Con "Lo sguardo buio", la giornalista e scrittrice racconta l’emancipazione femminile attraverso quattro donne. Un invito al coraggio e alla libertà contro rassegnazione e stereotipi

Giornalista economica e di inchiesta per testate nazionali, dal Sole 24 ore a L’Espresso, con Lo sguardo buio (AIEP Editore) Natascia Ronchetti debutta come autrice di romanzi. Da poco approdato in libreria il libro fa tesoro del mestiere giornalistico che si affida alle fonti per restituire un quadro fedele della realtà. La narrazione parte dagli anni bui del Fascismo per svilupparsi nei decenni successivi, dalla fine della seconda guerra mondiale all’esordire del femminismo. Ambientato a Bologna, la sua città, racconta la storia di un Paese in profondo cambiamento. Protagoniste sono quattro donne, differenti tra loro, eppure rappresentative di un tempo in cui la tradizionale famiglia patriarcale subiva i primi scossoni dell’emancipazione femminile, talvolta agognata, talvolta sfiorata, talvolta soffocata. Marina, Anna, Alide, Anita sono donne combattute riflesse nella figura di Claudio, marito, padre e datore di lavoro.

Le donne del suo romanzo hanno caratteristiche definite. Incarnano remissività, rassegnazione, ribellione, accettazione. Sentimenti espressi o repressi. Oggi a che punto siamo?
Ancora adesso non riesco a disgiungere completamente la rassegnazione dall’idea tirannica che esista un destino ineluttabile a cui piegarsi. Idea estremamente reazionaria: imprigiona nell’immobilismo e nell’accettazione. Alcune delle donne del mio libro sono vittime rassegnate. Altre si ribellano a un sistema patriarcale maschilista e autoritario. Oggi tanto è cambiato. La remissività non è più considerata una lodevole virtù femminile come era un tempo. Eppure l’insidia è sempre lì. A fronte di molte donne che reagiscono con forza – e spesso per questo vengono punite, come purtroppo ci insegna la cronaca quotidiana – ce ne sono ancora tante, troppe, che tollerano soprusi. Mancanza di coraggio, di autostima, di appigli esterni? O forse anche oggi ci mette lo zampino pure quell’idea tirannica?

Lei affronta il tema dell’istruzione femminile, dell’alfabetizzazione emotiva. Tra le giovani donne di allora e di ora, cosa è cambiato e cosa è immutato in termini di consapevolezza e autodeterminazione?
Apparentemente è cambiato tutto. Nella realtà dobbiamo ancora lottare per la piena parità di genere. Le donne sono più istruite, concludono più brillantemente gli studi. Ma si confrontano quotidianamente con il gender gap nelle retribuzioni, nell’accesso al lavoro. Quanto all’alfabetizzazione emotiva credo che abbiamo ancora molta strada da fare. Confuse da stereotipi e preconcetti talmente introiettati da non affiorare alla coscienza a volte ci arrendiamo a persuasioni manipolatorie, allontanandoci dalla comprensione piena delle nostre emozioni. E ci facciamo spaventare dalla legittima rabbia che proviamo.

Il protagonista maschile, Claudio, è animato da un sincero sentimento progressista, che non riesce tuttavia ad incarnare, risultando ambivalente. L’uomo di oggi, a cosa tende e cosa non attua?
Così come la cultura e l’istruzione non affrancano dal maschilismo e dal senso di possesso così idee progressiste possono non collimare con una intima e convinta adesione all’emancipazione femminile. D’altronde il tragico fenomeno della violenza di genere è trasversale a tutte le classi sociali e non conosce colori politici. Credo che anche l’uomo più evoluto possa pure oggi cadere nella tentazione di rimpiangere altri tempi. Tempi in cui il maschio esercitava il controllo sulla donna. Magari è un processo inconscio, represso e non ammesso. Ma sappiamo che non bastano pochi decenni per cancellare una mentalità che è il prodotto di secoli di esercizio del potere.

Dopo due testi impegnativi con un taglio più giornalistico – Finanza etica. Una rivoluzione silenziosa (2013) e Il rituale del Femmicidio (2016) – Lo sguardo buio  come si colloca?
Lo avevo in testa da tempo e volevo collocarlo a Bologna non perché è la mia città ma perché ha avuto molte cose da dire nel corso degli anni. E’ una città che ha sofferto molto. E non mi riferisco solo alla seconda guerra mondiale, il cui scoppio, con l’invasione della Polonia da parte delle armate di Hitler, è l’incipit del romanzo. Basti pensare alla strage alla stazione ferroviaria del 2 agosto 1980. Eppure Bologna non si è incattivita. Così come non si incattiviscono le protagoniste. Sono rabbiose, ribelli, remissive o troppo arrendevoli. Ma non cercano vendette. Solo libertà.

Come si può affrontare il tema dei diritti e dell’emancipazione femminile senza cadere nella retorica? Le parole paiono non scuotere più le coscienze…
Abbiamo superato molti ostacoli. Ma credo che il sistema dell’informazione non abbia ancora raggiunto la piena maturità nel raccontare cosa sono la violenza di genere, la discriminazione, il sessismo. Certi titoli hanno ancora l’impronta del paternalismo maschilista. L’assuefazione è un pericolo già concreto. La fretta, le generalizzazioni e a volte la semplice superficialità minano la capacità di comprendere che le storie di violenza hanno tutte, tragicamente, una stessa matrice: secoli di sopraffazione.

Il dopo guerra di allora fu uno slancio al miglioramento, alla costruzione. Come immaginare un post guerra dei conflitti in corso?
Credo che siamo tutti spaventati di fronte a una storia che tragicamente si ripete. C’è però una tragica novità. Il ritiro verso i nazionalismi e l’attacco ai diritti che consideravamo acquisiti, il disconoscimento delle più elementari manifestazioni di solidarietà, una sorta di disarmo etico. E poi c’è il trumpismo, con un terrificante corredo di misoginia e machismo.

Che urgenza hai sentito e su cosa hai voluto porre l’attenzione?
Sulla tragedia e sulla speranza, che nonostante tutto riesce quasi sempre ad essere consolante e persino più forte del dramma. Proprio come una nascita, una nuova nascita: addolcisce il dolore per una perdita.