S. è operaio di una grande multinazionale statunitense che ha deciso di vendere e andar via. I 27 mesi di crollo della produzione industriale hanno il suo volto e quello dei 413 colleghi che oggi lottano per guadagnare il diritto al futuro. Non sono soli. In Italia in migliaia sono nella stessa situazione, a causa di imprese che sono libere di fare il bello e il cattivo tempo, di delocalizzare dopo aver succhiato alle casse pubbliche; a causa di un potere politico che è loro complice e senza alcun progetto di politica industriale al servizio del Paese e non delle grandi imprese.
E, intanto, l’inflazione schizza, la cassa integrazione pure e coi salari che ci sono molti devono scegliere tra pagare una bolletta o fare una visita medica.
Chiara è receptionist. Trotterella tra diversi B&B di un unico proprietario. Uno di quelli che si piange sempre addosso e che, tra un lamento e l’altro, nega ai dipendenti un contratto regolare e l’ha assunta “in grigio”, cioè per molte meno ore di quelle effettivamente lavorate. Poi, però, con una telecamera davanti straparla di giovani che non hanno più voglia di lavorare, che non sanno cosa significhi “sacrificio”…
Lui si arricchise; Chiara, invece, è il volto della turistificazione per i “nostri”: salari da fame e precarietà, soprattutto per giovani e donne. Ma anche la battaglia per un lavoro regolare e per un salario minimo di almeno 10€ l’ora.
Soumaila è bracciante. È arrivato quasi dieci anni fa da un Paese lontano migliaia di km. Oggi raccoglie ortaggi per 3€ all’ora. Tutto il giorno nei campi, senza stare a badare a meteo o fatica. Di lui e di quelli come lui si parla solo quando fanno la fine di Satnam Singh o Paola Clemente. O, nelle analisi dei think thank imprenditoriali, come quantità di braccia necessarie per sostenere un “output agricolo” sufficiente per un nuovo slancio dell’export tricolore. Soumaila produce made in Italy, ma in Italy non ha nemmeno la cittadinanza.
Katia insegna. In realtà è parte della più grande lotteria nazionale italiana. Quella che inizia sul finire dell’estate e che ti tiene incollata a mail e telefono in attesa di quel messaggio che fa la differenza tra una disoccupazione l’annuncio di qualche settimana o mese di lavoro, lontana centinaia di km da dove sei nata e vivi. Qualunque cosa dicano media e politici, qui di “choosy” e schizzinosi ci sono solo quelli che bevono Don Perignon.
Ci sono volti che, purtroppo, non sono più tra noi. Come quello di Patrizio Spasiano, 19enne tirocinante per 500€ al mese, ucciso da una fuga di ammoniaca il 10 gennaio. Ha il suo viso la battaglia per la sicurezza sul lavoro. Quella per mettere le nostre vite davanti ai profitti di aziende che, per qualche euro in più, sono disposte a manomettere le sicure dei macchinari. Nel solo 2024 ben 1.482 lavoratori e lavoratrici non hanno fatto più ritorno a casa.
E ci sono volti che non vediamo più in Italia. Come quelli di Valeria, una delle 113mila giovani che nel solo 2024 ha deciso di scappare via ed emigrare all’estero. Alla ricerca di quelle condizioni minime che qui troppo spesso vengono negate – non solo salario, ma anche stabilità e rispetto.
Per capire a che punto sia il mondo del lavoro nell’Italia del 2025, basterebbe una carrellata di questi volti e di queste storie.
Lavoratori e lavoratrici, ecco la nostra identità collettiva. Con interessi comuni. Come dimostra un sondaggio di Noto sul salario minimo: a favore il 64% degli italiani. Di qualunque orientamento politico. Perché la maggioranza del Paese sente l’urgenza e la necessità di alzare i salari. Non certo le armi, come da progetto delle classi dominanti, in Europa e in Italia.
È questo il bivio dinanzi a cui ci troviamo. Per imboccare la strada giusta nell’interesse della maggioranza serve costruire la più ampia mobilitazione popolare possibile.
A partire dal 1 maggio, giornata internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, non certo di chi il nostro lavoro lo sfrutta tutti i giorni.
L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Pap