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Dopo 50 anni in carcere l’attivista indigeno Leonard Peltier “liberato” da Biden

Finalmente dopo mesi di raccolta firme, messaggi, lettere, appelli a Joe Biden per promulgare la executive clemency e pressioni sulla stampa mainstream per poter continuare a sensibilizzare sulla condizione di Leonard Peltier, ieri è arrivata la commutazione della pena.
Quando venne arrestato, il destino di Peltier era già segnato. Il processo fu una farsa che ricalcò un copione già scritto, con prove inesistenti o costruite e testimonianze ritrattate. La giuria che condannò Peltier era formata da soli bianchi in una città come Fargo, storicamente anti-indigena, e il processo venne presieduto da un giudice noto per il suo razzismo. Dopo cinque anni, accurati esami balistici riuscirono a provare che i proiettili che uccisero i due agenti non appartenevano all’arma di Leonard, e molti dei testimoni che lo accusarono ritirarono le loro dichiarazioni, confessando di essere stati minacciati dall’Fbi. Nel 2021 a chiedere la grazia per Peltier è stato James H. Reynolds, lo stesso procuratore capo nel caso Peltier ed ex procuratore degli Stati Uniti, il quale ha scritto a Biden dicendo: «Scrivo oggi da una posizione inconsueta per un ex pubblico ministero, per supplicarvi di commutare la pena di un uomo che ho contribuito a mettere dietro le sbarre. Con il tempo e col senno di poi, mi sono reso conto che il procedimento giudiziario e la lunga incarcerazione del signor Peltier erano e sono ingiusti». Un’ammissione di colpa che ci porta a dire chiaramente che nel 1976 Peltier fu condannato a due ergastoli, dopo un processo segnato da razzismo anti-indigeno, discriminazione e pregiudizio.
Ieri, Joe Biden, al posto di dare la executive clemency a Peltier per fare pace con gli anni Settanta ed ammettere le responsabilità degli Usa in un tale episodio di repressione, ha deciso di dare un contentino.
Non sappiamo sinceramente se possiamo cantare vittoria. Non era ciò che ci aspettavamo. Stiamo parlando di un ottantenne innocuo detenuto ingiustamente da circa cinquant’anni per motivi politici, le cui condizioni di salute sono drasticamente peggiorate negli ultimi mesi. Sicuramente, se Leonard Peltier sarà arresti domiciliari e non rinchiuso al buio di un carcere, è merito di tutti coloro che in questi mesi hanno fatto pressioni costringendo il governo a prendere una decisione diversa, ma non crediamo che un contentino sia una “vittoria”. Non crediamo che si possa chiamare “vita” una vita vissuta fino a trent’anni e sospesa fino agli ottanta. L’America suprematista, ancora una volta, decide di non voler fare i conti con il proprio maccarthismo, la sua repressione e la sua violazione dei diritti umani.

L’autore: Lorenzo Poli fa parte di Free Leonard Peltier Now Italy, coordinamento di giornalisti per la liberazione di Leonard Peltier.

Nella foto: cartello per la liberazione di Leonard Peltier a Detroit, 2009

“Vite a perdere” su Rai Tre. Il traffico di organi nell’Iraq devastato dalle guerre

Nell’ambito del format Il fattore umano oggi su Rai tre (23.15) e poi su Raiplay viene trasmesso il reportage Vite a perdere. Ecco il racconto di Nancy Porsia coautrice con Mario Poeta.

È sera e Hussein rincasa dopo una lunga giornata di lavoro a Sadr City, quartiere sciita alla periferia di Baghdad. La stradina davanti a casa è buia, i lampioni fuori uso. È stremato dopo aver passato la mattina nella azienda della Coca Cola di Baghdad ad imballare colli di lattine e bottiglie pronti per essere spediti in giro per il paese, e dopo una breve pausa, altre cinque ore nel traffico sfiancante di Baghdad alla guida del suo minivan a raccattare passeggeri per la città.

Hussein era in un caffè con degli amici qualche mese fa quando al tavolo accanto due ragazzi discutevano della possibilità di vendersi un rene per guadagnare migliaia di euro in un colpo solo. Da quel giorno per Hussein la soluzione a tutti i suoi problemi è vendersi un rene. Orfano di padre dall’età di due anni, unico figlio maschio, ha iniziato a lavorare sin da bambino per garantire alle sue tre sorelle una vita minimamente dignitosa.

«Oggi le mie sorelle sono sposate, e quindi ho meno spese» dice Hussein ma con i due lavori insieme ogni mese continua a fare fatica a pagare l’affitto della casa dove vive con sua madre. Con quei ventimila euro di cui ha sentito parlare al caffè qualche mese fa riuscirebbe a comprarsi un posto di lavoro governativo che gli garantirebbe la stabilità necessaria per potersi sposare garantendo insieme a sua madre e la sua futura moglie una vita dignitosa. Nonostante la stanchezza, si infila gli shorts e le scarpette da calcio per giocare a pallone con i suoi amici. «È uno dei pochi momenti di relax che mi concedo» dice mentre si chiude dietro di sé il portellone del minivan davanti ad uno dei tanti campi di calcio di Sadr City.

Um Yousef invece ha già venduto il suo rene due anni fa. Madre di due bambini malati, divorziata, rischiava di finire per strada. «Un giorno stavo cercando tra le pagine social informazioni sui centri di autismo per mio figlio malato quando il mio feed social mi ha mostrato un annuncio sulla vendita di reni come occasione di guadagno immediato», racconta la donna che ha circa trent’anni. Um Yousef ci ha pensato per settimane, poi si è messa alla ricerca di un broker. Per giorni i numeri trovati online o passati da conoscenti risultavano già staccati. Un giorno qualcuno le ha risposto dall’altra parte del telefono, e le ha offerto circa ventimila dollari. Qualche giorno dopo un uomo sulla cinquantina la aspettava al Medical City Center di Baghdad dove avrebbe dovuto effettuate esami necessari, e un mese dopo in sala operatoria, sempre nell’ospedale governativo che si affaccia sul fiume Tigri. «Ho solo chiesto all’uomo di garantire il pagamento anche in caso io fossi morta. Ho pensato: anche se muoio, i miei figli avranno di che mangiare e un tetto sulla testa» dice mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime. Come pattuito, appena il rene le è stato espiantato, il broker ha consegnato i soldi in una valigetta a sua madre che era in sala d’attesa. «Quell’uomo ha aspettato che mi svegliassi per accertarsi che stessi bene. Una brava persona» continua Um Yousef, dimessa poche ore dopo l’asportazione del suo rene senza alcuna prescrizione medica ma solo il consiglio di assumere degli antidolorifici.

Guerre che si susseguono una dopo l’altra, l’invasione americana e la caduta di Saddam Hussein, la faida tra sciiti e sunniti, lo Stato Islamico e la guerra per debellarlo: venti anni di bombe, conflitti armati e attentati hanno prodotto oltre due milioni di iracheni rifugiati all’estero, e altrettanti sfollati interni. La corruzione ai vertici dei governi che si sono succeduti ed il moltiplicarsi di milizie settarie che nel frattempo hanno conquistato il pieno controllo del territorio hanno fatto sprofondare il paese in uno stato di povertà estrema: la disoccupazione tra i giovani è circa al 25,6% e il 23% della popolazione spende meno di 2,2 dollari al giorno. In un presente complicato da vivere con un futuro difficile da immaginare, i traffici illeciti oggi in Iraq sono l’unico ammortizzatore sociale per un paese in piena economia di guerra. I corpi di queste migliaia di disperati, anzi pezzi dei loro corpi, rappresentano per i professionisti del business una ottima opportunità di guadagno considerando che la disparità tra disponibilità di organi e numero di pazienti nelle liste di attesa si va ampliando a livello globale, soprattutto in Iraq.

«Ora però i soldi sono finiti» dice Um Yousef mentre chiede una pausa per recuperare energie. E così che poco più che trentenne, si trova senza un rene ma anche senza la forza fisica per prendersi cura dei bambini o di lavorare. «Lo rifarei – dice con convinzione la donna – perché per oltre un anno sono riuscita a garantire a mio figlio la terapia di cui necessita in un centro specializzato. E io per i miei figli darei la vita».

Hussein sa bene che con un rene solo dovrebbe rinunciare alle sue partite di calcio: «Non mi importa, perché se riesco a sposarmi sarò contento di passare il mio tempo libero in casa con i miei figli». Tra le pagine social scorre le decine di annunci di broker alla ricerca di organi: chiama uno dei numeri di telefono tra gli annunci. Dall’altra parte del telefono un uomo gli dice: «Per il tuo rene potrei pagargli massimo diciotto mila euro, non di più perché per arrivare a ventimila dollari sarebbe stata necessaria la firma di suo padre, che però non c’è più». Il broker al telefono dice che il trapianto verrebbe effettuato ad Erbil, in Kurdistan.

In Iraq tra i tanti arabi che decidono di vendere il proprio rene molti vengono dirottati dai broker verso le cliniche in Kurdistan, tra Erbil e Sulemanya. Qui la burocrazia è più snella rispetto agli uffici governativi d Baghdad, e quindi per i broker che seguono le pratiche per conto dei loro clienti, il Kurdistan è una piazza migliore. Ovviamente sulla carta questa compravendita è una donazione a titolo gratuito.

A Sulemaniya, la seconda città più grande del Kurdistan, Farhad porta avanti la sua battaglia per la realizzazione di un ospedale specializzato sui trapianti salvavita, da quando sua sorella malata di talassemia è morta per via della mancanza di donatori di sangue. Attraverso la sua associazione Kurdistan Body Donors Organization (KBDO) promuove campagne di sensibilizzazione sulla donazione provando a togliere terreno ai trafficanti di organi. Lo vediamo nello stanzone del centro di dialisi mentre ascolta le voci dei malati renali cronici sottoposti al trattamento. Tra le persone in cura al centro, c’è un peshmerga del Patriotic tnion of Kurdistan (Puk) a cui un anno fa è stata diagnostica un’insufficienza renale cronica, e da allora è costretto a sottoporsi al trattamento di dialisi due volte a settimana. «Io comprerei un rene anche domani. Ma i broker chiedono circa 45 mila dollari, e io questi soldi non ce li ho» dice l’uomo, che alla fine ci ringrazia per raccontare questa brutta storia fatta di malattia e povertà.

L’autrice: Nancy Porsia è una giornalista freelance e producer esperta di Medio Oriente e Nord Africa. Tra i suoi libri “Mal di Libia” (Bompiani)

Il fattore umano

Il fattore umano per questo terzo appuntamento della stagione ci porta in Iraq con Vite a perdere di Nany Porsia e Mario Poeta. Il programma, che monitora il rispetto dei diritti umani nel mondo, è un format di Raffaella Pusceddu e Luigi Montebello, regia di Luigi Montebello, musiche originali di Filippo Manni e Massimo Perin.

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Le mani sporche dell’Italia: Elmasry, l’uomo che torturava per noi

Arrestato l’uomo che “fermava i migranti”. Si potrebbe dire così delle manette ai polsi messe a Njeem Osama Elmasry (Almasri) in un hotel a Torino dalla Digos di Torino nel corso di un controllo di routine.

Su di lui la Corte internazionale ha emesso il mandato di cattura lo scorso 18 gennaio per fargli scontare una condanna all’ergastolo per crimini di guerra e contro l’umanità. Le accuse sono integrate dalle contestazioni di stupro di guerra, violenze sessuali plurime e omicidio.

Elmasry è stato il capo della prigione e centro di torture libico di Mitiga e capo della polizia di Tripoli. Non si esclude una sua presunta partecipazione alle fosse comuni trovate a Tarhuna dopo il cessate il fuoco in vigore dall’ottobre 2020 su cui sta indagando la Corte penale internazionale.

Elmasry è un simbolo della Libia di oggi, dove la corruzione – anche morale – confonde criminali e poliziotti , che interpretano entrambi i ruoli. Il governo italiano continua a parlare di lotta ai trafficanti e finge di non sapere che lo sono i suoi referenti libici. Lo chiamano memorandum libico , ma è un quotidiano foraggiamento per criminali di stato che si distinguono per empietà e violenza.

Non è un caso che dalla Libia descrivano l’uomo come “noto per il suo rigore, la sua dedizione e la professionalità nell’adempimento dei compiti affidatigli per molti anni”.

Non è un caso che Elmasry sia stato arrestato in Italia: l’Italia tratta amichevolmente i criminali libici, li istruisce e gli è profondamente grata. Elmasry parla molto di noi. 

Buon martedì. 

Letteratura working class, il Premio Di Vittorio svela il vero volto del lavoro

La letteratura del lavoro in Italia ha continuato a esprimersi in forme carsiche e a fasi alterne, senza tuttavia mai esaurirsi, registrando aspettative, descrivendone la realtà mutevole, i cambiamenti, i soggetti e la loro cultura, le sconfitte e le nuove realtà. Il nuovo secolo si apre con La dismissione di Ermanno Rea (2002) sullo smantellamento dell’Italsider di Bagnoli, non a caso definita “opera ponte”, e con Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia, sottotitolato in modo illuminante “Romanzo tragicomico di una telefonista precaria”. Due testi che registrano la profondità delle trasformazioni tra vecchio e nuovo mondo del lavoro. Da allora si sono ovviamente susseguite altre opere di autori come Simona Baldanzi, Angelo Ferracuti, Alberto Prunetti, Stefano Valenti, Vitaliano Trevisan e altre e altri.
Contemporaneamente, nella società, o per lo meno in una parte più avvertita di essa, alla retorica sulla fine del lavoro e la scomparsa della classe operaia, a partire dalla crisi del 2008/2012, si è andata sedimentando una consapevolezza sulla nuova condizione del lavoro e un conseguente interesse per la stessa letteratura del lavoro.
Se negli anni 60 e 70 del secolo scorso la letteratura del lavoro poté godere di una visibilità, una diffusione e un riconoscimento che giungeva dal ruolo del movimento operaio organizzato e dal supporto di istituzioni culturali e accademiche, oggi che quel mondo e quelle istituzioni sono crollate sotto le spallate dell’offensiva capitalistica, la Cgil di Roma e del Lazio, assieme alla Fondazione Di Vittorio e all’Istituto di Ricerca economica, storica e sociale del Lazio (Iress) si sono proposte di contribuire a colmare questo vuoto a partire dalla promozione del Premio letterario Di Vittorio, giunto alla sua seconda edizione. Nei giorni scorsi è stato pubblicato il nuovo bando del Premio Letterario introducendo, oltre le due sezioni dedicate, rispettivamente, ai romanzi editi e ai racconti inediti, una nuova sezione intitolata “I colori dei mestieri”, dal titolo di una indimenticabile poesia di Gianni Rodari, dedicato alle studentesse e agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, promosso assieme all’associazione Proteo Fare sapere Lazio.
La scadenza del bando è fissata per il 1° maggio per i romanzi editi e per il 1° giugno per i racconti brevi e per la sezione rivolta ai giovani e giovanissimi. I promotori hanno scelto con radicalità di ribaltare il punto di vista, non più esperti e intellettuali che valutano le opere (ai quali, nella giuria scientifica, è pur tuttavia attribuito un ruolo importante di supporto scientifico, selezione e sostegno) ma lavoratrici e lavoratori, delegate e delegati riuniti in una giuria popolare che valutano romanzi e racconti, che valutano e votano le opere che trattano di loro stessi, del loro lavoro e della loro vita.
La prima edizione si è conclusa il 27 settembre 2024 con l’assegnazione del Premio da parte di Maurizio Landini al romanzo di Danilo Conte Per giusta causa, una sorta di social legal thriller in cui l’autore, avvocato del lavoro, descrive con partecipazione e indignazione alcune vicende reali da lui stesso professionalmente seguite. La sestina di finalisti era composta da altri cinque romanzi: Orata in offerta di Elisa Audino (menzione speciale della Giuria scientifica), Memorie di una famiglia di guantai di Antonio Caiafa, Cronache della sesta estinzione di Stefano Valenti, Trasch di Martino Costa, e infine I 35 giorni della città di Torino di Cristiano Ferrarese. Di indubbio interesse sociologico e valore letterario i racconti (di cui i primi dieci saranno prossimamente pubblicati da Alegre) che ci segnalano uno spaccato del mondo contemporaneo del lavoro e della percezione sociale che di questo se ne ha, dal precariato agli stage gratuiti, alla sicurezza e gli infortuni sul lavoro. Il tema dei morti sul lavoro emerge nella maggioranza dei racconti a restituire volti, affetti, sentimenti e sogni, come solo la letteratura può fare, a chi in un tragico attimo tutto perse, riducendo una vita all’ennesima notizia di una cronaca infinita.
Un’ultima considerazione sulla nuova letteratura del lavoro per come si è manifestata negli ultimi anni e che trova conferma anche nella prima edizione del Premio. Non emerge più una missione liberatrice del lavoro, una prospettiva di realizzazione nel lavoro di pari passo a una trasformazione della società, come avvenne con la Letteratura industriale degli anni 70 e 80. Le nuove opere, viceversa, descrivono con amarezza e crudo realismo la condizione di un lavoro sempre più alienante, instabile e pericoloso, meno a misura delle persone, della loro dignità e delle loro aspirazioni. Una denuncia dolente e disillusa, neanche gridata con l’indignazione che pure meriterebbe ma semplicemente consegnata alle lettrici e lettori e all’uso che di questa ne sapranno fare.

L’autore: Eugenio Ghignoni è presidente Iress Lazio

Questa meritocrazia è una truffa

La forbice tra i salari dei dirigenti e quelli dei lavoratori non si allarga: si spalanca. Lo raccontano i numeri di un mondo che continua a premiare i vertici aziendali come se fossero dei moderni re Mida, ignorando che il loro tocco magico si basa sul sudore e sul sacrificio di chi sta alla base. I dati pubblicati nel rapporto Mercer di novembre 2024 non lasciano spazio a interpretazioni: nel 2022, i compensi dei Ceo delle maggiori aziende globali sono cresciuti di un ulteriore 9%, mentre gli stipendi dei lavoratori arrancano dietro l’inflazione. La disparità è così marcata che ormai sembra quasi naturale, come se fosse inscritta in qualche legge universale. Ma naturale non è.

La chiamano meritocrazia ma è una distorsione pianificata. Non si può chiamare “premio” la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi quando i lavoratori, spesso definiti “il cuore dell’azienda” nei discorsi ufficiali, vedono il loro potere d’acquisto ridursi ogni anno. E mentre i Ceo ricevono bonus milionari, i loro dipendenti fanno i conti con l’incertezza, costretti a barcamenarsi tra affitti insostenibili e bollette in aumento.

È l’essenza stessa di questo sistema a essere corrotta. Si chiama capitalismo, ma è sempre più simile a un feudalesimo mascherato, in cui pochi baroni accumulano ricchezze su scala globale e il resto del mondo si accontenta delle briciole. La narrazione che celebra i grandi manager come geni solitari ignora volutamente il ruolo collettivo del lavoro, riducendo la forza di milioni di persone a una nota a margine.

Questa meritocrazia è una truffa. 

Buon lunedì. 

La morte di Ramy Elgami e la narrazione disumana sugli immigrati

«Stava uscendo, mi ha sorriso. Gli ho detto di non tornare tardi. Non è tornato più».
Yehia Elgaml non riesce a farsene una ragione. Sono passati quasi due mesi da quando suo figlio, Ramy, 19 anni, «non è tornato più».

Sono le 3:40 della notte di quel sabato 24 novembre 2024. Ramy viaggia sul T-Max guidato da Fares Bouzidi, 22 anni. La moto non si ferma a un posto di blocco delle forze dell’ordine. Tre vetture dei Carabinieri si lanciano all’inseguimento.
Siamo a Milano, in una notte tra sabato e domenica. C’è gente per strada. Tante auto, traffico, semafori che scattano. E una moto e tre Gazzelle (il nome con cui sono conosciute le auto dei Carabinieri) che sfrecciano. Per 8km, lunghissimi 20 minuti. Come fosse GTA. Ma non è un videogioco; è la vita reale.

Martedì 7 gennaio il Tg3, telegiornale della terza rete Rai, ne trasmette due lunghi minuti, ripresi da due telecamere comunali e dalle dashcam installate sulle Gazzelle dei carabinieri.

Alcune di quelle immagini erano già state rese pubbliche.
Giovedì 12 dicembre Dritto e Rovescio, trasmissione TV in onda sulla berlusconiana Rete 4, le aveva trasmesse con grande enfasi: «Esclusivo, il video della folle corsa del giovane immigrato Ramy».
“Immigrato” è la parola chiave. Disumanizzante. Sparata lì per sbattere il mostro in prima pagina. Ramy incarna alla perfezione il mostro che riempie da anni le narrazioni dell’ultradestra, mediatica e politica. Incarna il “nemico”: giovane, nato in Egitto, abitante di una delle periferie difficili delle metropoli italiane.

Il video trasmesso in quell’occasione non racconta tutto l’inseguimento. Si ferma prima della caduta, prima della morte di Ramy.
Il Tempo, quotidiano romano dell’ultradestra, di proprietà del parlamentare leghista e ras delle cliniche private Angelucci, l’indomani, 13 dicembre, potrà scrivere: «A giudicare dalle immagini – differenti da quelle che, secondo un presunto testimone oculare, sarebbero state fatte cancellare dalle forze dell’ordine – si vedono le gazzelle dell’Arma inseguire il motorino guidato da Fares Bouzidi».
Ancora: nel filmato c’è l’audio, si possono sentire le sirene spiegate, ma null’altro, nessuna voce.

Il nuovo video mandato in onda dal Tg3, invece, aggiunge i tasselli mancanti.
In onda vanno gli istanti dell’inseguimento, le manovre pericolose, Ramy che perde il casco. Infine, le immagini delle telecamere comunali mostrano il momento dello speronamento, scooter e auto dei Carabinieri che vanno dritte, schiantandosi contro un palo. Ramy non si alzerà più.

Non solo, c’è di più. L’audio permette di sentire le voci degli agenti che, lungo tutti i 20 minuti, insistono: «Vaffanculo, non è caduto», «Chiudilo, chiudilo… No, merda, non è caduto» e, alla fine, «Sono caduti, bene!».
«Non mi aspettavo i commenti dei carabinieri, sono disumani», dirà Nada, la fidanzata di Ramy.

La terza Gazzella, quella che riprende tutto con la dashcam, arriva a impatto già avvenuto. Continua a riprendere. Si vedono due militari in divisa andare incontro a un ragazzo che alza le mani in alto. Quel ragazzo è Omar, 28 anni. È lui che, l’indomani, dichiara che gli agenti gli avrebbero intimato di cancellare dal cellulare i video che avrebbero ripreso gli istanti finali della corsa, l’impatto, la morte di Ramy.
È lui il testimone cui l’ultradestra non aveva dato un minimo di credito. In fondo come si può credere a un altro immigrato, a un Omar?

Questa storia, però, sovverte la narrazione mediatica e politica dell’ultradestra. I “buoni” diventano i “cattivi”; i “cattivi” i buoni.
È quello che avevano raccontato fin da subito gli amici di Ramy. Ragazzi arrivati bambini nella periferia milanese o nati qui da genitori immigrati. Marocchini, egiziani. Sprezzantemente “arabi”.

Dal giorno dopo erano scesi in strada. Per protestare, per manifestare la rabbia (c’erano stati anche lanci di oggetti e fuochi d’artificio contro le forze di polizia e la distruzione di un bus). Ma anche perché sapevano che il silenzio avrebbe favorito il confezionamento di ricostruzioni di comodo. Non credevano alle prime versioni diffuse dalle istituzioni. Nel primo verbale redatto dai Carabinieri si legge che «il conducente del motociclo sopraggiungendo a velocità elevata effettuava manovra improvvisa a sinistra. A causa del sovrasterzo scivolava fino a impattare con il semaforo e terminando contro un’aiuola». Fares e Ramy sarebbero dunque scivolati. Ricostruzione messa in forte dubbio dalle immagini dei video che, anzi, aprono le porte all’ipotesi di un vero e proprio depistaggio da parte delle forze dell’ordine.
Al Corvetto gli amici di Ramy non ci hanno mai creduto. Perché Omar aveva iniziato a raccontare che lui aveva visto, che lui sapeva. Ma non ci avevano creduto anche perché, prima ancora di avere contezza di come si fossero svolti i fatti, erano abituati ogni giorno a fare i conti con l’immagine deforme e deformante che media e partiti politici offrono di loro, dei loro quartieri, delle loro famiglie.

Lo stesso rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri), pubblicato a ottobre 2024, affermava che «ci sono numerose testimonianze di profilazioni razziali da parte delle forze dell’ordine, che prendono di mira soprattutto i Rom e le persone di origine africana». Al centro dell’attenzione, quindi, la profilazione razziale, cioè la pratica di fermare o controllare persone sulla base del colore e della razza.
Il rapporto aveva suscitato lo sdegno dell’intero spettro politico italiano, fino ad arrivare alle parole dello stesso presidente della Repubblica Mattarella, che si era sentito in dovere di telefonare al capo della Polizia per esprimergli il proprio «stupore» per quanto sostenuto dall’ECRI e per ribadire «stima e vicinanza alle forze di Polizia».

Il caso di Ramy si inserisce in questo quadro. Per tv, giornali, partiti politici dell’ultradestra, Ramy era semplicemente un delinquente. Perché “arabo” è sinonimo di spacciatore, di criminale. In potenza, quanto meno.
Una storia tutt’altro che nuova e niente affatto patrimonio della sola ultradestra.
Correva il 1 novembre 2007 quando il quotidiano “progressista” per eccellenza, La Repubblica (oggi proprietà del gruppo Gedi, riconducibile agli Agnelli-Elkann proprietari di Stellantis), titolava: “Romeni e violenza. 2007, un anno nero”. Come ricorda Christian Raimo, sempre nel 2007 l’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, ex direttore de L’Unità ed ex militante del Pci, affermava: «È necessario assumere iniziative straordinarie e d’urgenza sul piano legislativo in materia di sicurezza. Non si possono aprire i boccaporti. Roma era la città più sicura del mondo prima dell’ingresso della Romania nell’Ue».
Sono parole tanto diverse da quelle che oggi Salvini, Abascal, Wilders, Le Pen, Trump scagliano contro “arabi” o “latinos”?

Ramy in realtà era un giovane lavoratore. Da tre anni lavorava come elettricista. Uno dei tanti proletari che portano avanti il Paese ma di cui il Paese si accorge solo quando muoiono di morte violenta.
Anche se questo è il loro Paese: «l’Italia è il mio primo Paese, non il secondo», dice Yehia Elgaml, il papà di Ramy. «Mio figlio è morto qui, è sepolto qui, a mezz’ora da qui, a Bruzzano. Tutti i giorni lo vado a trovare».
«Il fatto che vivo in un posto di merda non significa che io sia una persona di merda», aveva detto Nabil, 20 anni, fidanzata di Fares Bouzidi.

Per il carabiniere alla guida della Gazzella Volpe 40 che avrebbe speronato il T-Max l’ipotesi di reato al momento è ancora quella di “omicidio stradale”, punibile con una pena tra i 5 e i 10 anni di carcere. I magistrati, però, iniziano a vagliare anche l’ipotesi di “omicidio volontario”, che prevede una pena assai più pesante, più di 20 anni di reclusione.
Per altri due agenti c’è l’accusa di “frode” e “favoreggiamento”, in virtù della testimonianza di Omar.

Anche dopo la messa in onda delle immagini dell’inseguimento e dello speronamento, anche dopo aver ascoltato le parole che si scambiavano gli agenti, il vice-presidente del Consiglio Salvini ha pubblicato su Instagram un’immagine in cui si chiede “Carabinieri assassini?”. E alla domanda retorica risponde con un “No, hanno solo fatto il loro dovere”.
In Italia, però, non fermarsi a un posto di blocco costituisce un illecito amministrativo, punibile con una multa. Solo dopo eventuale inseguimento a velocità elevata che metta in pericolo altri cittadini, si configura il reato di “resistenza a pubblico ufficiale”, punibile con una pena tra sei mesi e cinque anni di carcere. In ogni caso, non con la pena di morte.

Le parole di Salvini danno il senso di una battaglia che non si esaurisce affatto nelle aule di tribunale. È una battaglia innanzitutto per il senso comune. E l’ultradestra da anni la combatte senza riserve, senza fare prigionieri.

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Diario Red di Canal Red fondato e diretto da Pablo Iglesias

 

Nando Vitali: «Do voce a Lauretta, staffetta partigiana dimenticata»»

Si intitola “Il cuore inverso” il nuovo spettacolo teatrale scritto da Nando Vitali che va in scena in anteprima nazionale il 18 e 19 gennaio  al Nuovo Teatro Sancarluccio di Napoli. Ne parla qui l’autore. 

Lo conoscevamo tutti come un grande campione del ciclismo. Solo dopo sapemmo che Gino Bartali fu staffetta partigiana. Di quei messaggi che trasportava in segreto con la bicicletta ai compagni della resistenza durante l’occupazione nazifascista dopo l’8 settembre del ’43.
E le donne? In casa mia le canzonette, dopo la fine delle ostilità, le gambe delle donne erano per canzonette alla radio e gonne svolazzanti. Per me la bicicletta era lo strumento di seduzione durante l’adolescenza. La Bianchi rosso fuoco.
Poi conobbi al cinema Ladri di biciclette, e ne fui, come tutti, preso per commozione e grandezza. De Sica ci fece capire molto di quei tempi. Un poco più in là col tempo, ormai adulto, fui affascinato da quel capolavoro che si chiamava Appuntamento a Belleville, di Sylvain Chomet (2003). Film d’animazione scandito da un cronometro inesorabile che batteva il tempo a un ciclista, il cui sforzo si faceva sovrumano per un Tour de France immaginario. Una sorta di opera pittorica interrotta soltanto da un coretto di stralunate starlette, Les Triplettes, il passaggio di un treno e gli sbadigli di un vecchio cane.
Mi imbattei poi, per caso, in un documentario sul ruolo fondamentale, in quegli anni di guerra, delle donne utilizzate, in bicicletta, come preziose staffette partigiane.
Finalmente riconosciute e narrate le loro storie con fiere e commoventi interviste alla televisione. Ormai tutte molto anziane, si raccontavano di quando, oblique alla grande Storia, raccordavano coi loro messaggi le Brigate Partigiane prevalentemente composte da uomini armati.
Emerge così un altro capitolo di quegli anni.
Solo 37 di loro furono insignite della medaglia al valor militare. Eroine, invece tante, rimasero senza nome. Chissà quante uccise dai nazifascisti. Torturate e stuprate, per quella “banalità del male” alla quale non ho mai creduto. Ma qui parliamo di emozioni rubate e giustizia, non di filosofia.
Ecco che così è venuta di getto una drammaturgia, e ho messo in scena una di loro: Lauretta. Quello che dovrebbero fare gli artisti in circostanze del genere: raccogliere le voci mute, mancanti all’appello dei libri.
E “bella ciao”, il canto patriottico che tutti cantiamo in modo festoso, divenne finalmente un’accordatura nuova al mio repertorio di scrittore.
Ho ridato la pedalata giusta a una di loro. Una per tutte. Quella violenza mostruosa di vita e morte è volata con la mia biro in meno di un’ora sui fogli di un quaderno.
Certo, storia di fantasia di un cantastorie quale credo di essere.
Ma molti di quei segreti li doveva portare nel suo cuore inverso anche mia madre, nei suoi estenuanti silenzi. Nel mestruo interrotto di una notte d’amore mai perdonata, e il suo spavento ogni volta che si udiva la lingua aspra che allora portava morte e follia.

L’autore: Nando Vitali è scrittore, critico letterario, fondatore e direttore della rivista Achab.

LO SPETTACOLO 18 e 19 gennaio

Al Nuovo Teatro Sancarluccio di Napoli  IL CUORE INVERSO dello scrittore Nando Vitali con la regia di Paolo Vanacore e le musiche originali di Alessandro Panatteri. Il monologo è interpretato dall’attrice Carmen Di Marzo, già nel cast di “Mare fuori 4”, “Piedone lo sbirro” e tante altre fiction di successo. La vicenda è ambientata nelle campagne del ferrarese dove la giovane Lauretta, di famiglia napoletana, si è trasferita per motivi familiari (padre ferroviere e socialista). A circa vent’anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre, e dopo l’arresto del padre e la morte della madre, aderisce a una brigata partigiana dove inizia la sua attività di staffetta incontrando l’amore del giovane combattente Michele. Delle 50mila staffette partigiane solo 37 hanno ricevuto medaglie al valore della Resistenza.

Saranno contenti Licio Gelli e Silvio Berlusconi

La Camera ha approvato il primo passo verso la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. Una riforma che sa di passato, blindata senza dibattito, come ha sottolineato Giuseppe Santalucia dell’Anm. Il governo la chiama rivoluzione ma è difficile non vedere in questo provvedimento il compimento di un disegno preciso, portato avanti per anni, amato da Licio Gelli e da Silvio Berlusconi. 

Separare i ruoli significa stravolgere la struttura stessa della giustizia. Non è un dettaglio tecnico, come qualcuno vorrebbe far credere: è un cambio di paradigma che rende i giudici più vicini al potere e più lontani dai cittadini. La promessa di spezzare le correnti è solo uno slogan. La realtà è che questa riforma disegna una giustizia più fragile, più esposta a pressioni politiche, meno indipendente.  

Il ministro Nordio, dal suo banco, parla di efficienza. Eppure basta leggere i documenti ufficiali per scoprire che i problemi reali del sistema – processi lenti, carichi di lavoro insostenibili, infrastrutture inadeguate – restano lì, intatti. L’obiettivo non è migliorare la giustizia, ma ridisegnarla in modo che sia meno scomoda.  

Questa non è una riforma neutra. Non è un atto dovuto. È un manifesto politico. E ora, con un referendum all’orizzonte, il governo gioca una partita pericolosa, presentandolo come un voto pro o contro i magistrati. Ma il punto sarebbe l’equilibrio democratico. La separazione delle carriere non spezza le correnti: spezza la giustizia. E una giustizia spezzata non è più giustizia.  

Buon venerdì.

Lo scudo penale dell’amicizia: Netanyahu insegna, l’Aja si dimentica

Per capire cosa intenda il governo per “scudo penale” per le forze dell’ordine, è bastato aspettare qualche ora. Ieri il ministro degli Esteri di Israele Gideon Sa’ar, dopo la sua visita a Roma, ha raccontato: «Ho parlato con i ministri Tajani e Nordio. Non ho l’abitudine di riferire ciò che si dice, ma non c’è nessun problema per chiunque venga a Roma, nemmeno per Netanyahu».

La Corte penale internazionale, per Meloni e compagnia, insomma è carta straccia. Il mandato d’arresto dell’Aja è uno spreco di carta e di tempo che il governo italiano – come già prima quello polacco – ritiene utile solo se coinvolge qualche nemico assodato. Nient’altro.

Lo scudo penale per Netanyahu è la fotografia dell’agire del governo nella politica estera e nella concezione di giustizia. Si “scusa” chiunque possa essere inserito nella cerchia degli amici del governo e si bastona chiunque possa essere considerato “nemico della patria”. Il diritto internazionale, i diritti costituzionali e le libertà civili sono solo polverosa burocrazia da sventolare alla bisogna. Accade con il capo del governo israeliano, accade con i trafficanti di governo in Libia, accade con i satrapi in Ungheria e Turchia.

Accade così anche nella politica estera, dove le interferenze sono benvenute se provengono da qualche oligarca amico. La politica estera italiana è una lunga striscia di favori ai limiti della legalità (Albania e Tunisia insegnano) per stringere rapporti. La cosiddetta autorevolezza internazionale è uno smodato amichettismo in giro per il mondo.

Ovvio che a gente così, le leggi e il diritto risultino un disturbo.

Buon giovedì.

In foto: 10 marzo 2023 : La presidente del Consiglio Meloni incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a Palazzo Chigi. 

Manifattura e consumi: il polso di un Paese non proprio in salute

‘‘La crisi del tessuto produttivo in Italia è seria. Per capirne bene la dimensione è necessario guardare i dati nel loro insieme, anziché metterne in evidenza solo alcuni che possono fornire, fuori contesto, un’impressione più positiva di quanto la situazione non sia in realtà. Per il nostro Paese è fondamentale guardare l’andamento della manifattura insieme a quello dei consumi, i quali ci parlano del potere d’acquisto dei lavoratori, delle famiglie e dei pensionati.
La scorsa settimana dell’economia italiana si è chiusa con la diffusione dei dati di novembre dell’Indice Rtt di Confindustria e di quelli sul commercio al dettaglio raccolti dall’Istat. Il quadro che ne emerge, che il Centro Studi di Lavoro&Welfare ha esaminato, è tutt’altro che positivo.
Cominciamo dalla manifattura che registra, su base tendenziale, il ventunesimo mese consecutivo di calo del fatturato.
L’indice Rtt (Real Time Turnover Index), viene elaborato dal Centro Studi di Confindustria sulla base dei dati di fatturato, destagionalizzato e deflazionato, del campione di imprese raccolto dalla tech company TeamSystem.
L’indice, spiega viale dell’Astronomia, «registra un significativo calo in novembre (-3,4%). L’indicatore mostra le maggiori riduzioni nei servizi e nell’industria».
Scendendo nel dettaglio, «in novembre, Rtt indica un calo del fatturato a prezzi costanti delle imprese, pari a -3,4%, che corregge al ribasso il livello dopo il balzo di ottobre».
Prendendo in esame i singoli settori produttivi, «il calo di RTT nell’industria (-5,1% a novembre) annulla quasi per intero l’aumento del mese precedente…. Nei servizi l’andamento è analogo, ma la correzione al ribasso (-3.7%) è meno forte.
Per le grandi imprese RTT indica a novembre una forte flessione (-4,2%), sempre dopo il balzo di ottobre. Moderati i cali per le piccole imprese (-1,6%) e per le medie (-1,8%)».
Riassumendo, la manifattura, in particolare le imprese di più grande dimensione, va male, registrando, come illustrato in precedenza, un forte calo del fatturato. Teniamo a mente questo punto sul quale torneremo più avanti.
Cosa ci dicono i dati Istat sul commercio al dettaglio? «A novembre 2024 – spiega l’Istituto di statistica – si stima, per le vendite al dettaglio, una variazione congiunturale negativa sia in valore (-0,4%) sia in volume (-0,6%). Sono in diminuzione sia le vendite dei beni alimentari (rispettivamente -0,1% in valore e -0,6% in volume) sia quelle dei beni non alimentari (-0,7% in valore e in volume)». Se nel terzo trimestre il commercio al dettaglio vede una crescita moderata, novembre fa registrare «una variazione congiunturale negativa sia in valore (-0,4%) sia in volume (-0,6%)».
Intanto, fra l’altro, si annuncia un aumento del costo del gas e, perciò, della bolletta energetica a carico delle imprese e dei consumatori.
Tutto si tiene in economia; e l’andamento dell’industria, che in Italia è la spina dorsale del sistema, si riflette sui rinnovi contrattuali. Lo testimonia la rottura della trattativa su uno dei più importanti contratti nazionali: quello dei metalmeccanici. Da una parte, i sindacati dei lavoratori pongono giustamente come punto centrale un incremento dei salari messi a dura prova dalla stagione dell’inflazione, che, come abbiamo visto, ha lasciato il segno sui consumi e, dall’altro, da un trentennio di blocco del potere d’acquisto delle famiglie di chi lavora per vivere. Dall’altra, le imprese industriali, gravate da 21 mesi consecutivi di calo dei fatturati, denunciano le loro difficoltà.
La manifattura di tutta Europa, in un’epoca di grande incremento dell’alta tecnologia nella quale guidano la corsa Stati Uniti e Cina, è in una crisi serissima. In questi giorni il mondo guarda a Washington con il terrore che l’amministrazione Trump, che andrà in carica il 20 gennaio, scateni violente guerre commerciali. E tutto questo potrebbe accendere una crisi sociale alla quale è difficile trovare termini di paragone nel dopoguerra.
L’Esecutivo deve guardare con più serietà a questa situazione e rapportarsi concretamente con l’intero scenario, che non è per niente rassicurante. Se la manifattura stenta, la domanda interna rallenta e tutto, nella circolarità del sistema economico, si avvia verso una drammatica fermata.
È necessario rapportarsi seriamente con l’intera realtà e fronteggiarla, in primo luogo, tornando a intessere un confronto e un dialogo preventivi con le parti sociali, troppo spesso messe di fronte solamente a fatti compiuti.

Il fermaglio di Cesare Damiano.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare