”. Dietro c’è una precisa strategia per soffocare la libertà di espressione che nasce da lontano. Già nel 2021 il cattolico tradizionalista J. D. Vance tenne un discorso intitolato “Le università sono il nemico”. Gli studenti stranieri per il vice presidente Usa sono il nemico interno. Ma proprio ricercatori e scienziati che lavorano in Nord America e arrivati da ogni parte del mondo hanno contribuito alla costruzione del soft power americano e alla sua egemonia internazionale.
Donald Trump lo sa?
Sembrerebbe di no dato che sta tagliando il ramo su cui gli Usa sono seduti. Le conseguenze saranno ancor più distruttive dell’effetto boomerang dei dazi e si sommeranno ad esse. La comunità scientifica negli Usa lo ha denunciato apertamente. La rivista Nature ha scritto che Trump si è ispirato all’ultra conservatore e religioso “Project 2025” per bloccare le ricerche considerate ideologicamente scomode, come quelle sul climate change e su questioni di salute pubblica. Il proposito nazionalista trumpiano di far uscire gli Usa uscire dall’Oms, sposando tesi no Vax rientra in questo quadro. La protesta degli scienziati non è rimasta all’interno del mondo accademico ma è tracimata anche nelle strade come ci racconta Alessandro Scassellati Sforzolini in un reportage sul collasso democratico e costituzionale a cui gli Usa stanno andando incontro.
Ma come sempre non ci accontentiamo di analizzare i fatti e con questo numero di Left, facendo nostro il manifesto ReBrain Europe firmato da oltre mille scienziati, lanciamo una proposta: “Riarmiamoci di cultura!”. Invece di spendere 800 miliardi per Riarm Europe, l’Europa investa in cultura e ricerca. L’Italia torni a investire in cultura e ricerca.
Si presenta un’occasione. Gli allarmi di deriva autoritaria e oscurantista che arrivano dagli Usa dovrebbero risvegliare quella bella addormentata che è l’Europa. Pensiero critico, ricerca scientifica, cultura sono la nostra colonna vertebrale da millenni. Oggi che più che mai il Vecchio continente dovrebbe e potrebbe recuperare le proprie radici culturali, trovando su questa base una unità politica in un mondo che cambia.
Come reazione a chi impone una visione guerrafondaia e discriminatoria della società è il momento di tornare a investire massicciamente in ricerca, potendo oltretutto attrarre ricercatori e scienziati intenzionati ad andarsene dagli Stati Uniti.
Alcuni Paesi come la Francia e la Germania, ma anche la Spagna «lo stanno già facendo», ci racconta il ricercatore del Max Planck di Berlino, Alessandro Foti. E l’Unione europea? «Bruxelles dovrebbe dire: investiamo subito 3-400 miliardi e ci portiamo a casa mezza Harvard. Ma non lo fa, e i pochi Paesi che hanno intravisto l’opportunità vanno in ordine sparso». Ancora più sconcertante è la situazione dell’Italia le cui politiche miopi non sono in grado nemmeno di far rientrare i ricercatori italiani che – come Foti – a decine di migliaia sono andati all’estero per cercare condizioni di lavoro migliori e occasioni di realizzazione professionale.
«Mai più guerra, mai più fascismo, mai più distruzione», costruire la pace non con i muri, diceva Altiero Spinelli, immaginando un’Europa che superasse la logica della forza militare, promuovendo il diritto internazionale, il dialogo, i diritti umani. Il Manifesto di Ventotene, scritto in carcere da antifascisti, è stato la prima dichiarazione di una nuova Europa libera, democratica e solidale.
Da questo nucleo è nata l’idea di welfare europeo, che ha portato a sistemi di sanità pubblica, istruzione accessibile, protezione sociale e diritti del lavoro: elementi che, con tutte le differenze tra Stati, sono un tratto distintivo dell’Europa rispetto ad altri modelli, come quello Usa. La cultura del welfare è anche cultura della responsabilità collettiva: nessuno deve restare indietro, e la libertà personale non può prescindere dalla giustizia sociale.
Le parole chiave per realizzare tutto questo sono cultura, ricerca, conoscenza, come strumento di emancipazione e superamento delle disuguaglianze. Spinelli e Rossi capivano che non bastava costruire istituzioni comuni. Serviva una “coscienza” europea, una cittadinanza fondata su valori comuni: libertà, giustizia, solidarietà. E questi valori, prima che dai trattati, nascono dalla cultura: dalla scuola, dalla memoria storica, dalla letteratura, dall’arte. Di cui l’Europa è ricchissima.
Come ci ricorda Carlo Ossola in un suo bel libro di qualche anno fa, l’Europa nasce come rete di università nell’XI secolo quando ancora non esistevano confini nazionali. Si svilupparono come istituzioni autonome di studio e insegnamento, distinte dalle scuole ecclesiastiche e monastiche medievali. I clerici vagantes, giovani, studenti non necessariamente legati ai istituzioni religiose, si spostavano da un centro di studio all’altro, di città in città in cerca di sapere, insegnamento: Bologna, Parigi, Oxford, Salamanca.
Nell’epoca dei Comuni e, persino, delle Signorie, la cultura era un’arma diplomatica potentissima. Basta pensare a quale egemonia conquistarono Firenze e Venezia grazie ai loro artisti e viaggiatori, solo per fare qualche esempio.
Ma ora in Italia c’è un ministro dell’Istruzione che vorrebbe imporre una visione nazionalistica della storia patria, come denuncia lo storico Adriano Prosperi. Il governo Meloni ripropone il falso storico delle radici cristiane dell’Occidente quando è evidentissimo che senza gli studi di algebra, di astronomia, di ottica ecc , diffusi da illustri immigrati dal mondo arabo il Vecchio continente non avrebbe potuto progredire nelle scienze.
Non cadiamo nella trappola del trumpismo de’ noantri, apriamo le porte a chi è portatore di altre culture. Invertiamo la rotta e rilanciamo università, finanziamo la ricerca pubblica e di base, proteggiamo la libertà degli insegnanti, degli studenti, degli artisti come dice l’articolo 33 della Costituzione. E riprendiamo il filo della storia che ha portato l’Europa nel dopoguerra ad attrarre gli scienziati che se ne erano andati per fuggire dal nazifascismo.
In quell’epoca nacquero centri scientifici di eccellenza basati sulla cooperazione, la pace e l’apertura intellettuale. Un esempio è il Cern di Ginevra, fondato nel 1954, voluto da 12 Paesi come polo di ricerca condiviso in fisica che divenne il simbolo della nuova Europa scientifica. Fu pensato proprio per evitare che la scienza venisse usata a fini bellici (come era accaduto nel Progetto Manhattan). Estendiamo l’Erasmus e il programma di Horizon Europe.
Soprattutto torniamo ad agire a livello comunitario. L’Europa della conoscenza richiede uno sforzo collettivo. In questo senso, la battaglia per l’università libera è la stessa battaglia per un’Europa democratica.
Illustrazione di Alessia Marzano, Officina B5