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Poesie da Gaza, o dell’insistenza della vita

Riportiamo qui alcuni frammenti della storia di Yousef Elqedra, scrittore palestinese, apparso nell’antologia Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, (Fazi editore), nella traduzione di Nabil Bey Salameh.

Il cielo non è il mio tetto
la terra non è il mio letto
sono straniero anche alla mia ombra
e solo come fossi l’ultima stella.

(Gaza, 19 febbraio 2025. Traduzione Samuela Pagani)

Dal campo profughi di al-Mawasi, a ovest di Khan Yunis, Yousef Elqedra, poeta di Gaza, resiste al mondo. È straniero alla sua terra, su cui poggia la sua gelida tenda; straniero al cielo, pattugliato dai droni e dagli aerei da caccia; straniero a sé stesso, mutilato nella sua identità. Straniero ovunque perché palestinese, i suoi versi costituiscono l’unica casa che gli resta da abitare.

L’India che dovremmo provare a vedere

Che di parlare di Paesi del Global South ci sia un grande bisogno è fuori di dubbio dato che ci si sta sempre di più, ed in maniera preoccupante e a volte con esiti distopici, vincolando al discorso eurocentrico. Che se ne parli come ne fa Matteo Miavaldi con il suo Un’altra idea dell’India dà il senso di quanto possa essere interessante la letteratura divulgativa italiana.

Parlare di India infatti, come Matteo fa trasparire dalle pagine del suo nuovo libro – che viene presentato il 17 maggio al Salone del libro a Torino -, significa parlare di un continente (non a caso si parla di Subcontinente indiano) del quale il Paese di Gandhi e della dinastia Gandhi, stesso cognome ma intenzioni politiche ben diverse, rappresenta la gran parte.

Parlare di India in un certo modo significa parlare di religione, con lo stomaco più che con il cervello, di tradizione, con l’intuito più che con la razionalità e di umanità, come un dato di senso più che come un dato numerico. È un po’ come rileggere tante suggestioni che spiegava Pasolini nel suo Un’idea dell’India, piccolo ma imprescindibile capolavoro al quale Matteo Miavaldi si ispira.

Lo sguardo che ci offre.

Così Un’altra idea dell’India, uscito per Add editore ci porta dentro la pancia dell’India, la più grande democrazia, e ci fa correre sulla bibliografia dei padri fondatori ponendo in primo piano anche Bhimrao Ramji Ambedkar, una voce troppo spesso dimenticata da noi occidentali.

Daniel Munduruku: «Il senso di noi nativi brasiliani per la resistenza»

Daniel Munduruku, lei ha pubblicato oltre 60 libri ed è il più grande divulgatore della saggezza e della diversità culturale dei popoli indigeni alle nuove generazioni. Ci può dire quali sono stati i principali ostacoli affrontati lungo il suo percorso?

Sicuramente, all’inizio, il fatto di non essere in grado di scrivere perché indigeno e, quindi, sprovvisto di una “cultura”, secondo i parametri occidentali. I pregiudizi dell’editoria sono stati molteplici e ci è voluto un po’ di tempo e non pochi rifiuti, per dimostrare che, in realtà, sapevo scrivere eccome. A prendermi per mano è stata una donna, Lilia Schwarcz, fondatrice della Companhia das Letras; antropologa, storica e sensibile alla causa indigena, è stata la prima a credere nella mia scrittura. Ho conseguito un PhD in Educazione con tanti sacrifici, sempre in lotta contro i pregiudizi. Tante volte ho sentito che “non sembravo un indigeno”. Fare parte dell’accademia, da ricercatore munduruku, mi rende ancora più indigeno e senz’altro più attaccato alla mia ancestralità. Grazie a tanto studio e ricerca alle spalle sono venuto a conoscenza di altre culture native, riversate poi nei libri, che ora leggono tanti bambini e educatori.

Lei ha fondato l’Instituto Indígena Brasileiro para Propriedade Intelectual, pioniere della salvaguardia delle conoscenze tradizionali indigene. Perché, però, questo sapere non viene adeguatamente sostenuto dalle istituzioni brasiliane?

Diciamo che la situazione è un po’ migliorata rispetto ai tempi in cui brevettavano un po’ ovunque ciò che sapevamo da sempre. Nei villaggi, comparivano persone che documentavano, registravano o assorbivano tutto ciò che proveniva dalla nostra conoscenza tradizionale. Il concetto di “proprietà intellettuale” comprende le danze, la musica, le narrazioni, la grafica, l’artigianato e tutte le conoscenze sull’uso di piante ed erbe tramandate di generazione in generazione. L’Istituto è nato perché prima non avevamo alcun controllo su come queste cose venivano utilizzate. Ora, invece, le comunità hanno imparato a tutelarsi. Spero tanto nel riconoscimento legale della proprietà intellettuale e culturale indigena, cioè quella appartenente a una determinata comunità, non al singolo individuo.

Nel suo libro, Sabedoria das águas, Koru vuole scoprire la verità e ci dimostra che dovremmo preoccuparci di ciò che crediamo e non di ciò che gli altri pensano di noi. A tal proposito, quanto conta la verità nella cosmologia indigena?

Per noi, la verità risiede nella Natura: nasciamo, cresciamo e moriamo, come tutto ciò che appartiene a Lei e, da Lei, ritorna. Tutto il resto è un’invenzione, non esiste nient’altro rispetto a questa semplice verità. Per me, educato nel cattolicesimo, sembra assurdo, ma è stato davvero complicato ritornare alle mie origini, derise e calpestate dalla religione. La pratica missionaria è stata responsabile dello smantellamento della cultura indigena. Auspicare il paradiso o la vita eterna, temere l’inferno, sono concetti molto lontani da qualsiasi popolo indigeno. Possiamo fingere di essere eterni, raccontandoci tante storie, ma poi la Natura ci riporta a sé, sottoterra. Se veramente esiste una parte dell’umanità che distrugge la Natura e la depreda, è perché si convince che sia meglio uccidere la verità per rimpiazzarla con la menzogna del progresso, dell’accumulo, del capitale, del cemento o del mito dello “sviluppo sostenibile”.

Uno dei suoi libri di racconti parla d’amore: A Primeira Estrela que vejo é a Estrela do meu Desejo e Outras Histórias Indígenas de Amor. Nello specifico, come lo vivono i mundurukus?

Non crediamo all’idealizzazione amorosa, all’innamoramento, come decantati nella letteratura occidentale. I munduruku si scelgono per la “forza di farsi forza”, di sostenersi, per l’energia che proviene da un partner. Nei miei libri uso la parola “amore” per praticità, perché facilmente riconoscibile dalle menti occidentalizzate. Questa parola è diventata come un marchio. La vita in una comunità indigena è bella, ma molto dura, e a certe cose non ci pensiamo. Prova solo a immaginare dei genitori che crescono i loro bambini tra mille pericoli, tra serpi e altri insetti velenosi, animali che possono ucciderli ovunque in qualsiasi momento, oppure invasori in agguato, pronti a cacciarli dalle loro terre, intemperie e così via. I sensi di questi genitori sono sempre e costantemente all’erta. Perciò, l’immagine del nativo che non fa nulla, magari sdraiato sull’amaca, uno che si alza soltanto per andare a cacciare e a pescare è un grande falso mito. Bisogna resistere, sopravvivere, per questo conta più la forza e l’energia di ogni altro criterio, nella scelta di un partner.

“Essere brasiliani dovrebbe comportare un atteggiamento di cura per la Madre Terra”. Perché chi mostra questa attenzione è considerato pericoloso, quasi sovversivo, e chi invece agisce per distruggere l’ambiente, o per nascondere questa distruzione, è esaltato come un vero patriota, nel Brasile di oggi?

L’indigeno rappresenta l’essenza del popolo brasiliano. Chi distrugge l’ambiente per accumulare capitale, invece, è visto come un patriota perché sta contribuendo all’economia di un Paese che vorrebbe essere riconosciuto come potenza economica. Troppi brasiliani credono che i popoli indigeni non abbiano alcun ruolo nella società, che non abbiano contribuito per nulla, che siano sprovvisti di valore. Non comprendono però che la cosmovisione indigena è diversa dall’occidentale, perché non prevede l’accumulo di nulla: tutto viene condiviso. Come sappiamo, la ricchezza accumulata serve per programmare il futuro, e programmarlo vuol dire rispettare il tempo degli orologi, ovvero il tempo dell’accumulo, del risparmio e degli investimenti.

Ci dica di più.

La logica del tempo, per gli indigeni, non è lineare, perché legata alla Natura, che va in senso antiorario, sistemico, ciclico. In pratica, per noi, esiste solo il passato (la memoria) e il presente (l’opportunità di vivere il cammino lasciato dai nostri ancestrali). Faccio un esempio per comprendere meglio il concetto: quando la caccia è abbondante, non la mettiamo da parte, ma offriamo alla comunità, perché domani potrebbe non essere buona e, quindi, qualcun altro la condividerà con noi. La reciprocità, la solidarietà, la gioia di essere vivi, l’amore per la Madre Terra ci appartengono da sempre, sono un valore intrinseco. Ci sono tracce delle civiltà indigene in Sudamerica che risalgono a cinquantamila anni fa. Per questo dico che l’essenza dei brasiliani è indigena ed è molto affascinante, ma, purtroppo, in qualche molto, rinnegata.

La letteratura indigena può adoperare un cambio di prospettiva in coloro che rifiutano l’eredità culturale indigena nella costruzione del Brasile?

Per noi indigeni, la scrittura è diventata man mano una necessità, che nasce dal bisogno di farsi comprendere non solo dalla società brasiliana, ma anche e soprattutto da quella occidentale. Il nostro desiderio più grande è che i bambini diventino più consapevoli, che sappiano chi siamo e che esiste un altro modo di stare al mondo. Più di vent’anni fa, abbiamo capito che era necessario decostruire l’immagine che i libri di Storia avevano trasmesso su di noi. Per fare ciò, era essenziale un cambio di prospettiva e doveva partire dalla scuola, perché l’immaginario dei bambini, purtroppo, era stato popolato da pregiudizi sugli indigeni.

Vale a dire?

I libri di testo ci presentavano come “esseri inferiori”, citando l’assenza di storia, la mancanza di inventiva tecnologica, o addirittura aspetti esotici, per creare un sentimento di repulsione nei nostri confronti. Bambini e ragazzi leggevano di infanticidi e cannibalismo, senza domandarsi come mai trecento popoli differenti, con lingue e usanze diverse, potessero adoperare simili pratiche. L’europeo era arrivato nelle Americhe per “civilizzarci” e il Cristianesimo per “umanizzarci”. Sebbene non esistano narrazioni razionali sull’origine del mondo, le nostre venivano considerate inferiori rispetto a tutte le altre. Basti pensare al mito della vitória-regia, la ninfea più grande al mondo: un giorno, una bella donna, chiamata Naiá, si innamorò di Jaci, la luna. Jaci sceglieva le donne più belle per trasformarle in stelle, ma non considerava mai Naiá. Finché Naiá vide il riflesso di Jaci nell’acqua e, credendo fosse venuta a prenderla, si lanciò, morendo annegata. La luna, commossa, le rese omaggio, trasformandola nella ninfea più grande al mondo, che si apre solo di notte, per farsi accarezzare dai suoi riflessi. Non importa se è vero o falso, ci basta che questi e tanti altri miti, tramandati dai popoli originari del pianeta, hanno mantenuto in piedi foreste e boschi per millenni. E non mi sembra affatto un lavoro da poco.

Nel 2024, in Brasile, è stata devastata dal fuoco una superficie dell’Amazzonia equivalente a quella dell’Italia. A novembre, ci sarà la COP30 a Belem, la città in cui lei è nato. Abbiamo un governo che difende lo sfruttamento del petrolio nella Grande foresta e una rete di infrastrutture che può portarla al collasso. Cosa si aspetta dalla Cop30?

Non mi aspetto nulla, in verità, perché si tratta di un evento passeggero. Dal punto di vista simbolico, lo vedo come l’ultimo “soffio” dell’Amazzonia come simbolo di resistenza a livello mondiale. Soltanto la conoscenza, l’istruzione, la consapevolezza di ognuno di noi che, senza le foreste, moriamo tutti, che i popoli della foresta non sono infelici, che possono farne a meno di ciò che, in una società capitalistica, è considerato essenziale, che restano lì per difendere non solo la loro, ma l’esistenza umana dell’intero pianeta e che, se un giorno cesseranno di esistere, l’Amazzonia si trasformerà in un deserto, per via degli interessi economici in gioco, può tenere in piedi i brandelli del “polmone verde” che ancora rimangono. È bene comprendere il prima possibile che il capitalismo non è altro che un mostro che divora tutto, un sistema economico che ci sta mangiando vivi. Si può obiettare che il governo sia cambiato, ma la verità è che la situazione degli indigeni, che dipende essenzialmente da fattori economici, ha subìto poche alterazioni. I giovani, tuttavia, fortunatamente sembrano essere più consapevoli, adottando comportamenti basati su un’idea di appartenenza che va oltre il binomio ideologia-religione. Basti pensare alle campagne per abolire il consumo di carne o contro i pesticidi e agrotossici, che il Brasile acquista dal mondo intero.

Per concludere, quale sensazione vorrebbe lasciare nel cuore dei suoi piccoli lettori e lettrici, quando finiscono di leggere uno dei suoi libri? Forse che hanno letto un eccellente libro, dal punto di vista letterario, o che possono fare qualcosa per cambiare il mondo in cui viviamo?

Nessuna delle due. Mi piacerebbe che questi bambini imparassero ciò che diciamo sempre ai nostri bimbi munduruku, ossia: siate buoni ancestrali, oggi, create un mondo possibile per chi viene dopo di voi, non comportatevi da padroni del mondo e vivete il “qui ed ora”, il presente, come un regalo; provate gratitudine per l’oggi. Noi dipingiamo i nostri corpi, balliamo, creiamo oggetti con gli strumenti che la Natura ci offre e viviamo in modo soddisfacente, con il minimo indispensabile. Calpestiamo la terra, non l’asfalto, e con leggerezza. Nella nostra comunità, il valore di una persona si misura non per quante cose possiede, ma per la generosità e la capacità di condivisione. Questi valori accomunano tutti i popoli indigeni, ma, se volete, potete farli anche vostri. Ecco, forse è questo che vorrei imparassero dai miei libri.

L’autrice: L’avvocata per i diritti umani Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e saggista. Tra i suoi libri Le catene del Brasile.(L’Asino d’oro ed.) e il nuovo Morfologia delle passioni (Giovane Holden ed.)

Antigone non deve morire

Il coro dei commenti alle motivazioni della sentenza Turetta somiglia a quello che nella tragedia osserva e commenta lo scontro tra Antigone, una ragazzina di tredici anni, lasciata sola anche dalla sorella Ismene, e Creonte, re di Tebe. La ragazzina, nipote del re, sostiene con argomenti illogici il suo diritto a dare sepoltura al fratello nemico della patria, il re non cede neanche alle suppliche di suo figlio Emone di salvare Antigone, sua futura sposa: la legge è uguale per tutti. Murata viva, Antigone si suicida, e così Emone e sua madre Euridice. L’esito tragico dello scontro propone, agli albori della democrazia, il dramma dell’inconciliabilità del principio astratto, la ragione, con la vita reale degli esseri umani, gli affetti: una scissione, questa tra mente e corpo, che trascina nella violenza fino alla morte, fino alla strage annunciata da Tiresia, il cieco che non vede la realtà materiale, ma solo l’invisibile che la muove.

Qui ci occupiamo della strage di donne contro la quale il femminismo, «unica rivoluzione non ancora completamente fallita», come scrisse Maurizio Maggiani su La Stampa dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, combatte da decenni con armi che si sono dimostrate efficaci nel sostenere la liberazione delle donne attraverso la lotta per il riconoscimento dei loro diritti, della parità, ma appaiono “spuntate” di fronte ai numeri e alla gravità delle conseguenze della violenza privata, cosiddetta domestica, che addirittura aumenta proporzionalmente all’aumento della libertà delle donne. È la “sindrome scandinava” (nei Paesi nordici dove il “gender gap” è ridotto ai minimi storici la violenza contro le donne aumenta), come propone di chiamarla su Repubblica Luigi Manconi, con suggestivo accento sulla patologia del fenomeno, che giustamente non può essere definito un paradosso, perché «il rapporto tra femminicidio e patriarcato è tanto più stretto, direi più intimo, quanto più il sistema di potere maschile viene svelato e incrinati».

Antonello Pasini: «Crisi climatica, è il tempo delle scelte»

Guerre commerciali, tensioni geopolitiche, crisi della democrazia. Il mondo di oggi è irriconoscibile rispetto alla situazione di 20-30 anni fa, quando la globalizzazione sembrava inarrestabile e un autorevole politologo statunitense proclamava la “fine della storia”. Ma su tutti questi problemi ne incombe uno ancor più grave: l’emergenza climatica, che sembra essere sparita dai radar con l’avvicendarsi dei fatti drammatici degli ultimi mesi. Nel suo nuovo libro La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: ragioni per il cambiamento (Codice edizioni) il fisico climatologo e divulgatore scientifico Antonello Pasini sostiene che siamo di fronte ad una sfida esistenziale per l’umanità. Da un punto di vista non solo scientifico, ma anche politico, geopolitico e comunicativo. Per approfondire gli abbiamo rivolto alcune domande.

Professor Pasini lei ricorda che il clima terrestre è sempre cambiato ciclicamente, anche per cause naturali. Oggi però sappiamo che la temperatura globale è aumentata di circa un grado negli ultimi 50 anni. Questo aumento è un fenomeno naturale?

Assolutamente no. Innanzitutto, c’è un dato fondamentale: la rapidità del cambiamento. Durante il passaggio dalle ere glaciali ai periodi interglaciali, cioè quando la Terra si riscaldava naturalmente, la temperatura aumentava di circa un grado ogni mille anni. Oggi invece abbiamo guadagnato un grado in appena cinquanta anni. Questo vuol dire che stiamo andando circa venti volte più velocemente rispetto ai cicli naturali del passato. Ed è un primo segnale importante.

Ce ne sono altri?

Il secondo punto è legato a una figura che mostro nel libro, con i planisferi affiancati. Lì confronto il riscaldamento globale recente con altri episodi di presunto caldo storico: come quello al tempo di Annibale (quando attraversò le Alpi con gli elefanti) o quello dell’epoca di Erik il Rosso, con la Groenlandia chiamata “terra verde”. Si parla spesso di questi eventi per dire “è già successo”, ma se andiamo a vedere bene, quei riscaldamenti erano regionali, cioè riguardavano solo alcune aree del pianeta, mentre altre si raffreddavano o restavano stabili.

E oggi?

Il riscaldamento globale recente è tutta un’altra cosa. È ubiquitario, cioè avviene ovunque, su circa il 98% della superficie terrestre. Ed è sincrono, cioè sta succedendo nello stesso momento in tutto il mondo. Questo è impossibile da spiegare con la sola variabilità naturale. Significa che c’è una forzante esterna che sta spingendo il sistema climatico a cambiare in modo coerente e globale. E oggi sappiamo bene cos’è questa forzante: le nostre attività. L’uso dei combustibili fossili, le emissioni di gas serra, la deforestazione, una certa agricoltura poco sostenibile. Questo ci fa capire quanto il riscaldamento globale di oggi sia profondamente diverso da quello del passato.

Non c’è un laboratorio in grado di contenere tutte le dinamiche naturali del sistema Terra, quindi dobbiamo affidarci a simulazioni, scrive nel libro. Ma possiamo davvero fidarci di questi modelli, considerando che non prevedono il futuro?

Beh, non è proprio corretto dire che non prevedono il futuro. Questi modelli riescono a ricostruire il passato in modo molto accurato. Il punto è che non possono fare una previsione univoca del futuro, come succede invece con le previsioni meteo: non possiamo dire “tra due giorni succederà questo”. Nel caso del clima, non funziona così perché il futuro dipende da quello che faremo noi. E le azioni future dell’umanità non dipendono dalle scienze dure – come la fisica o la chimica – ma da discipline come l’economia, la politica, la sociologia… insomma, da scelte umane. E nessuno può sapere oggi, con certezza, cosa sceglieremo di fare domani.

Per questo si lavora con scenari?

Esattamente: ipotizziamo diversi futuri possibili. Per esempio, se non riduciamo affatto le emissioni di gas serra, si va verso lo scenario “business as usual”, che ci porta anche a un aumento di quasi 5 gradi della temperatura media globale. Se invece agiamo con decisione, possiamo restare negli scenari più favorevoli: un aumento contenuto entro 1,5 o 2 gradi. Quindi non è che i modelli non funzionino o siano inaffidabili: semplicemente non possono prevedere una sola versione del futuro, perché quello dipende da variabili esterne – e soprattutto da decisioni umane.

Ne La sfida climatica sostiene anche che, tutto sommato, il pianeta è stato benevolo con noi e che ci poteva andare peggio. Cosa intende esattamente?

Fino ad ora, il clima ha risposto in maniera pressoché lineare. L’aumento dagli anni 60 in poi è rapido, ma è sostanzialmente una retta che sale: quindi una risposta graduale del sistema climatico a ciò che abbiamo fatto noi. Il problema è che il clima è un sistema complesso che ha soglie critiche oltre le quali il sistema può cambiare drasticamente, andando a stabilizzarsi su un equilibrio completamente diverso.

Può fare un esempio?

Faccio l’esempio del permafrost in Siberia: se superiamo una certa soglia e il permafrost si deghiaccia, tutto il metano intrappolato lì dentro viene rilasciato in atmosfera. Il metano ha un potere riscaldante almeno 30 volte superiore a quello della CO₂. E allora che succede? Succede che questo rilascio potrebbe far salire drasticamente la temperatura, e nessuno può prevedere con certezza quanto. A quel punto, qualsiasi cosa facessimo sulle emissioni di combustibili fossili non servirebbe più a tornare indietro: la temperatura si stabilizzerebbe su un nuovo stato di equilibrio molto più caldo. In questo senso dico che “ci è andata bene finora”: il sistema climatico ha risposto in modo graduale, e i serbatoi naturali di assorbimento – come foreste e oceani – hanno funzionato bene. Ma oggi iniziamo a vedere segnali di saturazione di questi serbatoi. Le foreste, per esempio, sono sempre più colpite dagli incendi, che sì, magari vengono appiccati dall’uomo, ma sono resi molto più probabili da siccità, ondate di calore, vento secco – tutti effetti del cambiamento climatico.

Lei scrive che una delle risposte all’emergenza climatica è l’adattamento. Questo significa che le politiche di mitigazione non sono sufficienti? E che, in parte, il riscaldamento globale è ormai irreversibile?

Sì. Quello che stiamo vedendo oggi ce lo terremo per i prossimi decenni, perché il clima ha una grande inerzia. Quando emettiamo CO₂, una parte resta in atmosfera per centinaia, persino migliaia di anni. Quindi, anche se domani smettessimo di emettere, gli effetti non sparirebbero subito. Ecco perché dobbiamo adattarci: le ondate di calore, la siccità, le alluvioni, l’innalzamento del mare – queste cose continueranno ancora per molto tempo, e dobbiamo prepararci a gestirle. Ma l’adattamento da solo non basta. Dobbiamo anche mitigare, cioè ridurre le emissioni drasticamente e in fretta, per evitare scenari peggiori. Se, ad esempio, i ghiacciai alpini perdessero il 90% del loro volume, comprometteremmo l’approvvigionamento idrico della Pianura padana. Quindi servono entrambe le strategie: adattamento e mitigazione.

Come mai sostiene che il negazionismo climatico è ormai una battaglia di retroguardia? Non sembra un fenomeno così marginale. I negazionisti sono pochi, sì, ma uno di loro, per esempio, è presidente degli Stati Uniti…

Ha ragione, ma quando parlo di “battaglia di retroguardia” intendo che il loro fronte si sta progressivamente restringendo. Un tempo negavano l’esistenza stessa del cambiamento climatico ma con tutti i dati scientifici disponibili, non possono più sostenerlo. Allora sono passati a dire che sì, il cambiamento esiste, ma non è causato dall’uomo. Anche questo non regge più: modelli diversi, compresi quelli che ho sviluppato io, mostrano chiaramente la responsabilità umana. Oggi il loro nuovo fronte è: “Ok, è vero, è colpa nostra ma tanto non possiamo farci nulla, e agire danneggerebbe l’economia”. Oppure dicono che la CO₂ fa bene alle piante, perché ne stimola la crescita. Ma questo è vero solo a parità di altre condizioni. Se manca l’acqua o fa troppo caldo, le piante non crescono affatto – e i nostri modelli mostrano che, soprattutto nelle regioni subtropicali, l’impatto sarà devastante. Quindi sì, il negazionismo esiste ancora, ma si è spostato sempre più indietro: non è più un rifiuto dei dati, ma un tentativo di rallentare o impedire l’azione. Ecco perché parlo di “battaglia di retroguardia”.

Una domanda un po’ provocatoria: nelle democrazie si vota ogni 4-5 anni, e i politici tendono – come dice anche lei – a cercare risultati immediati. Questo porta molti a sottovalutare la questione climatica. Ma allora, si può dire che la democrazia, per come è strutturata, sia un limite nella lotta al cambiamento climatico?

In un certo senso sì, è un limite. Se chi governa è ancorato solo alle politiche di breve termine, rischia di occuparsi solo delle emergenze immediate, trascurando quelle più profonde e strutturali come la crisi climatica. Le faccio un esempio: con la crisi del gas russo, invece di cogliere l’occasione per rilanciare le energie rinnovabili e affrancarci dalla dipendenza dai combustibili fossili – facendo anche del bene al clima – si è corsi a cercare gas altrove, dal gas liquido al gas africano. È stata una soluzione rapida, ma miope. Il problema è proprio questo: se risolvi l’emergenza a breve termine senza considerare gli effetti a lungo termine, rischi di peggiorare la situazione climatica. Serve una visione che tenga insieme entrambe le prospettive: il breve e il lungo periodo.

Lei sostiene che le scelte quotidiane dei singoli possono contribuire a invertire la rotta. Non c’è il rischio, così facendo, di scaricare tutta la responsabilità sul cittadino, quando dovrebbero essere le istituzioni a dirigere il cambiamento?

Ha perfettamente ragione, e infatti il discorso parte proprio da un dato di fatto: i grandi della Terra o non si mettono d’accordo, oppure lo fanno su accordi molto deboli, al ribasso. Per questo serve una spinta dal basso. Il primo passo è la consapevolezza: conoscere il problema, sentirlo proprio. Questo può portare a cambiare il proprio stile di vita, certo, ma non basta. È fondamentale agire anche collettivamente: unirsi in gruppi, promuovere un consumo energetico e alimentare responsabile, creare comunità energetiche locali, e così via. Ma soprattutto, serve spingere sulla politica. Perché la transizione ecologica ed energetica la devono guidare le istituzioni, a livello locale, nazionale e internazionale. Quindi no, non si può scaricare tutta la responsabilità sui singoli cittadini. Il cambiamento vero richiede una presa di coscienza anche dei meccanismi economici e politici in gioco, come le pressioni delle lobby dei combustibili fossili che alimentano disinformazione e ritardano l’azione. Ma il contributo individuale può innescare dinamiche collettive e influenzare la direzione politica.

Giorgia Meloni ha proposto di rispondere ai dazi di Trump attraverso una revisione del Green deal europeo: la visione green rischia di essere tacciata di ideologia e di diventare il capro espiatorio delle tensioni commerciali e geopolitiche?

Sì, purtroppo c’è una tendenza, da alcune parti, a trattare il cambiamento climatico come un tema ideologico. Pertanto anche le politiche per contrastarlo vengono bollate come irrealistiche o dettate da un’agenda ideologica. Ma non è così. Si tratta di un problema reale, con impatti concreti sull’economia, sulla salute, sulla sicurezza. Nel mio libro lo spiego chiaramente: questa crisi colpisce qualsiasi visione del futuro, sia di sinistra che di destra. A chi ha a cuore la giustizia sociale, mostro come il riscaldamento globale aumenti le disuguaglianze, sia tra Paesi che all’interno della stessa società. A chi crede nella competitività e nella crescita economica, faccio notare che il cambiamento climatico può far crollare il Pil e mettere in crisi interi settori produttivi. Per questo è fondamentale costruire uno “zoccolo duro” di azioni condivise, indipendentemente da chi governa. Noi scienziati, con iniziative come La Scienza al voto, ci stiamo mettendo a disposizione per indicare quali politiche sono davvero efficaci, basandoci sui dati. Non diciamo “questa è l’unica strada”, ma forniamo strumenti oggettivi per distinguere tra azioni utili e puro greenwashing. In questo momento, la nostra più grande preoccupazione è che si fermi tutto, proprio mentre servirebbe continuità, chiarezza e coraggio, sia a livello nazionale che internazionale.

L’autore: Giacomo Pellini è giornalista ed esperto dei temi dell’ambiente e del clima. Per i tipi di Left ha pubblicato il libro Contro i mercanti del clima

Scorie di guerra in tempo di pace

Dunque fra le tante disgrazie che il governo Meloni ci sta regalando c’è anche il rilancio dell’uso civile dell’energia nucleare. Si sa, ma non si dice, che il nucleare civile è funzionale a quello militare perché ne riduce i costi. Ne deduco che la decisione di rilanciarlo potrebbe trovare ora una motivazione in più nelle sciagurate politiche di riarmo, recentemente approvate dall’Unione europea. Va ricordato anche che su pressione dei francesi, possessori della bomba atomica, fu inserito il nucleare, insieme al gas, fra le fonti utili alla transizione energetica. Da allora apparve chiaro che “il New Deal verde” europeo sarebbe andato avanti con pesanti palle al piede, prima di essere liquidato per favorire un insensato riarmo. Fanno sul serio, anche se non appaiono all’altezza del compito, ma comunque è bene sapere che hanno creato condizioni favorevoli per realizzare i loro propositi. Noi, per contrastare il loro progetto, ancora no. Penso che al di là del rapporto tra usi civili e militari, vada aperta una discussione su come il movimento antinuclearista decide di affrontare la sfida lanciata dal governo, ma anche dall’Europa.

Questa casa è un albergo

«Non posso decidere autonomamente la mia vita, ormai. Nemmeno quella affettiva, volendo. Perché se sei single, automaticamente non puoi permetterti una vita tua, non riesci a garantirti nemmeno una minima stabilità economica». Sono le parole di Ludovica, educatrice di 32 anni, con due lauree umanistiche e almeno dieci anni di esperienza nel mondo del lavoro. Oggi ha un contratto a tempo determinato come docente non di ruolo, con uno stipendio di 1.200 euro mensili, in scadenza a giugno, senza certezze sul suo futuro lavorativo. Vive in subaffitto, una condizione che le nega i diritti basilari di chi paga regolarmente una locazione. Senza quasi alcun preavviso e a seguito di una discussione con la sublocatrice, verrà sfrattata a maggio.

Il voto sulla cittadinanza e il casco slacciato

Domenica 8 giugno e lunedì 9 si vota per i referendum ammessi dalla Corte costituzionale lo scorso gennaio. Oltre ai quesiti sul lavoro (lo stop ai licenziamenti illegittimi, le maggiori tutele per le lavoratrici ed i lavoratori delle piccole imprese, la riduzione del lavoro precario e la maggiore sicurezza sul lavoro), per i quali sono state raccolte dalle organizzazioni sindacali 4 milioni di firme, si voterà anche per ridurre il periodo per ottenere la cittadinanza italiana portandolo, dagli attuali dieci, ai cinque anni previsti prima della legge del 1992 n. 91. Si tratta di un quesito per il quale +Europa ha raccolto 637 mila firme e che si concretizza nei seguenti termini: «Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?»

Come ben si vede, il quesito non incide su alcuno degli altri requisiti richiesti dalla normativa per conseguire la cittadinanza italiana e che sono: la conoscenza della lingua italiana, la titolarità di un reddito adeguato, la regolarità tributaria, l’assenza di pendenze di carattere penale e l’assenza di elementi ostativi collegati alla sicurezza della Repubblica.

L’idea di Europa, identità e nazionalismo

L’attacco della presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Manifesto di Ventotene (in Aula il 19 marzo) ha generato un acceso dibattito pubblico sui meriti di quel documento che molti considerano l’atto fondativo del processo di integrazione europea.

È un dibattito salutare, purché si vadano a considerare le ragioni profonde dell’attacco di Meloni. La presidente del Consiglio si è astutamente concentrata su alcuni passaggi riguardo alla proprietà privata e alla democrazia che, decontestualizzati, risultano controversi. Ma il vero bersaglio era il cuore ideale del Manifesto, ovvero l’idea che la condizione per estirpare la guerra in Europa fosse il superamento del nazionalismo – superamento che per gli autori del Manifesto non poteva che avvenire in un’Europa federale. Il nazionalismo è una forma di identità collettiva che raggruppa gli individui sulla base del territorio, la lingua, la storia e così via (ma più si cerca di compilare una lista esauriente di criteri più risulta difficile arrivare a definire cos’è una nazione).

Così come tutte le altre forme di identità collettive, il nazionalismo sovrappone un’identità sociale a quella individuale, però creando una tensione latente fra le due.

Chi ha paura del pensiero critico di un bambino

Le nuove Indicazioni nazionali (NI2025) in tema di istruzione rese pubbliche dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, a marzo hanno immediatamente suscitato reazioni fortemente critiche riguardo alla sua proposizione di un ritorno alla cultura “italiana” come tema centrale nella formazione dello studente. Come Laboratorio scuola e formazione della Fondazione Massimo Fagioli vorremmo presentare la nostra lettura di questo documento proposto dal ministero.
Secondo le NI2025, i bambini e le bambine fin dalle prime classi della scuola primaria devono comprendere il concetto di nazione e le radici della cultura italiana, tornando così a una visione nazionalistica che rinvia a quel “principio unificatore” eliminato dai programmi della scuola elementare con la riforma del 1985. Se fino ad allora il principio unificatore era la religione cattolica, oggi con le nuove Indicazioni è diventato l’identità nazionale e la supremazia culturale dell’Occidente. Il metodo suggerito per insegnare la storia d’Italia e la cultura occidentale è quello della narrazione dei fatti e delle gesta eroiche di qualche figura storica di rilievo. La narrazione è in questo modo funzionale a un uso pedagogico della storia che ha come risvolto didattico il solo sviluppo delle abilità di ascolto e non la costruzione del pensiero critico, che avviene invece attraverso la ricerca, la comparazione e l’analisi delle fonti come proposto nelle Indicazioni nazionali 2012.