Vi ricordate l’Art Bonus, voluto dal ministro dei Beni culturali (Mibac), Dario Franceschini, che garantiva agevolazioni fiscali ai soggetti privati e alle imprese che avessero donato soldi per il restauro del patrimonio artistico del Belpaese? Non sta andando bene. «Non ci sono più alibi, è un intervento a cui tutto il mondo guarderà», aveva commentato il numero uno del Mibac presentando il progetto che avrebbe dovuto attrarre i «mecenati garantendo loro grandi incentivi fiscali».
L’alibi, invece, è stato servito su un piatto d’argento dalle regole applicative del decreto legge del 31 maggio 2014, n. 83 (l’Art Bonus) e dalla burocrazia che è sempre dietro l’angolo pronta a rendere difficile la vita. L’andamento negativo è stato confermato anche da fonti addentro al mondo della cultura le quali ribadiscono che i loro stessi commercialisti hanno avuto difficoltà nel capire il testo e le regole applicative del decreto. Figurarsi quindi il privato cittadino o la piccola e media impresa che devono commissionare la lettura (interpretazione) del testo a dei professionisti, sottraendo quindi una parte dei soldi che si sarebbero potuti versare invece di pagare l’onorario degli esperti.
Insomma, un insieme di regole troppo complesse rischia di soffocare sul nascere il Bonus. La vera scommessa insita nel decreto «per la tutela del patrimonio culturale» era quella di avvicinare anche le piccole realtà al mondo della cultura, sensibilizzando il nascere di una coscienza artistica collettiva. Almeno queste erano le intenzioni del ministro Franceschini prima che l’iniziativa venisse appesantita oltremisura fornendo così un “alibi”: il cittadino si stufa quindi di dover leggere e rileggere la normativa per capirci qualcosa e non ha nessuna voglia di sottoporla ad un commercialista, così anche chi avrebbe voluto donare 50 euro al museo si demoralizza in partenza.
Al momento il numero delle adesioni è basso ma bisognerà aspettare la prossima dichiarazione dei redditi per avere un quadro della situazione. Infatti lo staff dei Beni culturali ha ammesso che «ad oggi non si sa quanti e quali siano gli investimenti complessivi e per non dare un dato parziale sarà necessario un riscontro con le dichiarazioni dei redditi. Questo perché ci sono alcune realtà – vedi i Comuni – che non sono sotto stretto controllo del ministero e quindi per avere un feedback bisognerà aspettare». Resta da chiedersi come sia possibile che se qualcuno ti dà dei soldi, non lo sai subito, almeno per quel che riguarda le realtà che sono di tua pertinenza diretta.
È come se per sapere se qualcuno ti ha fatto un bonifico, dovessi aspettare l’arrivo a casa dell’estratto conto annuale. Senza dati di riferimento il Bonus, così come è, comunque esclude in partenza i piccoli e medi potenziali investitori. Quel che è chiaro è che soltanto i grossi gruppi finanziari hanno le capacità e il personale necessario a percorrere le vie burocratiche obbligatorie per la fruizione dell’Art Bonus. Il ministro forse l’aveva capito subito quando a giugno scorso affermò: «Mi aspetto che ci sia la corsa da parte delle grandi imprese italiane. Se non ci fosse lo troverei scandaloso, in quel caso lo Stato andrà avanti». E i “grandi”, solo qualcuno, hanno risposto.
Esempio ne sono i recenti «interventi per la conservazione e nuova fruizione dell’Arena di Verona», dove Unicredit e Fondazione Cariverona finanzieranno, con sette milioni di euro ciascuno, il vasto progetto: ma ammesso che questi gruppi possano essere annoverati come soggetti privati in senso stretto, comunque sono grandi società che al loro interno hanno interi team di commercialisti ed esperti che studiano, a prescindere dall’Art Bonus, le dinamiche e le leggi in materia di finanza. Oltretutto si tratta di gruppi che già fanno donazioni in diversi settori, quindi nessuna novità sostanziale.