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La mina secessionista di Dodik, un attentato alla democrazia nel cuore dei Balcani

Nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska-RS) – l’entità politico-amministrativa a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, da alcune settimane oramai, a governare è il caos. Il 23 aprile alcuni agenti della Sipa (l’Agenzia statale d’investigazione e protezione della Bosnia ed Erzegovina) si sono radunati davanti al palazzo del Centro amministrativo della Repubblica serba, a Sarajevo Est, per arrestare il presidente dell’entità Milorad Dodik. L’operazione è durata solo pochi minuti, fino all’arrivo della polizia della RS, intervenuta per impedire l’arresto.

Più di un mese fa la procura di Bosnia ha emesso un mandato di arresto per il presidente della Repubblica serba Milorad Dodik, per il presidente dell’Assemblea nazionale Nenad Stevandić e per il primo ministro Radovan Višković, in conseguenza del loro reiterato rifiuto di presentarsi agli interrogatori a seguito di un’indagine per attacco all’ordine costituzionale. Pochi giorni prima, il 26 febbraio, Dodik era già stato condannato a un anno di carcere con sei anni di interdizione dalla carica di presidente per aver violato le disposizioni dell’Alto rappresentante della Bosnia ed Erzegovina, il tedesco Christian Schmidt (è l’autorità incaricata di supervisionare l’attuazione degli accordi di pace di Dayton che, nel 1995, posero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina).

Per tutelarsi da un possibile arresto, il presidente della RS si è affrettato a far approvare delle leggi che vietano alle istituzioni giudiziarie, in particolare proprio alla Sipa, di esercitare la loro giurisdizione nell’entità, fiancheggiato dal ministro degli Interni, che aveva anticipato un intervento delle forze di polizia in caso di un tentativo di arresto del presidente. Oltre a questo, l’Assemblea nazionale ha approvato la bozza di una nuova costituzione, incamminandosi verso l’indipendenza dalla Bosnia; le riforme prevedono anche la possibilità di formare delle confederazioni con altri paesi e la creazione di un esercito indipendente.

In aula, durante la seduta dell’Assemblea nazionale, ai deputati dell’opposizione non sono state risparmiate nemmeno le minacce di morte. Il deputato Nebojša Vukanović ha denunciato di essere stato definito un Ustascia e un Poturica, termine con cui vengono indicati i traditori del popolo serbo, e con cui, durante la dominazione ottomana, venivano chiamati i convertiti all’Islam: poco dopo, qualcuno si è recato sotto casa sua, a Trebinje, e gli ha incendiato l’auto.

Milorad Dodik ha minacciato più volte una secessione della Republika Srpska dalla Bosnia, realizzando politiche spregiudicate, mirando anche alla riabilitazione dei criminali di guerra del conflitto degli anni Novanta (1992-1995). Il presidente della RS ha ufficializzato questa crisi l’anno scorso, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che proclama l’11 luglio “Giornata di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica.” In quel periodo, Dodik ha rilasciato diverse interviste alla stampa internazionale, annunciando la tanto agognata secessione e usando la risoluzione come un pretesto.

Eppure, è in patria che Dodik ha dato il peggio di sé, passando l’estate a sfidare le leggi dello Stato. Non solo ha negato il genocidio di Srebrenica, ma in una conferenza stampa ha annunciato di essere in possesso di una lista con 87 nomi di persone vive spacciate per vittime del genocidio: la lista, resa pubblica dall’agenzia Srna, era corredata dei loro dati anagrafici e dei loro indirizzi di residenza.

A questo episodio è seguito l’annuncio dell’inserimento nei programmi della scuola primaria di dieci ore di lezione sulla guerra patriottica degli anni Novanta, per insegnare ai cittadini e alle cittadine di domani le imprese degli eroi della Grande Serbia: gli eroi sono Ratko Mladić e Radovan Karadžić, condannati dalla Corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Glorificare i criminali di guerra, negare il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità accertati con sentenze definitive è un reato in Bosnia ed Erzegovina. Questa legge, voluta nel 2021 dall’Alto rappresentante di allora, l’austriaco Valentin Inzko, non solo si è dimostrata del tutto inefficace, ma è stata la causa di una gravissima crisi istituzionale.

Dodik istiga il risentimento dei serbi contro le istituzioni nazionali e internazionali, inasprendo le tensioni interne, per proporsi come l’unico statista capace di liberare la RS dal controllo di Sarajevo e di realizzare il sogno di un’annessione alla Serbia. Il presidente della RS spiega questa crisi come l’ennesimo tentativo del governo bosniaco di vessare i serbi, ma in molti sono certi che tutto questo serva solo a ritardare la fine della sua carriera politica. La pensa così anche Milan Miličević, il presidente del Partito Democratico serbo (Sds): Queste sono le ultime scosse di un regime antidemocratico che ha perso ogni senso della realtà e cerca disperatamente di conservare il potere con la forza».

Dodik ha reagito alle critiche in una conferenza stampa, spiegando che la sua non è una battaglia personale, ma una lotta per la sopravvivenza della Repubblica serba; ha proseguito assicurando che non lascerà mai il paese e continuerà a svolgere con coraggio il suo lavoro di presidente nel pieno delle sue funzioni: “se qualcuno pensa che siamo dei codardi, si sbaglia di grosso. Noi non siamo dei convertiti come quelli a Sarajevo e qualcuno a Banja Luka.” Una versione scontata per un politico che in passato si è paragonato addirittura a Slobodan Milošević, perseguitato – a suo dire – perché come lui difendeva i serbi e la Serbia.

Dopo aver detto di considerare l’emissione dei mandati di arresto «un’invettiva contro la RS», Dodik ha definito il lavoro della procura «un progetto musulmano». Pochi giorni dopo, ha intimato ai magistrati e ai procuratori delle istituzioni giudiziarie statali di dimettersi per trasferirsi nelle istituzioni dell’entità, ma nessuno ha ceduto alle sue minacce: ora ha annunciato la volontà di sequestrare tutte le loro proprietà. Il presidente della RS ha comunicato di aver già ordinato un elenco dei dipendenti del Consiglio superiore della magistratura e della procura della Bosnia ed Erzegovina: vittime di una situazione paradossale, due ufficiali della Sipa hanno presentato le dimissioni, probabilmente cedendo alle intimidazioni.

A Batajnica, non lontano da Belgrado, Dodik ha partecipato da ricercato alle commemorazioni per l’anniversario del bombardamento Nato del 1999, eludendo i controlli della polizia di frontiera, poi è volato in Israele insieme a Stevandić, mostrandosi immune a un possibile arresto: il tribunale statale si è trovato costretto a chiedere all’Interpol di emettere un mandato di cattura internazionale per entrambi. L’Interpol ha respinto la richiesta e, il 30 aprile, anche il ricorso.

La situazione ha subito un ulteriore aggravamento negli stessi giorni, quando la ministra degli Esteri dell’Austria Beate Meinl-Reisinger ha incontrato a Sarajevo la collega tedesca Anna Luhrmann, ministra di Stato per l’Europa e il clima. Dopo un confronto sulla grave situazione nel paese, le ministre hanno annunciato l’intenzione di vietare l’ingresso in Austria e in Germania ai politici della RS responsabili di questa situazione. Luhrmann si è poi recata a Banja Luka per incontrare i deputati dell’opposizione, scatenando la reazione rabbiosa di Dodik, che l’ha dichiarata persona non grata, intimandole di lasciare subito la Repubblica serba. Il 24 aprile, Schmidt ha annunciato la revoca dei finanziamenti al partito di Dodik, l’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (Snsd), e a quello di Stevandić, la Repubblica Serba Unita (Us).

Nelle stesse ore, a Sarajevo Est, il presidente della RS ha ribadito la sua versione dei fatti: è stato il «fascista Schmidt» a violare l’ordine costituzionale e la responsabilità è tutta dei bosniaci. Di conseguenza, Dodik ha chiesto l’estradizione dell’Alto rappresentate, annunciando che, se dovesse mettere piede nei territori della RS, verrebbe arrestato. Infine, ha ribadito che non si arrenderà mai e, laconico, ha avvisato: «Nessun Paese sopravvive a tali interventi illegali sulla costituzione e sono convinto che nemmeno la Bosnia ed Erzegovina sopravviverà».

Foto WP

Un Porcellum firmato Giorgia

Le regole del gioco, per Meloni, sono solo un altro strumento di comando. Ora tocca alla legge elettorale. Non bastano i pieni poteri del premierato: serve anche sterilizzare gli alleati, blindare la vittoria, riscrivere le urne per riscrivere il Parlamento. Il modello? Un proporzionale con premio di maggioranza al 55% per chi supera il 40% dei voti. Una soglia comoda per chi parte da un 47,4% virtuale e può così svuotare di senso la concorrenza. Altro che governabilità: qui si tratta di egemonia matematica.

Dentro c’è tutto: il nome del premier sulla scheda, i capilista bloccati, le preferenze solo dove non disturbano. Una riedizione del Porcellum, con lo stesso odore di incostituzionalità, cucito su misura per due Camere diverse, in una Repubblica che resiste a essere trasformata in monarchia elettiva. Il Senato, ricorda la Costituzione, si elegge su base regionale. Ma nella bozza non c’è traccia di premi regionali. Rischio: due maggioranze diverse e caos garantito.

Le opposizioni si compattano. Pd e M5S alzano le barricate, evocano le preferenze, persino le primarie. Conte fiuta l’occasione, Schlein il rischio. Ma la vera sfida non è solo opporsi a una legge. È opporsi all’idea che la democrazia si pieghi a chi comanda. Che il consenso autorizzi l’abuso. Che la riforma sia un’arma. Il Rosatellum era una trappola: ma questo, se passa, sarà un colpo di Stato a norma di legge. E a volto scoperto.

Meloni, incapace di vincere col premierato, tenta il colpo con l’urna truccata. Ma la storia insegna: chi gioca con la legge elettorale per fregare gli altri finisce fregato.

Buon mercoledì. 

#UltimoGiornodiGaza Se il genocidio non si vede, è perché guardiamo altrove

Anni fa si vedeva un adesivo attaccato sulle auto e sulle biciclette che diceva: “Non sei un mezzo al traffico, tu sei il traffico”. Funzionava perché era una presa di coscienza mentre si stava in coda. Non siamo in mezzo al silenzio che concima il genocidio di Gaza: siamo parte del silenzio su Gaza.

Se qualcuno alza la voce, si ritrova in guerra. Abbiamo passato mesi a piluccare il significato della parola genocidio, mentre a Gaza l’esercito di Israele ammazzava cinquantamila persone. Stiamo passando gli ultimi giorni a discutere della Taverna Santa Chiara di Napoli come se il problema nazionale fosse il pasto indigesto per le opinioni legittime dell’oste, e non la fame che ammorba la popolazione della Striscia.
Il 9 maggio si celebra la Giornata dell’Europa e della sua unificazione. Un appello chiede per quel giorno una mobilitazione, perché il 9 maggio non sia l’ultimo giorno di Gaza: si invita a parlarne ovunque, su siti, canali video, social, nelle strade e nelle piazze, sempre con gli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday.

“Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani. Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza”, si legge.
Con una precisazione importante: aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare agli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday. Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per chiamare le cose con il loro nome.
Ora è il momento di costruire una rete di senza-potere determinati a prendere la parola. E il 9 maggio è la prima tappa di una strada assieme. Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora.

Buon martedì.

Trump, l’uomo da 24 ore

Doveva bastare un giorno. Bastavano 24 ore, aveva detto, per far cessare la guerra in Ucraina. Ma oggi, Donald Trump parla di “odio troppo profondo”, “pace forse impossibile”, “frustrazione” e persino di uscita dal negoziato. Il messia del compromesso lampo è diventato il profeta del ritiro strategico. È il fallimento annunciato di un’impostura diplomatica.

Secondo Charles Kupchan, ex consigliere di Obama, Trump sta solo preparando l’opinione pubblica al flop. Aveva promesso la pace come si promette una svendita, ma ha scoperto che i tavoli della diplomazia non funzionano come i reality. Pensava di telefonare a Putin, blandire Zelensky, firmare e andare in conferenza stampa. Ha trovato invece una guerra vera, con morti veri, e un Cremlino che non ha nessuna intenzione di arretrare.

Nel frattempo, a Mosca i missili sfilano per la parata del 9 maggio e Putin rifiuta anche un cessate il fuoco simbolico. Kiev è sotto attacco, mentre Washington tenta di rattoppare l’illusione con un nuovo sistema Patriot riciclato da Israele. Il quadro è chiaro: la guerra non si ferma con gli slogan elettorali.

Trump ha sbagliato approccio, tempi e alleanze. Ha concesso troppo prima ancora di cominciare: Crimea, Nato, riconoscimenti a buon mercato. E ora cerca un’uscita di scena che non puzzi di disfatta. Ma il sipario è già calato. Di quelle 24 ore resta solo il silenzio imbarazzato di chi si era illuso. O peggio, aveva creduto.

Buon lunedì. 

L’arte come fondamento del vivere comune. A colloquio con Michelangelo Pistoletto

Fino al 7 maggio la Casa dell’architettura di Roma ospita la seconda edizione di Rebirth Forum, organizzato da IPER festival e Museo delle periferie in collaborazione con la Fondazione Pistoletto Cittadellarte. Pubblichiamo la conversazione tra Michelangelo Pistoletto e Giorgio de Finis raccolta per la preparazione del Forum

Michelangelo puoi raccontarci come nasce Cittadellarte? Come sai, a me interessa molto questo rapporto tra arte e città, e la possibilità che ha l’arte – un certo modo di intendere l’arte – di “fare città”

Io ho costruito questa cittadella come opera d’arte. L’opera d’arte non è soltanto un oggetto da vendere, un oggetto da attaccare al muro, da sistemare al centro di una piazza, ma anche una situazione attiva, coinvolgente, partecipata, che per me è diventata importante a partire dagli anni Sessanta con l’uscita dallo studio dell’artista. Realizzai, all’epoca, un manifesto di apertura dello studio a cui hanno aderito artisti appartenenti a tutte le diverse forme espressive. Lo studio è un luogo convenzionale del sistema arte, basato poi su una estetica che spesso si traduce in mancanza di etica, in puro formalismo. Alla ricerca di un’etica, oltre che di un’estetica, io sono uscito in strada. È nato così lo zoo.

Lo zoo cos’è?

È l’uscita dalla gabbia. Lo zoo è l’insieme dei diversi animali che per me incarnano le diverse forme di arte. Ogni artista, al pari di un piccolo animale, doveva uscire dalla gabbia delle istituzioni per andare partecipare alla creazione di una nuova società, per scoprire un nuovo mondo. L’arte è creazione, ma anche la società è creazione. L’artista deve essere in prima persona responsabile di questa creazione che non è solo individuale, ma si estende al noi, al fare insieme, al vivere insieme, mettendo insieme la responsabilità alla capacità inventiva, proiettiva. È nato così il bisogno di connettere tra loro non solo settori delle diverse produzioni artistiche, ma tutti i settori della società: la politica, l’economia, l’educazione, il tema dell’energia, la produzione, tutto è parte di questo progetto che mette la creazione al centro delle forze che producono il corpo sociale per farne un’attività creativa comune.

Ho saputo che stai lavorando a un progetto che si chiama lo Stato dell’arte. Quindi dalla città siamo passati allo Stato, ci vuoi dire qualcosa su questa evoluzione? Se credo nella possibilità di creare delle zone “temporaneamente autonome”, abitando le crepe che inevitabilmente si aprono nel sistema, sulla possibilità di ampliare l’impresa investendo porzioni sempre più ampie della società nutro qualche dubbio…

Lo Stato dell’arte vuol dire due cose. Innanzitutto considerare quello che si è fatto, considerare la situazione attuale. Qual è lo stato dell’arte? È un’espressione del linguaggio comune. La situazione attuale è lo stato dell’arte. Ma non solo, ampliando l’idea della città dell’arte, lo Stato diventa anche un modo di organizzarsi praticamente per capire quale stato nasce dallo stato delle cose. Quindi lo Stato dell’arte è un modo di considerare la società in maniera tale per cui l’arte può intervenire in tutti gli ambiti, come abbiamo sperimentato in una scala più contenuta a Cittadellarte, per connetterli e creare uno stato di cose, una connessione tale che l’arte possa essere organizzazione sociale, organizzazione pratica, oltre che ideale. Mi piace pensare che la creazione artistica possa essere alla base di tutte le dinamiche che la città produce, di tutti gli effetti che la società produce su se stessa. Questa è la cosa straordinaria, l’arte che produce se stessa.

Il tuo Terzo Paradiso è un inno alla relazione…

Nel 2002 ho realizzato una linea che produce tre cerchi consecutivi. Avevo messo in un cerchio la natura, nel cerchio opposto l’artificio, al centro l’arte che deve combinare natura e artificio, e creare il terzo stadio che è il Terzo Paradiso. Paradiso nel senso etimologico della parola persiana che vuole dire giardino protetto. Questo terzo paradiso oggi non è più quello di quando io ho cominciato teorizzando la “trinamica” del Terzo Paradiso, perché da una parte la natura ormai è diventata sempre più artificiale, sempre più antropizzata, e quindi adesso abbiamo ai due estremi una Terra e un Cielo che sono antropizzazione da ambo le parti. Ma al centro c’è sempre l’arte che deve creare nuovo equilibrio e nuova armonia. Cos’è il contrario di armonia e equilibrio? È guerra. Quindi l’arte si assume anche la responsabilità di una pace preventiva, la pace che deve essere armonia, il buon senso e il buon vivere.

Mi interessa molto come tu risolvi alcune contraddizioni apparenti, per esempio l’idea che il fare, quindi la pratica, possa stare insieme con l’utopia, con l’ideale. Oppure il valore della singolarità, che l’artista incarna, e al tempo stesso il sapersi fare pluralità, entrare in comunicazione con gli altri attraverso il valore della differenza. Credo che quando tu immagini la pace, la immagini nel rispetto di tutte le differenze e di tutte le singolarità.

La pace è un fenomeno artificiale. La pace non esiste in natura. La natura è organizzata in maniera tale per cui ogni elemento della natura si nutre di altri elementi della natura stessa. La natura mangia se stessa, si nutre di se stessa. Il leone mangia l’agnello, l’aquila mangia l’uccellino. Abbiamo spesso scelto come simbolo il leone, l’aquila, cioè una rappresentazione del potere degli uni sugli altri, una politica culturale che rende chi non è parte di questo potere alla stregua di un animale di cui nutrirsi. Anche se tu non le mangi le persone, quando le uccidi facendo la guerra (e facendo la guerra assumi potere), è come se cannibalisticamente le stessi mangiando per il tuo potere. Questo è il sistema cannibalistico del potere mondiale che fa sì che ci siano delle aquile e dei leoni che mangiano tutti quegli altri individui umani che non sono l’incarnazione del potere. E quindi la guerra è genocida per natura, non è che ci siano le guerre genocide e quelle no, perché come tu uccidi un essere umano per poter nutrire la tua forza di comando e di possesso, tu stai compiendo un genocidio, tu uccidi gli esseri umani per questo possesso. Il genocidio è quotidiano, ovunque, basta con la guerra!

Tu sei candidato con il tuo progetto della Pace preventiva al Nobel per la Pace…

Io sono artista e voglio creare, voglio che il mondo sappia creare. E allora artificialmente tu fai sì che non ci sia più una natura che mangia se stessa, ma un artificio, una creazione umana, che non mangia più se stessa. Questa è la vera trasformazione dell’essere umano che ha sempre pensato di staccarsi dalla natura. Adesso l’autonomia sta nell’eliminazione della guerra, nel senso dell’eliminazione del nutrimento dell’uomo sull’uomo.

A proposito del tema del potere, in qualche modo il Forum, questa assunzione di responsabilità e anche di presa di parola nelle decisioni della città, dei territori, delle comunità, che il Forum incarna, è un modo per recuperare un po’ di potere rispetto ai grandi poteri che ci impediscono ormai di dire cosa pensiamo se non attraverso il rito del voto che sempre più appare svuotato di significato. In che modo il Forum restituisce senso e opportunità alla politica?

MP: Dici bene: il voto che si svuota con l’astensionismo crescente si “svota”. A parte la battuta, l’idea della democrazia è basilare, però non si è mai attuata nella sua piena possibilità. Il popolo non può avere potere perché è fatto di tantissime persone le quali individualmente non possono avere potere. A mio avviso bisogna ripartire dal concetto di demopratica, demopraxia, mettendo insieme demos e praxis. Praxis vuol dire pratica. Al posto della parola potere metti pratica. Come funziona la demopratica? Riconoscendo che ciascuno è parte di una o più organizzazioni, organizzazioni piccole, medie, private o pubbliche, che hanno ciascuna un piccolo governo proprio. È a questa scala, quella delle piccole e medie organizzazioni, che si può provare a discutere e risolvere i problemi. Al Forum siederanno 100 persone che rappresentano altrettante organizzazioni e questo è un modo per sperimentare e rilanciare la partecipazione e trovare soluzioni comuni, che ad un livello più alto sono spesso legati all’esercizio del potere e all’interesse economico.

La cosa che trovo fascinante, e che condivido pienamente, è questa sorta di auto-chiamata, auto-riconoscimento, l’idea che appunto l’arte possa autonomamente, senza aspettare incarichi, investiture o autorizzazioni, assumersi un compito che definirei in senso etimologico “politico”.

MP: L’arte non va più intesa come privilegio o come capacità del singolo. La capacità singola dell’artista è quella di saper sviluppare al massimo la propria creatività, la propria creazione. Ma oltre alla massima capacità individuale adesso l’arte, per avere pregio artistico, deve interrogarsi di come mettere insieme due capacità, non più una sola.

Qui torniamo alla tua formula 1 + 1 = 3 che tu dici è la formula dell’arte, ma anche è la formula della relazione, il prodotto dell’incontro. Come il dono, lo scambio di braccialetti e collanine dei Trobriandesi studiati da Malinowski, non è una transazione a somma zero, perché produce una relazione sociale…

Il terzo elemento è l’elemento che non esisteva, esiste solo per la possibilità dei due elementi che si sono uniti. La creazione è sempre il risultato dell’incontro di due elementi.

Ma adesso ti faccio io una domanda, la stessa che hanno fatto a me a volte. Mi hanno chiesto: sei felice? E io chiedo a te, sei felice tu che vuoi raggiungere un obiettivo straordinario che è quello di far sì che l’utopia di arrivare alla Luna (il riferimento è al Metropoliz e al suo viaggio sulla Luna, n.d.c.) come capacità pratica di fare qualche cosa che è apparentemente inaudito – e che unisce le nostre prospettive e i nostri sforzi – ti voglio chiedere: tu sei felice?

Il Rebirth Forum Roma è organizzato da IPER festival e Museo delle periferie in collaborazione con la Fondazione Pistoletto Cittadellarte, l’Ordine degli architetti di Roma e il Festival dell’architettura di Roma: dieci tavoli tematici, cento invitati rappresentanti di università, amministrazioni, associazioni, studi professionali e musei chiamati a discutere, in cinque giornate aperte al pubblico, sul futuro di Roma. Dispositivo artistico e demopratico, il Forum si concluderà con la stesura di un manifesto e un elenco di obiettivi condivisi da realizzare con l’apporto di tutti i cantieri.
Tra gli ospiti italiani e internazionali attesi al Rebirth Forum Roma, Francesco Rutelli che il 5 maggio dialoga con Giorgio de Finis e Orazio Carpenzano sul tema Città Vince, Città perde. Michelangelo Pistoletto è ospite d’onore della giornata del 6 maggio, in dialogo con Giorgio de Finis su Lo Stato dell’Arte. Segnaliamo anche che è da poco uscito il nuovo libro intervista di Michelangelo Pistoletto con Antonio Spadaro per i tipi di Marsilio Specchi, dal titolo Spiritualità.

L’evento si tiene nell’ambito dell’Iper Festival delle Periferie che a Roma prosegue fino al 28 maggio. Moltissimi gli spazi coinvolti per il festival, che ha la direzione artistica di Giorgio de Finis, e che quest’anno, per la sua quarta edizione, si presenta in forma diffusa.Tema scelto come filo conduttore è Roma e le sue trasformazioni, quelle che riguardano il centro come quelle che interessano la città ai margini. Il programma include un lungo programma di incontri, talk, convegni, camminate, proiezioni, lecture e mostre che coinvolgono molteplici luoghi della città, tra cui: Palazzo Esposizioni Roma, il Macro, la Casa dell’Architettura, la Casa del Cinema, il Teatro Ateneo, il Teatro Tor Bella Monaca, il Teatro Biblioteca Quarticciolo, la Società Geografica Italiana (Villa Celimontana), il Museo delle Civiltà, il MAAM, Piazza Tevere, Tor Marancia, il Quadraro.

 

La Romania al voto tra venti di ultradestra e speranze democratiche

Elena Lasconi

Un momento cruciale si avvicina per la Romania. Dopo l’annullamento del precedente scrutinio per le elezioni presidenziali da parte della Corte costituzionale – travolto da accuse su finanziamenti elettorali non dichiarati e interferenze russe a favore del vincitore Călin Georgescu – il Paese si prepara a tornare alle urne. Si voterà domenica 4 maggio. Mentre l’eventuale ballottaggio, che si terrebbe se nessun candidato superasse il 50% di preferenze al primo turno, è fissato per il 18 maggio.
Nel Paese la fiducia nelle istituzioni democratiche è a livelli minimi, in un contesto geopolitico infuocato dalla guerra in Ucraina – che con la Romania condivide quasi 650 km di confine – e da tensioni interne alimentate da crisi economica, scandali politici e profonde divisioni sociali. Il popolo romeno è chiamato ad esprimere un voto che peserà non solo sulla stabilità interna, ma anche sull’orientamento del Paese rispetto all’Unione europea.

Sono undici i candidati ammessi. Tra loro, secondo la più recente analisi dell’istituto rumeno specializzato in sondaggi Curs, sarebbero cinque i candidati che raccoglierebbero i maggiori consensi, con un possibile testa a testa previsto fra George Simion e Crin Antonescu.
Simion, trentottenne dagli slogan incendiari, è dato in prima posizione al 26%. Guida l’Alleanza per l’Unione dei Romeni (Aur), compagine ultranazionalista ed euroscettica nata nel 2019 e affiliata in Europa al Partito dei Conservatori e riformisti, presieduto fino a pochi mesi fa da Giorgia Meloni. Sovranista “duro e puro”, alle precedenti elezioni poi annullate si era classificato quarto. Dopo l’esclusione del filorusso Georgescu dalla competizione elettorale – stabilita a marzo dalla Commissione elettorale e poi confermata dalla Corte costituzionale – Simion si è presentato come il suo ideale “sostituto”, abbracciandone gli slogan su economia, diritti e politica internazionale. Sostenuto anche dal Partito dei giovani, forza di estrema destra nata da una scissione con l’Aur, Simion contesta il sostegno all’Ucraina, sogna una Romania “alla Trump” e propone una riscrittura della Costituzione per consacrare la “famiglia tradizionale”.

Durante la campagna elettorale Simion – che vanta un passato da hooligan nella tifoseria di estrema destra Honor et Patria – è stato accusato di aver infranto le leggi rumene sulla privacy per aver spedito a casa dei potenziali elettori, soprattutto negli ambienti rurali, lettere personalizzate e libri religiosi.

Crin Antonescu, potenziale contender dato dai sondaggisti al 23%, si presenta come il candidato dell’equilibrio: europeista e filoamericano, ma contrario al coinvolgimento militare in Ucraina. Ex volto noto della politica rumena – ha ricoperto in passato le cariche di ministro dello Sport e di presidente del Senato – si presenta alla guida di una coalizione dei tre partiti che attualmente compongono la maggioranza parlamentare rumena: il Partito socialdemocratico, il Partito liberale (di cui è stato presidente) e l’Unione democratica magiari di Romania. Critico verso il sistema giudiziario che, a suo dire, avrebbe distrutto carriere politiche, Antonescu ha ribadito l’importanza di una “politica trasparente” e promesso di scovare gli agenti segreti “infiltrati nella stampa e nel Parlamento”.

Anche lui durante la campagna elettorale ha parlato di difesa della “famiglia tradizionale”, in linea con le posizioni dell’elettorato conservatore.
Meno probabile, secondo le indicazioni dell’istituto Curs, la vittoria degli altri tre candidati che emergono dal sondaggio: Victor Ponta, Nicușor Dan ed Elena Lasconi.
Nonostante sarebbe arrivata al ballottaggio contro Georgescu alle precedenti elezioni poi annullate, raccogliendo oltre il 19% delle preferenze, Elena Lasconi è adesso data intorno all’8%. Giornalista e sindaca di Câmpulung (cittadina della regione storica della Muntenia, nda) nota per il suo carattere schietto e diretto, leader dei liberali dell’Unione Salvate la Romania (Usr) ma attualmente in rotta col partito, Lasconi ha condotto la campagna elettorale spingendo sui temi della lotta alla corruzione e della promozione dei diritti civili. A favore del sostegno all’Ucraina e del rafforzamento della Nato, chiede di ridurre l’influenza dei servizi segreti nella vita politica. Sul tema dei diritti Lgbt, si distingue come la più progressista tra i principali candidati, sostenendo apertamente le unioni civili.

Possono invece contare su qualche chance di vittoria in più i candidati indipendenti Victor Ponta e Nicușor Dan. Ponta, ex enfant prodige della politica, a 37 anni era già il leader dei socialdemocratici e a 40 anni è diventato il più giovante primo ministro della storia del Paese. Rientra in campo senza partiti alle spalle dopo essersi autosospeso dai Psd perché contrario alla scelta di sostenere Antonescu alle presidenziali. Pragmatico sul fronte della politica estera, dice “no” ai soldati romeni in Ucraina e “sì” a un’alleanza stretta con gli Usa. In campagna elettorale ha parlato della necessità di un’economia più trasparente e protezionista, e di meno giochi nei tribunali e meno dossier politici. Conservatore sui diritti civili, Ponta cerca di riconquistare la fiducia di un elettorato che però non dimentica il suo passato da Primo ministro, costretto a dimettersi dopo la strage nella discoteca “Colectiv”, l’incendio avvenuto il 30 ottobre 2015 in cui persero la vita 64 persone e 146 rimasero ferite. Una tragedia che portò a galla la corruzione dilagante e la negligenza delle autorità e che fece scendere in piazza la società civile per rivendicare maggiori diritti e tutele democratiche.

Il secondo candidato indipendente, Nicușor Dan, architetto e matematico di formazione, attivista sin dai banchi di scuola e attuale sindaco di Bucarest, è dato dai sondaggi a quota 19%. Promuove un’agenda pro-Ue e pro-Nato. Forte sostenitore del sostegno all’Ucraina, ha posto il tema di una magistratura che dovrebbe, a suo dire, essere più incisiva contro la grande corruzione. Sui servizi segreti propone riforme profonde e la nomina di leader provenienti dalla società civile. Pur sostenendo la “famiglia tradizionale”, si è detto “aperto” alle unioni civili per le coppie omosessuali, affermando che sia un tema su cui deve esprimersi la società e non la politica. Dan, peraltro, può godere del traino dei liberali dell’Unione salvate la Romania, dopo che il partito ha deciso di scaricare la sua leader Lasconi.

In un clima appesantito da scandali e sospetti, i romeni saranno dunque chiamati non solo a scegliere un o una presidente, ma a decidere quale visione di futuro abbracciare. La sfida è aperta e la posta in gioco alta. Da un lato, la tentazione sovranista e isolazionista; dall’altro, la speranza di una maggior integrazione con l’Europa e di una tenuta del Paese sul fronte della democrazia interna.

L’autrice: Lia Trofin è giornalista

In foto la candidata Elena Lasconi, fonte wikimedia

Senza sicurezza non è lavoro. Votiamo sì al Referendum

Si celebra il Primo Maggio, festa del Lavoro, dei diritti conquistati con lotte dure, della dignità di chi ogni giorno costruisce questo Paese. Ma non possiamo farlo senza guardare in faccia, con onestà, la realtà che ci circonda: una realtà ancora troppo segnata da precarietà, sfruttamento, insicurezza, malattie professionali e morte sul lavoro.

La Corte suprema di Cassazione, aprendo l’anno giudiziario 2025, ci ha consegnato un quadro chiaro, preciso, drammatico.
Non ha usato frasi di comodo, non ha parlato genericamente di “cultura della sicurezza”. Ha indicato responsabilità sistemiche. Ha detto che i mille morti sul lavoro nel 2024, le oltre 543.000 denunce di infortunio, e le più di 81.000 patologie professionali non sono numeri, ma conseguenze dirette di un modello che mette il profitto davanti alla vita.

La Corte ha denunciato senza mezzi termini che le logiche di flessibilità esasperata, la precarietà imposta come regola, la totale assenza di tutela nei rapporti irregolari stanno trasformando il lavoro in un terreno minato.
Un lavoro che non protegge, non riconosce, non garantisce: questo è un lavoro che uccide.
Uccide fisicamente, come accaduto il 28 aprile a Carrara, dove nel Giorno mondiale della sicurezza sul savoro un uomo di 59 anni è morto in cava.
Colpisce anche nei giorni seguenti, come a Forte dei Marmi, dove due operai sono rimasti feriti, uno gravemente, nel crollo di un solaio.
Uccide nel silenzio delle statistiche, dove restano invisibili migliaia di infortuni sommersi, mai denunciati per paura, per ricatto, per vergogna.
E uccide anche lentamente, giorno dopo giorno, attraverso le malattie professionali.
Il 2024 ha registrato un aumento del 22% delle patologie correlate al lavoro: numeri in crescita che spesso passano sotto traccia, perché meno eclatanti di un crollo, di una caduta, di un incidente sotto gli occhi di tutti.
Ma guardate che invalidità o morti per esposizione a sostanze nocive, per sforzi ripetuti, per condizioni ambientali insalubri o per troppo stress lavoro correlato, ce ne sono tante: nel 2024 sono state 81000.
Sono invalidità e morti che non fanno rumore, che non aprono telegiornali, ma che segnano profondamente la vita di chi lavora e delle loro famiglie.
Anche queste sono vittime del profitto che viene prima della salute.
Anche queste sono ferite che ci interrogano su cosa significhi davvero tutelare la dignità delle persone nei luoghi di lavoro.

E davanti a tutto questo, ci chiediamo: dov’è lo Stato? Dov’è la prevenzione?
La Corte ci dice che anche il sistema pubblico è inadeguato. Mancano coordinamento tra gli organi ispettivi, interoperabilità tra le banche dati, un’effettiva registrazione del Portale Nazionale del Lavoro Sommerso.
Mancano ispettori in molte regioni. E dove ci sono, spesso sono costretti ad annunciare in anticipo le ispezioni. Il risultato? I controlli diventano inutili, le violazioni si mimetizzano, e i lavoratori restano soli.

E dentro questa solitudine si consuma un’altra grande ingiustizia: la marginalizzazione degli RLS, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.

Gli RLS sono figure fondamentali. Sono la voce dei lavoratori nei luoghi dove si combatte quotidianamente per la salute, la dignità, la vita.
Eppure, troppo spesso vengono ignorati, isolati, svuotati di potere.
Quando ci sono ispezioni, non vengono quasi mai coinvolti. Quando ci sono tavoli istituzionali, sono gli ultimi a essere ascoltati… se va bene.
Nelle giornate dedicate alla sicurezza, parlano dopo che i politici hanno già fatto il loro giro di parole e magari se ne sono andati.
Ma noi sappiamo bene che la sicurezza non si costruisce nei convegni, ma nei cantieri, nelle fabbriche, nei magazzini, nei campi. E lì, a fianco dei lavoratori, ci sono gli RLS.

Sono loro a segnalare i rischi. Sono loro a battersi per le visite mediche, per la formazione, per i dispositivi di protezione, per il rispetto delle norme.
Sono loro, spesso in solitudine, a cercare di prevenire quelle tragedie che riempiono i giornali solo quando è troppo tardi.

Per questo, oggi da Livorno, vogliamo dire con forza: gli RLS vanno rispettati, ascoltati, sostenuti. Devono essere parte attiva di ogni controllo, di ogni valutazione, di ogni azione ispettiva. Devono avere risorse, formazione, protezione.
Non possono più essere trattati come intralci, come comparse, come figuranti di un sistema che troppo spesso preferisce guardare altrove.

E vogliamo dire di più: la sicurezza deve tornare a essere una priorità vera, non solo inchiostro su un volantino quando capitano le disgrazie o una bandiera da sventolare a maggio. Servono:
• controlli veri, senza preavviso;
• sanzioni efficaci per chi non rispetta le diffide;
• investimenti in ispettori, medicina del lavoro e prevenzione;
• una lotta vera contro il lavoro irregolare, che uccide e avvelena il mercato;
• il pieno riconoscimento del ruolo degli RLS come perno delle strategie di prevenzione.

Dunque oggi si celebra il Primo Maggio non solo per ricordare chi non c’è più, ma per pretendere un cambiamento profondo.
Perché un Paese che accetta mille morti sul lavoro all’anno, è un Paese malato.
Perché un Paese che emargina chi si batte per la sicurezza, è un Paese ingiusto.
E perché la sicurezza non è un costo, non è una concessione: è un diritto. È dignità. È vita.

In questo contesto, è fondamentale ricordare l’importanza dei referendum promossi dalla Ccil, che si terranno l’8 e 9 giugno 2025. Questi cinque quesiti referendari mirano a restituire dignità e sicurezza al lavoro, affrontando temi cruciali come:
• il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo;
• l’eliminazione del tetto massimo all’indennizzo per i lavoratori delle piccole imprese;
• la limitazione dell’abuso dei contratti a termine;
• il rafforzamento della responsabilità delle imprese negli appalti in caso di infortuni;
• la riduzione da 10 a 5 anni del periodo minimo di residenza per ottenere la cittadinanza italiana.

Questi referendum rappresentano un’opportunità concreta per tutti noi di incidere sulle politiche del lavoro e della cittadinanza, per costruire un futuro più giusto e sicuro. Partecipare al voto è un atto di responsabilità e di impegno civile.

Da Livorno, città di lavoro, di mare, di battaglie sociali, diciamo:
non c’è Primo Maggio senza giustizia sociale.
Non c’è lavoro vero senza sicurezza.
Non c’è libertà se si muore lavorando.

Buon Primo Maggio a tutte e tutti. Continuiamo a lottare, insieme.

L’autore: Stefano Santini è il segretario generale della Filctem-Cgil per la provincia di Livorno

Quell’imprevisto valore affettivo del pesce

Sara (Ketty Di Porto) e Marco (Enzo Saponara) si incontrano ogni mercoledì, alla stessa ora, al solito bar, condividendo gli alti e bassi del loro personale percorso di psicoterapia con autentica schiettezza e delicata ironia. Una donna e un uomo che rappresentano in scena, attraverso la propria storia, la possibilità di un reale cambiamento interiore degli esseri umani, che i protagonisti si ritrovano a ricercare e ad affrontare con coraggio e tenacia.

Selezionato e presentato in forma di studio, nel 2023, alla sedicesima edizione di Ebraica, il festival internazionale di cultura, Il valore affettivo del pesce debutta il 24 e 25 maggio al teatro Basilica di Roma. Scritto da Ketty Di Porto, psicoterapeuta, attrice e regista (dopo lo studio di recitazione in Italia e all’estero, ha lavorato, negli anni, anche con Fausto Paravidino e Francesco Suriano) lo spettacolo è frutto della collaborazione con il regista Daniele Aureli, che ne cura la messinscena affidandosi alla costruzione di un impianto scenico capace di far affiorare, tra le pieghe del testo, l’intimo rimando all’universalità dei contenuti: «Attraverso il lungo e stratificato lavoro di adattamento del testo, insieme a Ketty Di Porto abbiamo indagato e cercato di guardare a fondo il cuore pulsante del racconto, così da far emergere maggiormente le sue risonanze col presente», sottolinea Aureli. A tratti, sulla scena, aleggia il soffio di un vento leggero, che pare fondersi con i versi poetici di Patrizia Cavalli e trasformarsi, continua Aureli «nel respiro di giorni nuovi, laddove il personale percorso di ricerca diventa concreta e auspicabile possibilità per ‘curare’ le ferite della contemporaneità».

Democrazia, diritti e resistenza: Ani DiFranco suona la sveglia agli Usa

La democrazia è in pericolo negli Usa, avverte Ani DiFranco. «Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo accettare passivamente di essere defraudati dei nostri diritti fondamentali», dice la compositrice e cantante chiamando alla resistenza contro le illiberali e aggressive politiche di Trump. In attesa di ascoltarla dal vivo in Italia (il 14 giugno sarà a Roma e il 15 a Ferrara Sotto le Stelle) le abbiamo rivolto qualche domanda.

Ani, il titolo del tuo nuovo album, Unprecedented Shit, è piuttosto provocatorio. Cosa significa per te nel contesto attuale?

Oh, può assumere più di un significato, immagino. Al momento, qui in America, stiamo andando in direzioni mai viste prima. La nostra democrazia sembra realmente in pericolo. Molte cose hanno preso una piega molto pericolosa, e noi non siamo ancora attrezzati per saperla gestire. Il titolo della canzone è diventato il titolo dell’album perché penso che rappresenti lo stato attuale delle cose da tanti punti di vista.

Nel corso della tua carriera ti sei sempre espressa apertamente su questioni politiche. Dato l’attuale clima negli Stati Uniti, dalle minacce alla democrazia agli attacchi ai diritti delle donne, quale pensi debba essere adesso il ruolo degli artisti nella resistenza e nell’attivismo?

Architettura come atto politico. A colloquio con Carlo Ratti

Il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici sembra relegare l’architettura a un ruolo marginale rispetto alle scelte politiche. Architetto Carlo Ratti come spera che la sua Biennale di Architettura Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva possa suggerire nuovi orientamenti per il futuro?

Curare una Biennale richiede quasi un anno e mezzo – e in questo arco temporale il mondo può cambiare radicalmente! Oggi guardiamo con crescente preoccupazione a quanto sta accadendo in molti Paesi riguardo al disimpegno rispetto ai precedenti accordi internazionali sul clima. Paradossalmente, però, proprio questo mutato contesto rende la Biennale architettura 2025, che si concentra sull’adattamento a un pianeta che cambia, ancora più importante. Architettura significa sopravvivenza rispetto a un contesto che ci può diventare più avverso. In questo senso, l’architettura è intrinsecamente un atto politico. Come disse Winston Churchill: «We shape our buildings; thereafter they shape us». Quello che costruiamo (o che decidiamo di non costruire) ha un impatto profondo sulla società.

La Biennale di Venezia, che apre il 10 maggio, quali nuovi strumenti immagina per rafforzare il legame tra mondo scientifico e artistico, e tra generazioni diverse?