Una foto che ritrae un bambino senza braccia è l’immagine dell’anno del World Press Photo. A scattarla la fotografa palestinese Samar Abu Elouf per il New York Times. Il bambino ritratto è Mahmoud Ajjour, gravemente ferito da un attacco israeliano nel marzo 2024, uno dei pochi a essere riuscito a fuggire dalla Striscia per ricevere cure mediche. Secondo l’Onu, già lo scorso dicembre Gaza contava il più alto numero pro capite di bambini amputati al mondo. «Siamo i feriti che curano i feriti». Questo sono i medici a Gaza a loro volta resi obiettivi di guerra dall’esercito israeliano.
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile l’ennesima pioggia di missili israeliani ha colpito l’ospedale battista Al Ahli nel nord della Striscia di Gaza, per la quinta volta dall’inizio della guerra. Il pronto soccorso è stato distrutto e reso inagibile, mentre i medici hanno cercato di evacuare i 100 pazienti in barella. Un bambino è morto per il freddo, altri due adulti per la mancanza di cure.
Qualche giorno dopo la fine della tregua tra Israele e Hamas, il 31 marzo, al dottor Mohammed Tahir, neurochirurgo iracheno in servizio a Gaza da diversi mesi, viene impedito di rientrare nella Striscia per un’ulteriore missione dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti. Da quasi due anni, il dottor Tahir cura i bambini, gli innocenti, i feriti nella Striscia sotto i bombardamenti.
Il suo account Instagram viene chiuso poco dopo, l’organizzazione no profit di cui fa parte, Fajr Scientific non dà spiegazioni e si affretta a sostituirlo con un altro medico pronto a partire. Nei suoi post il dottor Tahir usava spesso il «noi» riferendosi ai professionisti che prestano servizio negli ospedali di Gaza. Un “noi” che rappresenta la comunità di medici internazionali che, dall’inizio dei bombardamenti israeliani, tra mille difficoltà, tenta di salvare la vita ai civili, soprattutto ai bambini, di rendere il dolore degli interventi meno terribile. Una comunità scomoda, in un territorio e tra una popolazione che vede leso il diritto alla salute in guerra.
Il 26 marzo, MedGlobal ha lanciato un appello per il rilascio del dott. Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Gaza nord e medico responsabile della missione di MedGlobal, detenuto nelle prigioni israeliane dal 2024. Safiya è stato rapito dall’IDF il 27 dicembre 2024 insieme a diversi civili e altri membri dello staff ospedaliero. Gli è stato negato un incontro con il suo avvocato per 47 giorni dopo il suo arresto. Secondo il suo team legale, «nessuno ha divulgato le accuse o le presunte prove segrete su cui si basava il caso, negando di fatto alla difesa ogni possibilità di contestazione».
Il dottor Safiya è di nazionalità palestinese, è stato arrestato mentre cercava di negoziare l’evacuazione imposta dall’esercito israeliano al suo ospedale e subisce la sorte dei medici e degli operatori sanitari palestinesi che sono considerati un pericolo, in una deriva razzista che ostacola le cure. Quando invece per le ONG sarebbe fondamentale avere sul campo professionisti originari del territorio in cui operano, che facilitano le comunicazioni, che conoscono la lingua, i luoghi e affrontano più prontamente le situazioni.
Proprio un medico è stato una delle prime vittime del genocidio a Gaza, a due settimane dall’inizio della guerra: il chirurgo Medhat Sedim, ucciso dai bombardamenti a casa sua dopo il turno in ospedale, in seguito a diversi giorni consecutivi passati a curare ininterrottamente le vittime del fuoco israeliano, essendo uno dei pochi chirurghi del luogo specializzati nella cura delle ustioni.
Il 23 marzo di quest’anno, 14 soccorritori e operatori sanitari palestinesi della Mezzaluna Rossa sono stati uccisi a bordo delle loro ambulanze dall’esercito israeliano in un attacco che è stato definito dalla stessa Croce Rossa come il più grave contro i propri membri da diversi anni.
Secondo quanto riportato dall’Ocha, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, dal 7 ottobre 2023, almeno 399 operatori umanitari, tra cui 289 dipendenti delle Nazioni Unite, 34 dipendenti della Mezzaluna rossa palestinese (Prcs) e almeno altri 76 dipendenti di Ong sono stati uccisi a Gaza.
«Li stiamo tirando fuori in uniforme, con i guanti», ha detto Jonathan Whittall dell’Ocha in una dichiarazione dopo la scoperta della fossa comune in cui erano stati sepolti con le loro ambulanze. «A uno di loro sono stati tolti i vestiti e un altro è stato decapitato», ha spiegato ai reporter del network giornalistico +972 Mahmoud Basal, portavoce della Difesa civile a Gaza.
Secondo i dati del ministero della Salute palestinese 1.151 operatori sanitari, tra medici, infermieri, personale che lavorava negli ospedali sono stati uccisi dall’esercito israeliano in quello che secondo il ministro è «un attacco sistematico e deliberato al sistema sanitario» in perfetta violazione del diritto internazionale. Al 24 febbraio scorso erano 517 gli operatori sanitari detenuti nelle prigioni israeliane e gli ospedali e le strutture sanitarie hanno subito, secondo l’Oms, 1415 attacchi dal 7 ottobre. Durante la guerra 34 ospedali sono stati distrutti e costretti a chiudere, insieme ai 240 centri e strutture sanitarie e alle 142 ambulanze che sono stati anch’essi presi di mira. Si stima che il danno totale al settore sanitario superi i 3 miliardi di dollari.
Il diritto internazionale calpestato
L’ospedale Kamal Adwan di cui il dottor Hussam Abu Safiya, ancora in carcere, è direttore, è stato occupato due volte, la prima a dicembre 2023, la seconda alla fine del 2024, quando sono stati dati alle fiamme diversi dipartimenti, causando la morte di 29 palestinesi, di cui 4 operatori sanitari.
Ancora più cupo, se possibile, il destino dell’ospedale Al-Shifa, assediato per due mesi lo scorso anno, dove i neonati sono stati lasciati senza incubatrici e i pazienti privati di cure e di cibo. Un’infermiera interpellata da Human Rights Watch ha raccontato che le forze israeliane hanno iniziato a sparare prima che finisse l’evacuazione, accanendosi contro la terapia intensiva “senza sosta”. Sempre ad Al Shifa «i pazienti sono stati tenuti senza cibo, acqua e medicine, sdraiati sul pavimento. I medici della dirigenza dell’ospedale hanno raccontato che le forze israeliane li hanno usati come “scudi umani” per aprire o sfondare le porte ed entrare e controllare se le stanze erano vuote». È tutto in un rapporto di Hrw, che racconta le violazioni – commesse da Israele – della Convenzione di Ginevra, l’accordo internazionale del 1949 che protegge gli ospedali, le strutture sanitarie, i pazienti in tempo di guerra.
Esecuzioni a freddo di pazienti incapaci di muoversi e deambulare, gas lacrimogeni e fumogeni per costringerli alla fuga, privazioni e il divieto di seppellire i cadaveri sono solo alcune dei crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano in questo complesso ospedaliero. «Le ruspe militari israeliane hanno dissotterrato e schiacciato i corpi sepolti nel terreno dell’ospedale» raccontano i sanitari sopravvissuti a Kamal Adwan. La madre di un paziente dell’ospedale di Nasser ha raccontato invece di aver visto cani e gatti mangiare i corpi dei cadaveri di pazienti evacuati e bombardati durante la fuga.
Sia nella struttura sanitaria Nasser a Khan Younis che in quella di Kamal Adwan a Jabalya è stato impedito da Israele alle missioni Oms di visitare le condizioni dell’ospedale. Dei tunnel sotterranei, della presenza degli uffici di Hamas all’interno degli ospedali non è mai stata confermata l’esistenza da Ong, media internazionali e testimoni diretti. Ma questo continua ad essere il pretesto delle forze armate israeliane per mettere al tappeto il sistema sanitario di Gaza.
«Consideravano qualsiasi dipendente [del settore pubblico] un membro di Hamas, quindi in virtù del mio lavoro in ospedale, pensavano fossi un membro di un’organizzazione terroristica» dice il dottor Mahmoud Abu Shahada, medico arrestato e torturato con violenze fisiche e psicologiche per quasi un anno, dopo l’assedio all’ospedale Nasser.
Nessuna via di fuga
Tra le violazioni della Convenzione di Ginevra, le sempre più frequenti richieste di evacuazione negate. Da ottobre 2023, secondo L’associazione per i diritti umani israeliana Phri, sono state presentate 15.600 richieste di evacuazione medica, ma solo il 34% è stato approvato. I tassi di approvazione per i bambini rimangono particolarmente bassi: solo il 51,7% per le età 0-5 e il 37% per le età 6-18.
Tra i pazienti oncologici, il 50% delle richieste di evacuazione è stato respinto, ritardando il trattamento e peggiorando i risultati. La carenza di forniture mediche è diffusa, con il 45% dei medicinali essenziali non disponibili nel nord di Gaza e il 59% nel sud.
«Dall’inizio degli attacchi», raccontano da MSF, «il personale e i pazienti di Medici senza Frontiere hanno dovuto evacuare 20 diverse strutture sanitarie e hanno subito 41 episodi violenti, tra cui attacchi aerei che hanno danneggiato ospedali, colpi di carri armati contro rifugi, offensive via terra contro centri medici e attacchi contro convogli. Episodi che dimostrano il palese disprezzo per l’azione medico umanitaria medica e la mancanza di protezione dei civili e delle strutture mediche».
Un monumento alla crudeltà
Chi gestisce i rifornimenti medici a Gaza è, dall’inizio dell’occupazione israeliana, il Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories), che ha sempre attuato una politica particolarmente ambigua per quel che riguarda il materiale che può entrare o non entrare nella Striscia. A capo dell’ente, il generale Ghassan Alian contro il quale l’Ong palestinese Hind Rajab Foundation ha presentato a gennaio una richiesta di arresto alla Corte penale internazionale e alle autorità italiane per crimini di guerra, in occasione di una visita segreta del generale a Roma.
A lui si attribuisce, infatti, la responsabilità di aver affamato la popolazione di Gaza nell’ultimo anno e mezzo, delle condizioni igieniche precarie a causa della mancanza di acqua potabile e del conseguente proliferare di epidemie. Sempre il Cogat vieta l’ingresso di medicinali salvavita e strumentazione medica di vario tipo considerata “dual use”, cioè passibile di essere utilizzata per scopi civili o militari.
Dopo la fine della tregua a marzo di quest’anno Msf racconta che «Da oltre un mese, nessun aiuto umanitario o camion con cibo e forniture sta entrando a Gaza. È il periodo più lungo dall’inizio della guerra senza che nessun camion entri nella Striscia. Gli ultimi rifornimenti che i nostri team sono riusciti a far entrare a Gaza sono stati tre camion di forniture, per lo più mediche, il 27 febbraio. Prima del blocco totale delle autorità israeliane, avevamo diversi camion pronti ad entrare con rifornimenti, ma ora siamo costretti a razionare i farmaci, le forniture chirurgiche e i medicinali per le malattie croniche. Abbiamo letteralmente le mani legate e è ogni giorno più difficile assistere la popolazione di Gaza. Le autorità israeliane stanno ancora una volta normalizzando l’uso degli aiuti come strumento di negoziazione. È scandaloso: gli aiuti umanitari non dovrebbero mai essere utilizzati come merce di scambio in una guerra».
Sin dalla presa del valico di Rafah da parte dell’esercito israeliano a maggio dello scorso anno, queste negoziazioni sulle spalle dei pazienti che necessitano dei farmaci e anestetici stanno impedendo il lavoro dei medici e hanno il costo devastante di vite umane che potevano essere salvate.
Era già una delle rivendicazioni disperate della lettera aperta scritta lo scorso ottobre da 99 medici operanti a Gaza a Joe Biden. Dall’appello apprendiamo che si contavano fino a quel momento già 120 mila vittime, dal momento che, ricordano i medici, ai numeri diffusi dai media andavano aggiunte anche le morti “indirette” dovute alla mancanza di cure, alla malnutrizione, alle scarse condizioni igieniche dei pazienti negli ospedali bombardati.
«I corpi mutilati di donne e bambini sono un monumento alla crudeltà» recita l’appello, mentre i medici combattono con «condizioni operatorie impossibili, mancanza di forniture igieniche di base come il sapone e mancanza di forniture chirurgiche e farmaci, compresi gli antibiotici».
Myriam Laaroussi, coordinatrice dell’emergenza di Msf a Gaza ricorda che «anche prima della ripresa degli attacchi, durante il cessate il fuoco, il sistema di ingresso delle merci imposto dalle autorità israeliane, già utilizzato per ostacolare sistematicamente gli aiuti umanitari, ha reso impossibile intensificare adeguatamente la nostra risposta. È un sistema non trasparente che ostacola e limita costantemente l’ingresso di forniture salvavita, come bisturi, forbici, concentratori di ossigeno, impianti di desalinizzazione e generatori. Anche quando gli ingressi vengono approvati, i tempi di attesa sono lunghi e il processo rimane un complesso ostacolo burocratico.
Come Msf chiediamo alle autorità israeliane di mettere immediatamente fine alla punizione collettiva della popolazione palestinese e all’assedio disumano di Gaza, oltre ad assumersi le proprie responsabilità di potenza occupante per facilitare l’ingresso di aiuti umanitari su larga scala».
Appelli inascoltati, medici vittime di guerra, ostacoli burocratici per salvare la vita dei bambini, ospedali che si trasformano in basi militari, come afferma un dottore intervistato dal network +972 riguardo l’assedio dell’ospedale Al Shifa: «Eravamo circondati da carri armati, droni che ronzavano sopra la nostra testa, senza elettricità, senza cibo. Operavamo con la luce dei cellulari. Non stiamo solo curando un trauma, lo stiamo vivendo».
L’autrice: Angela Galloro è giornalista