ttraverso un lavoro scrupoloso, frutto di anni di archivio e di approfondita conoscenza della bibliografia e storiografia sul tema, Ciro Dovizio ricostruisce ne L’alba dell’antimafia (Donzelli) la storia de L’Ora, quotidiano della sera palermitano, concentrandosi in particolare su quella coincidente con la direzione di Vittorio Nisticò (1954-1975), giornalista calabrese inviato in Sicilia nel 1954, dopo l’acquisizione del giornale da parte del Pci, il quale avvia, insieme allo straordinario ed eterogeneo gruppo redazionale che riunisce attorno a lui (da Mario Farinella ad Aldo Costa, da Antonio Sorgi a Felice Chilanti, da Leonardo Sciascia e Danilo Dolci – solo per citare alcuni della redazione “storica” -, sempre affiancati da fotoreporter di grande rilievo, tra i quali si annovera anche Letizia Battaglia), le prime battaglie giornalistiche contro la mafia, fenomeno allora sostanzialmente assente dalle testate sia nazionali sia locali e dai notiziari televisivi, peraltro allora agli albori.
Eugenio Salvarani, gli ideali della ricostruzione
La mano appoggiata all’impalcatura di un cantiere, quel giovane uomo degli anni 50, elegante e sobrio, ha uno sguardo deciso, è sicuro di sé, ma non lo esibisce. La fotografia che ritrae Eugenio Salvarani, architetto di Reggio Emilia di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è nel dépliant sulla giornata di studi con cui il 12 aprile la città emiliana renderà omaggio non solo al progettista originale ma anche all’architetto immerso nella appassionante ricostruzione del dopoguerra, al socialista impegnato e all’innovatore che studiava e immaginava la modernità come bene comune. Sarà quindi l’occasione per far conoscere ad un pubblico vasto un architetto di grande talento la cui carriera fu stroncata a soli 42 anni e per ripercorrere quei primi decenni cruciali della Repubblica in cui il cammino verso il futuro era segnato da momenti di pericolosa stasi e di buio opprimente. Come quello che avvolse la scomparsa di Salvarani nel 1967 in Etiopia mentre stava lavorando ad un progetto finanziato dalla Banca mondiale. L’aereo su cui viaggiava, questa la versione ufficiale, precipitò in un viaggio interno, ma il suo corpo e quello del principe Daniel Abebe che lo accompagnava non furono mai trovati. Il silenzio omertoso delle istituzioni italiane su questo caso, nonostante numerose interrogazioni parlamentari, ancora oggi sconvolge.
Titina Maselli e la poetica della metropoli
Al Casino dei Principi di Villa Torlonia a Roma, nei suoi locali silenziosi e appartati dalle folle dei turisti, ospita fino al 21 aprile, una mostra antologica dedicata alla pittrice romana Titina Maselli. La retrospettiva, in occasione del centenario della sua nascita, prosegue con alcune opere di grande formato, al Mlac, il Museo laboratorio di arte contemporanea della Sapienza Università di Roma.
Dopo l’esposizione della scorsa estate negli stessi locali della villa (Artiste a Roma. Percorsi tra secessione, futurismo e ritorno all’ordine), questa nuova mostra dedicata a Titina Maselli, con il catalogo che la accompagna, offre un’altra occasione da non perdere per gettare luce sull’arte delle donne e per conoscere questa importante artista del Novecento italiano.
Titina Maselli, nata nel 1924, a Roma, in una famiglia della borghesia intellettuale dell’epoca, cresce, insieme al fratello Citto (che diventerà un famoso regista caro al Pci), «sulle ginocchia di alcuni dei più grandi personaggi della cultura italiana», come scrive Costantino D’Orazio in Vite di artiste eccellenti (Laterza, 2021). La casa di via Sardegna del padre Ercole Maselli è, infatti, il cenacolo raffinato e colto di grandi artisti e intellettuali del tempo, da Alberto Moravia e Elsa Morante fino a Renato Guttuso e Luigi Pirandello.
Viaggiando con Pollock tra linee e colori della mente
“Pollock, les premières années (1934-1947)” è il titolo della mostra curata da Joanne Snrech e Orane Stalpers al Musée Picasso. L’esposizione è stata una occasione speciale per tornare ad approfondire l’opera del pittore americano, basti dire che è soltanto la terza retrospettiva parigina a partire dagli anni Ottanta e segue quella generale dell’82 al Centre Pompidou e una più recente del 2008 alla Pinacothèque, dedicata ai rapporti con lo sciamanesimo.
Proprio per la novità del tema, trattato in modo così approfondito, relativo appunto ai primi anni del lavoro artistico del James Dean of the Canvas, è stata considerata un evento non solo in Francia ma anche in tutt’Europa. Si accede al percorso espositivo con la consapevolezza di confrontarsi con un artista immerso nel suo tempo, una personalità che ha segnato un’era, passando dalla grande Depressione economica del Ventinove, oltre la seconda guerra mondiale, alla grande “paranoia” della Guerra fredda, dal realismo on the road verso la Beat generation. È sicuramente una mostra che ha offerto una ricchezza di non facile riducibilità e una rarità in stimoli emotivi, suggestioni estetiche e riflessioni: l’ingresso non coinciderà nel modo più assoluto con l’uscita. Come accennavamo colpisce la sede, il celebre Museé National Picasso del quartiere del Marais che introduce sin da subito il dritto confronto tra i due pittori che hanno rivoluzionato il mondo dell’arte nel Novecento.
“Borderlands”, le vite sospese al confine tra Messico e Usa
Una ricerca per immagini sui confini, lungo il lato americano del confine tra Messico e Usa. E uno sguardo profondo sulle vite di chi vuole oltrepassarli, quei confini, e di chi li sorveglia. Il fotografo Francesco Anselmi ha realizzato il libro Borderlands, pubblicato in edizione internazionale (Kehre Verlag) a cura di Renata Ferri con un testo di Francisco Cantù. Ecco il racconto dell’autore del reportage, realizzato tra il 2017 e il 2019.
Borderlands nasce dalla volontà di raccontare il confine tra Stati Uniti e Messico tentando di superare la narrazione emergenziale che sempre più caratterizza il racconto delle zone liminali. In molti casi queste aree si confrontano con i flussi migratori da decenni, tanto da aver visto il proprio tessuto sociale plasmarsi intorno a questi fenomeni, ma nonostante questo, il tema dell’immigrazione continua ad essere narrato e affrontato come un’emergenza, sia a livello mediatico che politico. L’intenzione del lavoro è stata da subito quella di trasmettere la complessità di questi luoghi, sollevando domande sulle trasformazioni in atto, le contraddizioni che li regolano; tentando di mostrare le borderlands come il luogo a sé stante che sono rispetto ai due Paesi che separano.

Il confine è spesso narrato come un luogo di separazione netta, di non continuità, un luogo dove permane costantemente il rischio che qualcosa o qualcuno di “sbagliato” possa attraversare contaminando il lato “giusto”.
E la chiamano democrazia
L’età dell’oro dell’America. Così ha definito il suo secondo mandato il presidente Donald Trump durante il discorso di insediamento alla Casa Bianca. Dopo quattro anni lontano dalla presidenza, Trump torna al 1600 di Pennsylvania Avenue con intenzioni a dir poco bellicose. Lo aveva già fatto presagire durante la campagna elettorale senza esclusione di colpi, dove il razzismo e il sessismo l’avevano fatta da padroni nei suoi comizi. L’aveva confermato quando ha scelto il suo staff di impresentabili ma fedelissimi, intenzionato a non ripetere gli errori della presidenza iniziata nel 2016, quando accanto a lui c’era ancora qualcuno che aveva l’ardire di contraddirlo. Questa volta Trump ha la strada spianata, un esercito di yes men nella sua corte e un elettorato che lo ha preferito alla vicepresidente e candidata democratica Kamala Harris. Non si è trattato di percentuali bulgare, come Trump vorrebbe far credere, ma comunque lo scorso novembre è riuscito ad aggiudicarsi sia il voto popolare che quello dei Grandi elettori.
In fuga dalla dittatura
Il nostro terreno è la memoria». Da queste parole capisco subito che di fronte a me c’è un regista militante. Un uomo che fa dell’arte cinematografica un atto politico. A pronunciarle è il cineasta argentino Omar Neri che, insieme alla sua collega Mónica Simoncini, hanno girato un documentario sulla storia di quelle donne e quegli uomini che – dopo il golpe militare di Jorge Videla del marzo 1976 – riuscirono a fuggire dall’Argentina e ad arrivare in Italia, a Roma.
Resistenza è un altro grande lavoro portato avanti da Mascarò Cine, un gruppo cinematografico indipendente nato nel 2002 che, attraverso gli audiovisivi, «descrive, e in qualche modo recupera, le lotte sociali e politiche degli anni Sessanta e Settanta», portando nel presente storie che «intervengono nei dibattiti attuali sul tipo di società che vogliamo costruire». E da dove nasce l’idea di girare una pellicola sugli esuli argentini a Roma? Tutto inizia da un incontro con Progetto Sur, un’associazione di italo-argentini fondata a Roma nel 2003 e che da allora sostiene iniziative di movimenti e organizzazioni argentine, per i diritti umani, sociali, ambientali e dei popoli originari.
Così Milei vuole riabilitare golpisti e torturatori
e Abuelas di Plaza de Mayo hanno ritrovato il nipote 138. L’annuncio ufficiale è stato dato il 27 dicembre scorso dalla presidente Estela Carlotto nella loro sede nell’ex caserma Esma, a poche decine di metri dalla palazzina del centro di detenzione clandestino e di sterminio più feroce della dittatura civico-militare argentina (1976-1983). Il ritrovamento di uno dei figli di una coppia di desaparecidos, partito da una denuncia del 1988, arriva nel pieno di un’aggressione alla memoria organizzata dal governo negazionista del presidente Milei, che non perde occasione per provocare e umiliare le madri e le nonne delle vittime (in tutto furono circa 30mila). Alle prigioniere, costrette a partorire nei centri clandestini, venivano sottratti i figli, poi consegnati, con la complicità delle autorità ecclesiastiche, a coppie ritenute affidabili e compiacenti: per questo la ricerca delle Abuelas è da sempre motivo di apprensione per chi ha collaborato col regime. Non a caso, in agosto un decreto presidenziale ha di fatto smantellato la Commissione nazionale per il diritto all’identità (Conadi), l’ufficio che coordina l’attività investigativa delle ricerche.
Una rete collettiva per salvare l’università
Il futuro dell’università pubblica italiana è appeso a un filo sottile, minacciato da una riforma che sembra non avere la minima attenzione per le esigenze degli studenti e dei lavoratori del sapere: la riforma Bernini.
Questa riforma non è che l’ennesima conferma di un’idea di università e di istruzione pubblica considerate non come beni comuni da tutelare, ma come un lusso da razionalizzare. Una visione che si fa ancora più evidente in un momento storico di profonda crisi economica e sociale, in cui il Paese si trova sempre più schiacciato sotto il peso della precarietà.
Un governo nemico del sapere
Il 2025 è partito con pessime notizie per l’università italiana. Sono due i provvedimenti che determinano un sostanziale passo indietro: la legge di bilancio 2025 e il disegno di legge 1240 sul pre-ruolo in discussione in queste settimane in Parlamento (dal titolo Disposizioni in materia di valorizzazione e promozione della ricerca).
La legge di bilancio 2025 prevede anche per il sistema universitario pubblico una riduzione di risorse finalizzata al raggiungimento degli obiettivi programmatici di finanza pubblica 2025-2029. Tradotto: tagli che con tutta probabilità, si riverseranno di nuovo sullo stanziamento del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), fondo che solo 7 mesi fa, in piena estate, era stato già ridotto di oltre 500 milioni di euro.










