Nel Parlamento italiano il primo maggio dura dodici giorni. Non è una battuta, è la fotografia impietosa che Stefano Iannaccone traccia su Domani. Sedute sospese, commissioni ridotte ad audizioni a distanza, aule vuote. È il simbolo di una politica che si arrende alla propria irrilevanza mentre Giorgia Meloni consolida un premierato di fatto senza bisogno di riforme.
Il governo decide senza contraddittorio, converte decreti in leggi senza dibattito, annuncia iniziative senza mediazione. La “madre di tutte le riforme”, sbandierata come priorità istituzionale, è scomparsa dal calendario, ma il potere si è già riorganizzato intorno alla figura della premier. Senza resistenza. Senza alternative.
La morte di papa Francesco e i dazi di Donald Trump anestetizzano un dibattito politico che, a destra come a sinistra, sembra incapace di reagire. Le opposizioni si aggrappano ai social, ma la mobilitazione sui referendum per il voto dei fuorisede è tiepida, burocratica, inadeguata. Giuseppe Conte tenta una mossa sui diritti dei lavoratori, ma il rumore si spegne senza eco.
Nel frattempo la Camera e il Senato sembrano esistere solo per ratificare decisioni già prese altrove. I numeri raccontano una resa: quasi tre voti di fiducia al mese, record assoluto per un governo politico. I luoghi della rappresentanza si svuotano senza che nessuno si prenda la responsabilità di difenderne la dignità.
Il risultato è un’Italia in cui la democrazia formale sopravvive, mentre quella sostanziale si consuma nell’indifferenza. E Giorgia Meloni, senza colpo ferire, trasforma l’inerzia collettiva nella propria incoronazione.
Buon martedì.