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Quando la musica faceva le barricate contro la Lady di ferro

L’11 febbraio 2025 si festeggiano i 40 anni di Meat Is Murder, l’album più smaccatamente politico degli Smiths, a partire dalla copertina, che prende un fotogramma del documentario sul Vietnam In the Year of the Pig e cambia il motto sul casco del soldato: da “Make Love Not War” a “Meat is Murder”. È un album anti-monarchico, contro le istituzioni. Una fotografia della tragica, caustica Inghilterra di metà anni Ottanta. Un disco che arriva al primo posto, contribuendo alla sensibilizzazione sul tema della macellazione animale e della paura nucleare, influenzando un’intera generazione di giovani, ancora più protagonisti della controcultura britannica perché il gruppo si fece portavoce delle loro battaglie, del loro attivismo. Tuffiamoci in quegli anni con il libro di Fernando Rennis, Charming men (Nottetempo)

Ellen Wood è un nome che con molta probabilità non vi dirà nulla. Il 9 dicembre 2010 si trova assieme ad altri studenti a Parliament Square, a fronteggiare la polizia. Stanno protestando contro l’aumento delle tasse universitarie. L’atmosfera è tesa, ci sono scontri, arresti, gli agenti a cavallo. Video e foto testimoniano i tafferugli, ma uno scatto in particolare entrerà nella storia. Verrà accostato come potenza comunicativa a La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix. Sullo sfondo il terso cielo londinese, a destra il Big Ben. Sotto i poliziotti schierati e sui loro scudi si riflette proprio la sagoma di Wood: lei si prende tutto il lato sinistro. Guarda l’altra parte della barricata con aria di sfida. Indossa una maglietta degli Smiths.

Il nome del gruppo era già finito in Parlamento, quando, durante un question time, qualcuno aveva fatto notare che al primo ministro conservatore David Cameron era stato proibito di dirsi un fan degli Smiths dal chitarrista della band sull’allora Twitter. Nel siparietto tra il premier e la parlamentare laburista Kerry McCarthy, erano state menzionate alcune canzoni del quartetto di Manchester, il “gruppo da studenti” per definizione. Ma perché?

Riavvolgiamo il nastro. Siamo negli Ottanta, i coloratissimi anni Ottanta. Il Regno Unito, però, non si è scrollato di dosso il grigiore del decennio precedente. La disoccupazione miete vittime in senso figurato e letterale, sale l’inflazione e dilaga la violenza dentro e fuori gli stadi. I minatori sono in sciopero, ma il drammatico braccio di ferro tra sindacati e governo è destinato a essere perso malamente dai lavoratori. Al numero 10 di Downing Street c’è Margaret Thatcher, paladina del liberismo, nemica dei college d’arte e dei sussidi. A Buckingham Palace una regina che deve affrontare i divorzi dei suoi figli e il gossip attorno a una famiglia tutt’altro che reale; sembra più quella di una soap opera.

I giovani in televisione guardano video di popstar che sorseggiano cocktail a bordo piscina, per strada si imbattono nei rampanti yuppie, a cui interessa fare soldi per condurre una vita agiata. In tavola abbonda la gelatina, nei giornali le pubblicità del primo telefono mobile, del computer. Tecnologia, il successo da raggiungere obbligatoriamente, una forte sessualizzazione dei corpi, artisti che sembrano di plastica. E, poi, la paura della guerra fredda e l’ansia di possibili disastri nucleari, la ricerca disperata di quell’alternativa che per Thatcher, no: non c’è.

Quando gli Smiths fanno la loro comparsa a Top of the Pops con “This Charming Man” nel novembre del 1983 sembra, invece, che un altro mondo sia possibile. Uno in cui si elogia la normalità, dove rispecchiare il proprio essere diversi dai modelli imposti dai mass media. È un mondo pieno di fiori, alla faccia della digitalizzazione dilagante, dove le parole sono importanti. Infatti, con quel brano, gli Smiths mettono in bocca ai giovani del Regno Unito un’espressione vittoriana come “jumped-up pantry boy”.

Sono il cantante Morrissey, il chitarrista Johnny Marr, il bassista Andy Rourke e il batterista Mike Joyce. I primi due, la forza motrice del quartetto, hanno scelto di chiamare il gruppo con un diffusissimo cognome inglese, lo stesso del loro primo album – Smiths, appunto. Nel secondo disco affermano che mangiare carne è un assassinio, nel terzo che la regina è morta e avevano pensato di intitolarlo “Margaret alla ghigliottina”. Ovviamente, si tratta di Thatcher. Quando l’Ira le prepara un attentato, lei scampa miracolosamente alla morte e Morrissey alla stampa si dice contento che l’organizzazione abbia imparato a scegliere i suoi obiettivi, triste perché questa volta erano stati mancati. Forte, certo, sopra le righe, ma perfettamente in linea con i giovani inglesi appartenenti alla controcultura.

Gli Smiths ne sono stati i portavoce, trattando temi come il vegetarianismo, la libertà sessuale. Partecipando alle iniziative dei laburisti, rivendicando un posto per gli emarginati che non volevano fare la fila agli uffici di collocamento per essere costretti a lavorare, incastrati in una vita lontana dai propri desideri. La loro carriera è durata appena cinque anni, cementando il loro mito. Sono diventati il prototipo della musica indipendente – anche se sono stati talmente popolari da piazzare i loro quattro album in studio al secondo e primo posto delle classifiche britanniche – e un esempio di integrità. Nei decenni successivi Morrissey avrebbe tradito questa eredità, dicendosi a favore della Brexit e sostenitore di Nigel Farage, un’ulteriore frattura nel rapporto tra lui e Johnny Marr, il cui deterioramento è stata una delle cause principali della fine del gruppo. Il chitarrista si sarebbe distinto per la coerenza con quel giovane musicista degli anni Ottanta, intervenendo sul dibattito pubblico e resistendo alle sirene di una reunion.

Gli Smiths hanno rappresentato un’alternativa. Lo farebbero anche oggi, dove nuove generazioni subiscono un impatto quasi rimasto intatto negli anni. Perché le loro canzoni non mettono al centro modelli vincenti e inarrivabili, ma personaggi tremendamente normali, loser che non si riconoscono nella rappresentazione mainstream dei giovani. La loro è una lode alla normalità, una lotta al consumismo, un tentativo di combattere le brutture del mondo con un mazzo di gladioli e la poesia, un atto di resistenza estetica e culturale.

Se la commedia romantica del 2009 500 Days of Summer è stata fondamentale nella riscoperta degli Smiths da parte della Gen Z, con l’avvento di Tik Tok i brani del gruppo sono stati perfetti per descrivere il tentativo di affrontare un lungo periodo di crisi economica, sociale, pandemica con un pizzico di amara ironia. Molti giovani preoccupati dall’assenza di lavoro, per esempio, hanno usato nei loro video i versi di “Heaven Knows I’m Miserable Now”: “Stavo cercando un lavoro, poi l’ho trovato e il cielo sa che ora sono infelice”. Allo stesso modo, la capacità del gruppo inglese di sintetizzare fragilità, insicurezza e rabbia nei confronti delle istituzioni, sempre più lontane dai giovani, in piccoli gioielli pop, ha permesso alla Gen Z di riportare all’attenzione la musica degli Smiths.

Ma il fatto che, per esprimere la propria condizione e ridere di questi tempi la gioventù ricorra a una band nata nel 1982 e scioltasi cinque anni dopo, non è il sentore che avremmo bisogno di più gruppi così, in questo nostro difficile presente? Gruppi che non hanno paura di prendere posizione e sono talmente reali da rappresentare un luogo in cui potersi sentire sé stessi? Quando sono stati ospiti di Sanremo nel 1987, gli Smiths venivano presentati da Carlo Massarini come “un gruppo diverso dalla maggior parte delle altre band, che vanno dietro alle frivolezze, che vanno dietro agli atteggiamenti”. In quella occasione, Marr, intervistato per uno speciale, parla di un’Inghilterra che “lotta duro per resistere” e che dovrebbe tornare a essere “democratica e socialista”, meno classista. Spiega anche la motivazione di aver scelto con Morrissey il nome della band: “Era ora che un gruppo si identificasse con la gente normale”. Ecco, sarebbe ora che succedesse di nuovo.

L’autore: Fernando Rennis è critico musicale e scrittore

Ogni tribunale smentisce Piantedosi. Ma la persecuzione delle Ong continua

Ieri è successo, ancora. Ogni volta che un giudice, un qualsiasi giudice, deve decidere sulla legittimità delle sanzioni imposte alle navi che salvano le vite in mare si finisce con l’annullamento o la sospensione dei provvedimenti. Il cosiddetto decreto Cutro, che ha inventato il reato di troppo salvataggio per sabotare le Ong, è sostanzialmente illegale.

Ieri è stato annullato il fermo amministrativo della Sea-Watch 5, accusata di non aver chiesto il permesso alle autorità libiche prima di soccorrere persone in pericolo di vita nel settembre 2023, ed è stata sospesa una multa per Aurora, l’assetto veloce di Sea-Watch, che nel giugno del 2023 si rifiutò di raggiungere un porto troppo lontano scegliendo di tutelare la sicurezza delle persone soccorse.

Sea-Watch parla di “provvedimenti pretestuosi, privi di qualsiasi fondamento giuridico, pensati per scoraggiare, danneggiare e tenere lontane dal Mediterraneo centrale le navi della società civile”. Ci siamo abituati al gioco tetro del ministro Piantedosi di assegnare porti lontani alle navi di salvataggio per lasciare scoperto il Mediterraneo. Ci siamo abituati ai fermi e alle multe che piovono dopo ogni attracco. Ci siamo abituati alla voce dei tribunali che ripete sempre lo stesso concetto: quelle leggi sono illegali.

Un governo che si ostina a imporre leggi fuorilegge può avere solo un unico scopo, quello di puntare allo scoraggiamento come elemento deterrente per le operazioni umanitarie. Immaginate che fine farebbe un qualsiasi direttore in una qualsiasi azienda che si ostina a mettere regole irregolari.

Buon martedì.

Elezioni in Ecuador: Luisa González (cs) conquista il ballottaggio contro il presidente uscente. Ecco tutti gli scenari possibili

Dopo una lunga giornata elettorale cominciata alle 7 e terminata alle 17 in Ecuador è giunto il primo verdetto: per conoscere il nome del prossimo o della prossima presidente della repubblica bisogna aspettare i risultati del ballottaggio fissato per il prossimo 13 aprile. A contendersi il mandato saranno: Daniel Noboa, il presidente uscente, e Luisa González, già candidata alle elezioni del 2023. Se dovesse vincere di nuovo Noboa, l’Ecuador dovrà continuare a subire le politiche neoliberiste applicate già negli ultimi sette anni con i presidenti di destra Moreno e Lasso. Un paradigma di sviluppo che ha smantellato lo stato sociale costruito nei primi dieci anni del XXI secolo dall’economista progressista Rafael Correa. La vittoria di Luisa González, rappresenterebbe un cambio di tendenza e un recupero del ruolo dello Stato e del settore pubblico. La candidata del centrosinistra ha dichiarato in campagna elettorale che tra i punti principali della sua azione di governo ci sarà l’aumento delle risorse per la Salute e per l’educazione, ridotte al minimo da Noboa. Inoltre, ha garantito una maggiore attenzione al mondo del lavoro, sempre più precario e flessibile dopo le riforme neoliberiste di Lasso e Noboa.

La giornata elettorale è stata caratterizzata da almeno un paio di situazioni importanti. La prima è stata la presenza di ben 943 osservatori tra i quali 741 nazionali e 202 internazionali tra cui i delegati dell’Unione Europea e quelli dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea). La forte presenza dei delegati internazionali, in aumento rispetto alle ultime due elezioni del 2021 e 2023, indica una preoccupazione costante di presunti brogli elettorali da parte di più candidati alla presidenza. Heraldo Muñoz, capo della Missione degli osservatori internazionali dell’Oea, ha detto che diversi avversari hanno accusato Noboa di non aver gareggiato ad armi pari, essendo lui sia presidente che candidato. Muñoz ha precisato che alcuni elementi raccolti destano preoccupazione e che l’Oea terrà conto delle denunce ricevute.
La seconda questione che ha caratterizzato la giornata elettorale è stato l’imponente dispiegamento di militari e poliziotti ai seggi in tutto il Paese. Erano lì a ricordare che nel 2023 l’Ecuador è stato dichiarato il Paese più violento dell’America Latina. Un trend che sembra confermato dai dati del ministero dell’Interno giacché nel solo mese di gennaio del 2025 ci sono stati 750 tra omicidi e morti per cause violente, la cifra più alta degli ultimi 10 anni. A pesare su questo dato contribuisce il decreto 111/24 di Noboa che ha di fatto dichiarato guerra a una serie di organizzazioni criminali presenti in tutto il territorio nazionale.

I dati ufficiali del Consiglio nazionale elettorale, con il 79% degli scrutini effettuati dicono che Daniel Noboa ha conquistato il 44.17% dei consensi e Luisa González il 44.44%. Uno scarto di appena 20 mila voti separano i due maggiori protagonisti della disputa elettorale. Sorprende positivamente il terzo posto di Leonidas Iza, il candidato della Conaie (la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) che ora potrà essere determinante al ballottaggio con il suo 4.8%. Tuttavia, non è scontato che al secondo turno Iza dia indicazione di voto per Luisa González. Nelle due precedenti tornate presidenziali (2021 – 2023) il movimento indigeno ha optato a maggioranza per i candidati della destra. Una grave e pesante contraddizione politica ed ideologica quella del movimento indigeno ecuadoriano.
Quasi inesistenti sono gli altri 13 candidati, avendo raccolto complessivamente il 6.6% dei consensi. Spicca solo il 2.7% racimolato da Andrea González del partito social patriottico di Lucio Gutiérrez, già presidente dal 2003 al 2005. A pesare nel ballottaggio potrebbero essere coloro che al primo turno hanno annullato la scheda essendo stati ben il 6,8%. La loro decisione potrebbe pesare nella vittoria finale di un candidato o dell’altro.

L’analisi territoriale del voto ci dice che Noboa prevale in 14 regioni soprattutto della zona Andina e dell’Amazzonia. Invece la candidata González di regioni ne ha conquistate dieci, tutta la zona costiera e alcuni distretti dell’Amazzonia. La roccaforte correista continua ad essere la regione di Manabí dove, con votazioni bulgare, González ha preso il 64% dei voti contro il 29% di Noboa. Bel risultato di Loenidas Iza nel Cotopaxi, la “sua regione”, dove ha conquistato il 28.7% piazzandosi al secondo posto. I risultati rispecchiano generalmente la tendenza delle elezioni di novembre 2023. Qualcosa è cambiato nelle sezioni estere dove per la prima volta il voto correista ha perso l’egemonia a discapito di Noboa che ha vinto praticamente ovunque. Un po’ meglio è andata alla González solo in Europa dove pure non ha vinto ma la presenza di Rafael Correa in Belgio, dove si trova in esilio dal 2017, ha pesato sul risultato finale.

Analizzando il voto dell’Assemblea Nazionale emergono dei dati interessanti da non sottovalutare: il primo elemento è la vittoria del partito ADN del presidente uscente che conquisterebbe più componenti del partito della Revolución Ciudadana. Dopo almeno 12 anni sarebbe un dato storico. Questo dato influirà sulla stabilità politica del nuovo governo. Se dovesse vincere Noboa, non ci sarebbero problemi in quanto avrebbe la presidenza e l’Assemblea dalla sua. Se invece dovesse vincere Luisa González per lei sarà più difficile governare con il Parlamento contro. A questo punto sarebbero determinanti i 5 – 6 assembleisti che dovrebbe conquistare il candidato Leonidas Iza. Se si alleano Luisa Gonzáles e Loenidas Iza ci sarebbe un governo organico e stabile. Staremo a vedere.

In foto, Luisa Gonzáles

Se chiama il ministro, il bonifico è servito: truffati, ma servili

Alcuni tra i migliori imprenditori del Paese sono cascati come polli in una truffa architettata con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Per farla breve, un presunto collaboratore del ministro della Difesa Guido Crosetto avrebbe telefonato a Giorgio Armani, Marco Tronchetti Provera, Patrizio Bertelli, alle famiglie Caltagirone e Del Vecchio tra martedì e giovedì della scorsa settimana, chiedendo un bonifico urgente per liberare alcuni «giornalisti italiani rapiti in Medio Oriente». La voce del ministro sarebbe stata clonata o perfettamente imitata, risultando oltremodo verosimile. Almeno in due hanno pagato. Il bonifico è andato a buon fine.

C’è quindi un milione di euro che giace su conti esteri, che gli investigatori stanno cercando di congelare prima che finisca nelle mani dei malfattori. Il ministro in persona ha denunciato l’episodio. La Procura si muove.

Tacito accennava alla “cupiditas serviendi”, ovvero l’eterna “cupidigia del servire di cui l’essere umano è affetto”. Uno dei nodi di questa antipatica situazione risiede infatti nella celere disponibilità di un pezzo dell’imprenditoria italiana ad allargare i cordoni della borsa, mettendosi in allerta alla prima (finta) telefonata di un uomo di potere. Mi pare che in pochi stiano riflettendo sulla disponibilità a bonificare il potente di turno in nome di una non meglio precisata ragion di Stato, che prevederebbe pagamenti sommersi e immediati.

C’è un tema di promiscuità con il potere, oltre alla superficialità, che dovrebbe interrogare più della stessa truffa. Non sta accadendo.

Buon lunedì.

Family life ad alte dosi di psicofarmaci. Il nuovo spettacolo di Eleonora Danco

Il teatro Vascello a Roma presenta fino al 16 febbraio un testo inedito della regista, attrice e drammaturga Eleonora Danco (il suo lungometraggio del 2014 N-Capace è disponibile su raiplay). Il dramma Bocconi amari – semifreddo – in prima nazionale) si sviluppa intorno a due scene, due compleanni, prima quello della madre e poi quello del padre, due momenti nei quali si incontrano e si scontrano le traiettorie dei personaggi. Sulla scena una famiglia, (due fratelli, Luca e Pietro e una sorella, Paola) nella quale il tempo ha eroso i rapporti umani fino a ridurli a vuoti rituali. L’unica cosa di cui sono capaci i personaggi è scaricare le proprie frustrazioni sugli altri familiari. Nella seconda scena, dopo la morte della madre, la famiglia si riunisce per il compleanno del padre, ma i rapporti umani risultano ancora più degradati e tutti i personaggi sono ormai prigionieri delle proprie nevrosi e delle proprie angosce, a cui il crescente consumo di psicofarmaci rappresenta l’unico rimedio. La figlia, rimasta accanto al padre, è una presenza muta avvolta in un sacco nero, che simboleggia la sua condizione, e per tutta la scena del pranzo deambula prona su un carrello. Attraverso alcuni flashback lo spettatore può entrare nel mondo dei personaggi e comprendere come e perché sono arrivati al punto in cui si trovano.
Il linguaggio del dramma è quello più universale, semplice e colloquiale e la realtà che lo spettatore vede sulla scena è quella di uno dei tanti interni in cui la famiglia, gradualmente, si trasforma in un guscio vuoto perché il tempo corre, come un piano inclinato, verso la vacuità. Il dramma si chiude con un breve monologo del personaggio di Paola, nel quale racconta il suo trauma e il disagio mentale che ne è conseguito.
L’autrice (tra l’altro anche interprete del testo in questione), nata a Roma ma vissuta per tutta l’infanzia e l’adolescenza a Terracina, rappresenta una delle figure più interessanti nella drammaturgia contemporanea. Nel 2009 era uscita per i tipi di Minimum fax Ero purissima, la raccolta di testi teatrali di un decennio, quella che allora poteva essere considerata la più grande rivelazione del «giovane teatro arrabbiato» degli ultimi anni, è diventata una realtà nel panorama del teatro italiano. Il lungometraggio del 2014, premiato Torino Film Festival nelle categorie miglior film e miglior cast d’insieme, appare come una sorta di “estensione” della sua poetica al mondo del cinema. Vagamente ascrivibile alla categoria della docu-fiction, N-capace può essere considerato la sintesi dei meccanismi che muovono la sua drammaturgia: prima di tutto un folle amore per la realtà, nei suoi aspetti più crudi e indecorosi, per i personaggi marginali e per gli adolescenti. Dacco ci sbatte in faccia la disperazione e la nevrosi quotidiana delle nostre città. I suoi testi per il teatro e il suo lungometraggio sono un concentrato di rabbia e poesia, espresso in un linguaggio crudo ma pieno di grandi invenzioni e illuminazioni improvvise, che l’ha portata a diventare attrice cult.
Quello proposto (e prodotto) dal Teatro Vascello, rappresenta quindi l’approdo di una ricerca, o meglio, un’indagine sulla realtà, che va avanti da più di venti anni. Bocconi amari – semifreddo è solo un frammento di un mondo più vasto, che uno spettatore interessato alla drammaturgia contemporanea non può e non deve ignorare. E se nel teatro italiano c’è ancora spazio per nuovi autori, in questo caso è opportuno, persino necessario dedicare maggiore attenzione a un’autrice come Eleonora Danco.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e docente universitario

In foto un’immagine lancio dello spettacolo, courtesy Teatro Vascello

Bullismo, come si previene. Come si interviene

“Quando mi sveglio la mattina comincia il mio inferno. Non voglio alzarmi. Alzarmi significa andare a scuola. Non ce la faccio. Mi viene la nausea al pensiero. Le gambe si paralizzano. La rabbia che provo rimane tutta dentro, mi sento scoppiare. Dai ce la puoi fare mi dico. Non possono farti nulla. Sei forte. No, non ce la faccio, sono più forti loro. Fai schifo, ciccione, levati dalla nostra vista, sparisci. E io sparisco veramente”.
Le parole che abbiamo letto colpiscono per la loro crudezza, soprattutto se immaginiamo il dolore di chi le prova, spesso un ragazzo o una ragazza poco più che bambini, talvolta bambini stessi.
Torna in mente  quel che ha scritto sui social di Lodo Guenzi, leader dello Stato Sociale: «Mi chiamavano Cinzia, come il nome di una bici da donna». Il cantante, per la prima volta, rivela di essere stato “bullizzato” da ragazzino perché “troppo esile, effeminato, biondino”.
Ormai si parla ovunque di bullismo, un fenomeno sociale dilagante e pervasivo, che vede coinvolti bambini e adolescenti e preoccupa genitori, insegnanti e la società in generale. Così pericoloso che Amnesty International lo ha definito una violazione dei diritti umani, perché mina l’identità psico-fisica di chi lo subisce. La diffusione del bullismo rappresenta quindi una sconfitta per la società intera.
Ancora più pericolosa è la deriva virtuale del bullismo, il Cyberbullismo, che trova terreno fertile, tra i ragazzi, nella grande diffusione dell’uso di social network. Un fenomeno attraverso il quale ragazze e ragazzi, nascondendosi dietro l’anonimato dello schermo, possono diventare ancor più aggressivi e violenti. La rete amplifica l’onnipotenza di chi agisce la violenza, che è dunque molto più subdola e difficile da contenere e da sconfiggere. Le vittime sono continuamente sottoposte a insulti e denigrazioni attraverso messaggi postati sui social o foto condivise sulle chat e, in questo modo, non si sentono sicure neanche a casa loro. Episodi del genere si sono purtroppo verificati anche durante la fase, da poco conclusa, di didattica a distanza: è di maggio la notizia di una ragazza disabile insultata e offesa sulla chat di classe da alcuni compagni durante una videolezione di musica.
Il fenomeno è presente tra i giovani in modo trasversale; le ricerche rilevano dinamiche di bullismo-vittimizzazione in circa un ragazzo su quattro, con un picco tra la fine delle elementari e le scuole medie, per poi decrescere verso gli ultimi anni delle superiori.
Ma cos’è il bullismo? Cosa si nasconde dietro le azioni violente compiute dal bullo?
Per prima cosa dobbiamo delinearne bene le caratteristiche per riuscire a riconoscerlo e distinguerlo dallo scherzo, che ha ben altro significato. Uno scherzo presuppone una relazione alla pari tra i protagonisti e ha come obiettivo il divertimento di entrambi. Anche se può ovviamente capitare di fare uno scherzo che risulterà di cattivo gusto.
Il bullismo è un’altra cosa. Già negli anni 70 lo psicologo svedese Dan Olweus lo ha definito “un’oppressione psicologica o fisica, reiterata nel tempo, esercitata da una persona o da un gruppo nei confronti di un’altra persona o di un altro gruppo percepiti come più deboli”.
Le caratteristiche che lo contraddistinguono sono l’intenzionalità di fare del male, la persistenza nel tempo, l’asimmetria nella relazione, evidente nella scelta da parte del bullo della sua vittima, e la necessaria presenza di spettatori e/o gregari.
La domanda che abbiamo posto come sottotitolo del nostro libro: “È o non è cattiveria?”, è ovviamente retorica.
Non pensiamo affatto alla cattiveria che rappresenterebbe una condizione ineluttabile e insita nell’essere umano. Siamo convinte che gli esseri umani nascano sani e naturalmente non violenti, e allora per comprendere ma soprattutto per prevenire ogni espressione di prevaricazione dobbiamo cambiare radicalmente il modo di pensare. Dobbiamo pensare che dietro all’atto violento si nasconda un malessere che può e deve essere ascoltato.
Quello che colpisce è come il bullo mostri una totale mancanza di risonanza affettiva e di empatia verso l’altro. Sembra privo di sensi di colpa e tende a scaricare la responsabilità sulla vittima. Dato che non pensiamo che queste siano caratteristiche connaturate all’essere umano, tanto più se si tratta di un adolescente, dobbiamo andare a ricercare nel contesto familiare e culturale in cui il bambino cresce quei possibili fattori che possono costituire un terreno fertile per lo sviluppo di questa “disumanità”. Molte ricerche hanno mostrato come i “bulli” abbiano spesso alle spalle famiglie troppo autoritarie o distaccate emotivamente. Spesso si tratta di ragazzi che respirano fin da piccoli un clima violento e punitivo, più o meno manifesto.
Inoltre, si è visto che è proprio il contesto culturale di riferimento ad influire maggiormente sull’incidenza del bullismo.
Se il ragazzo è inserito in un contesto sociale in cui la prepotenza e la sopraffazione tra le persone vengono considerate normali, in cui qualsiasi difficoltà è vissuta come segno di “debolezza”, rischierà di generalizzare, nei diversi ambiti della sua vita, una modalità alterata di rapportarsi con gli altri, non basata sull’interesse e la valorizzazione delle diversità come fonte di conoscenza ma come legge del più forte, dove il più forte non è altro che il più violento.
I luoghi di aggregazione in cui possono verificarsi gli episodi di bullismo sono diversi ma il contesto scolastico è quello in cui avvengono con maggiore frequenza. La scuola è il luogo della crescita personale e culturale, quello in cui bambini e ragazzi vivono gli anni cruciali per lo sviluppo e la definizione della propria identità: si separano gradualmente dalle figure genitoriali e cercano sempre di più il contatto con i pari. È anche il luogo della socializzazione: si impara e si cresce insieme. Per cinque o sei giorni alla settimana e per almeno metà della giornata, il confronto con compagni e insegnanti è continuo. Nonostante di bullismo a scuola si parli molto, spesso si interviene solo in caso di atti gravi e manifesti. Come mai? Il bullismo è un fenomeno subdolo, perché il bullo agisce, generalmente, nei momenti o negli spazi in cui è più difficile essere visto dagli insegnanti o dal personale scolastico: i cambi di aula, i bagni, gli spogliatoi, il percorso di ingresso o uscita dall’istituto. Esistono varie forme di bullismo: una diretta in cui la violenza è pressoché fisica e verbale e una indiretta, più pericolosa e ancora più difficile da individuare che si manifesta con l’annullamento dell’altro e l’esclusione dal gruppo. Come se il ragazzo o la ragazza presa di mira non esistessero. È una forma subdola e silenziosa ma può avere conseguenze anche molto gravi sulla vittima che, sentendosi invisibile, può convincersi di non contare davvero nulla. Gli insegnanti, con un’adeguata formazione, professionale e personale, possono avere un ruolo importantissimo. Sicuramente l’attenzione ad eventuali campanelli d’allarme permette di intervenire tempestivamente. Ciò che a nostro avviso può fare la differenza è la relazione: il clima in classe è strettamente legato al rapporto di fiducia e rispetto che l’insegnante riesce ad instaurare con gli studenti; solo stimolando la collaborazione e il dialogo in classe è possibile promuovere la coesione all’interno del gruppo, fondamentale per evitare lo sviluppo di dinamiche di prevaricazione o esclusione. È necessario, ovviamente, coinvolgere anche i genitori, come avviene in molte iniziative di sensibilizzazione, progetti o programmi di prevenzione attuate negli istituti scolastici in collaborazione con forze dell’ordine, servizi territoriali e associazioni.
Possiamo scorgere in questi programmi di prevenzione proprio il tentativo di promuovere un cambiamento culturale partendo dall’idea che il debole, lo “sfigato”, non sia in realtà la vittima di atti di bullismo ma chi non riesce a rapportarsi all’altro se non sulla base della sopraffazione e della prepotenza. Per chi si occupa di prevenzione del bullismo nei vari contesti risulta evidente che non può esserci prevenzione laddove non venga scardinata una cultura che ritiene gli esseri umani malvagi o costituzionalmente malati per loro stessa natura. Se quindi il bullismo non viene derubricato a una forma di violenza insita in chi l’agisce ma considerato il risultato di qualcosa che non è andato come avrebbe dovuto nello sviluppo psichico di quella persona, è possibile prevenirlo e laddove sia intercettato, intervenire con una finalità terapeutica. La psicoterapia, in particolare la psicoterapia di gruppo si rivela molto utile nel trattamento sia di vittime che di bulli. Attraverso il rapporto con gli altri e il confronto, infatti, i ragazzi possono iniziare ad affrontare le proprie difficoltà relazionali che, come abbiamo detto, sono alla base del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. Solo così si potrà tentare di modificare o addirittura evitare lo sviluppo degli effetti devastanti nel breve e nel lungo periodo che queste forme di violenza possono determinare.

Le autrici: Marzia Fabi è psicologa e psicoterapeuta; Nella Lo Cascio e Fiorella Quaranta sono psichiatre e psicoterapeute; Eleonora Serale è insegnante.
Questo testo è uscito originariamente su Left il 26 giugno del 2020 in occasione dell’uscita del loro libro Il bullismo. E’ o non è cattiveria? (L’Asino d’oro edizioni)

Oltre Trump, la rivincita dell’imperialismo capitalista (bianco)

Cambierà qualcosa nell’ordine internazionale? L’irruzione sulla scena del nuovo Trump farebbe presagire di sì. Anche se buona parte della politica del neo-eletto presidente americano sembra rispondere al principio del “fare rumore, che qualcosa comunque resterà”, è pur vero che dietro alle minacce e alle iniziative ventilate qualcosa si muove. La tattica di Trump, come ha argomentato il suo ideologo Steve Bannon, è quella di «flooding the zone», infangare le acque (diremmo noi), così da confondere gli avversari che non sapranno più su cosa focalizzarsi, dimenticando le questioni più urgenti a favore di quelle più eclatanti ma meno importanti. Tuttavia, se l’approccio di Trump a commercio ed economia è stato da più parti definito “sconsiderato”, non per questo non nasconde quello che ormai pare essere lo stato delle cose: gli Stati Uniti si sentono minacciati, la loro economia è in buona salute ma il loro deficit commerciale ha ormai raggiunto i tremila miliardi di dollari e il loro predominio tecnologico e finanche finanziario appare sempre più in discussione.
Il ritorno di Trump è stato uno shock, per le proporzioni che sta avendo. Il sovvertimento della costituzione statunitense, l’impudenza con la quale sbeffeggia anni di “correttezza” e perfino la buona educazione, la mano forte che mostra su immigrazione e lealtà dell’apparato fanno di questo “Trump 2, la vendetta” un pericolo. Ma il sentimento profondo dal quale egli pesca esiste e rischia solo di polarizzare una nazione divisa e inguaribilmente affetta dai suoi vecchi mali: il razzismo e il suprematismo che fu già dei settler originari, un capitalismo e un sistema economico fondamentalmente classista. Il problema, poi, è che il Trump “forte”, sulla scena internazionale, rischia di muoversi come un elefante, avendo però in mente ben chiari gli obiettivi di fondo di chi lo sostiene, l’élite tecno-capitalista in primis: la supremazia e il dominio imperiale, oggi messi in discussione.
Se Trump sarà capace di “far pace” in Ucraina, convincendo Putin a fermarsi e Zelensky a mettersi da parte, rinunciando alla Nato e ai territori occupati, sarà solo perché vorrà portare il presidente russo dalla sua e rompere l’alleanza in via di consolidamento con Cina e Iran. Qualcosa dovrà pur dargli in cambio, e non sarà l’autorizzazione a far “come gli pare” in Groenlandia e a Panama, avallando così l’annessione di parte dei territori ucraini. Piuttosto, sarà il disimpegno con la Nato – lasciata agli indecisi Europei – che dovranno così provvedere a sé, rimanendo però ben saldi sotto il predominio USA. Aver fermato Netanyahu dichiarando che ora ci penseranno gli USA a far quella “pulizia etnica” che è da sempre l’obiettivo dei sionisti lascia interdetti, ma nessuno, da questa parte del mondo, sembra voler obiettare.
Il multipolarismo è ormai un dato di fatto, in cui i cinesi di antica saggezza, peraltro, appaiono molto meno minacciosi di come sono stati i bianchi euro-americani per secoli, essendosi imposti più con la spada prim’ancora che con il soldo. Nel torbido gioco degli interessi, però, ambigui appaiono gli sceicchi come gli indiani di Modi – quel che succede in India, di cui non si parla, è nazismo – e isolati gli iraniani, mentre il cancro della “unica democrazia del Medio Oriente” non smette di espandersi. Gli Stati Uniti sono stati capaci di mettere al laccio l’UE – con la crisi ucraina privandola di un formidabile partner commerciale – mentre hanno lasciato fare Israele, l’altro braccio dell’imperialismo euro-atlantico. Ma con ciò si sono isolati dal resto del mondo, che ora più che mai guarda all’Occidente con timore.
Il fatto è che, però, noi europei siamo totalmente dipendenti: tecnologicamente, militarmente, culturalmente. Non c’è leader europeo, uomo o donna che sia, che potrebbe fare il discorso che ha tenuto Claudia Chenbaum, presidente del Messico. Il predominio tecnologico e finanziario delle Big Tech è ormai incommensurabile, anche se incalzato dagli asiatici nelle tecnologie energetiche e dei trasporti. L’influenza mediatica di Musk e dei suoi sodali è finanche sottostimata e il loro potere di controllo e suggestione immenso. Non sembriamo renderci conto che stiamo soggiacendo silenziosamente ad una orwelliana dittatura, ben oltre ciò che è apparente e ci “scandalizza” (come il sostegno di Musk a AfD). L’automa ormai guida le nostre vite, le controlla, possiede tutti i nostri dati, è in grado di influenzare i nostri umori e le nostre convinzioni e noi sembriamo non accorgercene, indifferenti.
Il tutto mentre le nostre società ristagnano, le disuguaglianze si acutizzano, incancrenendosi, e il corpo sociale, frammentato, agonizza tra un benessere che vede sfuggirgli di mano e la paura (indotta) che gli venga sottratto dalle orde di diseredati del mondo pronti ad assalirlo. E così, dà corda ai suonatori di flauto delle destre reazionarie che promettono “protezione” e “sicurezza”, nell’assenza delle sinistre, perse nella difesa dei “diritti”, incuranti delle concrete condizioni di vita e di lavoro, lasciate al mercato. Mentre i liberal abbaiano ai nuovi autocrati che starebbero “rovinando” le democrazie, quando è stato il neoliberismo, in primis, che ha portato allo sfascio, lasciando ai margini le crescenti masse di non protetti.
Più si guarda a queste tendenze nel loro complesso più diviene chiaro che quelli non faranno la guerra mondiale, perché non è questo ciò che vogliono. È la guerra civile globale che vogliono, la guerra tra i poveri e la guerra per riaffermare, una volta e per sempre, il predominio dei ricchi (bianchi). Il capitalismo bianco e senile sta reagendo, sentendosi assalito, e non esita più, perché il sistema è più importante del suo ormai vuoto involucro democratico: difendere le cittadelle del benessere, le nuove “enclosures”, respingere, esasperare, finché i “poveri” non tenteranno l’assalto al palazzo, e allora li si potrà sterminare. Non è forse questo ciò a cui punta Musk? Il caos, prima che l’automa ci prenda tutti per mano, tanto, comunque, alla nostra estinzione stiamo già provvedendo da soli.

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario all’Università di Bologna. Insegna Economia dello sviluppo ed Economia dello sviluppo internazionale. Il suo nuovo libro s’intitola Le classi sociali in italia oggi (Laterza) 

Intanto l’Italia cola a picco

Il ministro Giorgetti

Mentre il governo si contorce tra le polemiche per il caso Almasri e per gli attivisti spiati dai servizi, l’Italia affonda. Non per modo di dire, ma con i numeri alla mano: l’Ufficio parlamentare di bilancio ha smentito le previsioni trionfali di Giorgetti, confermando che la crescita economica rimarrà sotto l’1% almeno fino al 2026. Dopo il +0,7% del 2024, si prevede un misero +0,8% nel 2025 e un +0,9% nel 2026, ben al di sotto delle stime del governo. Il divario tra le promesse e la realtà si amplia di quattro decimi rispetto alle previsioni del Piano strutturale di bilancio. Un’economia stagnante, intrappolata tra promesse elettorali irrealizzabili e una realtà che presenta il conto. E il peggio deve ancora arrivare: senza il traino del Pnrr, dopo il 2026 l’Italia rischia di ritrovarsi senza alcun paracadute.

Il dibattito pubblico è altrove. Si litiga sui voli di Stato, sulle faide interne ai partiti e su un’operazione di intelligence pasticciata che ha rispedito in Libia un trafficante di esseri umani accolto come un eroe. Ma c’è anche un Paese che si sta lentamente spegnendo, mentre il governo continua a insistere su previsioni di crescita ottimistiche che vengono puntualmente smentite. La guerra commerciale annunciata da Trump potrebbe peggiorare ulteriormente il quadro, con dazi che penalizzerebbero le esportazioni italiane, mentre il costo del gas, già elevato, potrebbe aggravarsi con l’inasprirsi delle tensioni geopolitiche. I

Si può ignorare la matematica per un po’, si possono raccontare favole di ripresa e resilienza. Ma alla fine i numeri tornano sempre.

Buon venerdì. 

In foto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti

Jacopo Teolis, fra jazz e musica classica un ponte di suoni

il musicista e compositore Jacopo Teolis

Jacopo Teolis è un trombettista e compositore romano (classe 1999) che, dopo una serie di rassegne e festival, sta emergendo, come dimostra il premio “Giovane visionario” de Il Jazz italiano per le terre del sisma conferitogli a L’Aquila nel 2023. Lo abbiamo incontrato per l’uscita, il 7 febbraio, del suo album di debutto The Moving Forest (Parco della Musica Records). È un progetto che si propone di creare un ponte tra il jazz moderno e contemporaneo e la musica classica, che rimanda ad un approccio orchestrale di ampio respiro, anche se con un ensemble di soli sei elementi.

Come è nata la tua passione per la musica ed in particolare per il jazz?

Ho iniziato a sei anni in una scuola molto particolare, molto inclusiva, con degli insegnanti fantastici con i quali facevamo musica durante l’orario scolastico. Ho cominciato con la batteria e le percussioni africane per poi passare a nove anni alla tromba dopo che un insegnante ci aveva fatto ascoltare “La vie en rose” suonata da Louis Armstrong. Il modo in cui esegue il tema, il calore e la brillantezza del suo timbro mi suonavano nuovi e pieni di vita; ricordo che pensai “questo è il suono più bello del mondo!”. Poi ho frequentato le scuole medie ad indirizzo musicale e al liceo ho studiato privatamente con vari maestri, per poi approdare al conservatorio a Siena Jazz dove ho conosciuto alcuni dei miei musicisti preferiti. Da qualche mese vivo a Londra dove ho iniziato un nuovo master of arts alla Royal Academy of Music.

L’Ora, il giornalismo a schiena dritta

ttraverso un lavoro scrupoloso, frutto di anni di archivio e di approfondita conoscenza della bibliografia e storiografia sul tema, Ciro Dovizio ricostruisce ne L’alba dell’antimafia (Donzelli) la storia de L’Ora, quotidiano della sera palermitano, concentrandosi in particolare su quella coincidente con la direzione di Vittorio Nisticò (1954-1975), giornalista calabrese inviato in Sicilia nel 1954, dopo l’acquisizione del giornale da parte del Pci, il quale avvia, insieme allo straordinario ed eterogeneo gruppo redazionale che riunisce attorno a lui (da Mario Farinella ad Aldo Costa, da Antonio Sorgi a Felice Chilanti, da Leonardo Sciascia e Danilo Dolci – solo per citare alcuni della redazione “storica” -, sempre affiancati da fotoreporter di grande rilievo, tra i quali si annovera anche Letizia Battaglia), le prime battaglie giornalistiche contro la mafia, fenomeno allora sostanzialmente assente dalle testate sia nazionali sia locali e dai notiziari televisivi, peraltro allora agli albori.