L’arbitro fischia un fallo, va incontro al giocatore indispettito in maglia biancoverde e fa per estrarre il cartellino giallo. Attraverso le tribune fatiscenti si intravede un tipico palazzo della banlieue parigina degli anni Settanta: il taglio modernista dell’architettura evidenzia l’asprezza del paesaggio urbano. All’improvviso, alcune donne africane e un gruppo di uomini magrebini intonano uno slogan: “Flic, arbitre ou militaire, qu’est-ce qu’on ferait pas, pour un salaire”, ovvero “sbirro, arbitro o militare, che cosa non si fa per un salario!”. La rima si perde nella traduzione, ma sulle tribune il ritmo incalza e riecheggia forte e chiaro. L’inno è quello dei quartieri popolari a nord di Parigi, lontano dal blasone turistico della ville lumière. Dove, in campo, regna il Red Star Football Club,la formazione calcistica di terza divisione francese.
Il club, fondato nel 1897, ha una storia antica e gioca le sue partite nella banlieue de Saint Ouen, in zona Saint Denis. La squadra della “stella rossa” è un emblema delle Zone urbane ad alto rischio (Zus) di Parigi, che rivendica da sempre la propria appartenenza proletaria. La sua tifoseria è composta da donne e uomini degli strati popolari marginalizzati della società francese, annoverando sia signore africane in abiti tradizionali che giovani ragazzi in felpa e cappuccio.
Il club tiene vivo il suo forte legame con il quartiere anche attraverso un settore giovanile da cui sono emersi diversi calciatori di talento. Come fanno notare con orgoglio e senso di appartenenza alcuni tifosi, nell’ultimo Mondiale di calcio erano quattro i giocatori che avevano militato, anni or sono, nelle file delle giovanili del Red Star. Anche in questo il Red Star è l’antitesi del calcio champagne e finanza, che in terra francese si materializza nel Paris Saint-German di Ibrahimovich e dell’emiro qatariota, padrone del club. A contraddistinguere la Red Star non è tanto il dato sportivo, ma quello sociale.
Nella Francia post attentati a Charlie Hebdo, le banlieue rischiano di diventare, o di essere considerate, territori dell’estremismo e del disordine sociale. Il discorso pubblico sulle banlieue ha assunto toni ancor più allarmisti – quando non addirittura xenofobi – rispetto al passato. L’etimologia stessa della parola “banlieue” suggerisce una sostanziale esclusione dalla società civile: “ban” indica il “mettere al bando” e “lieue” è il luogo. In altre parole la banlieue, letteralmente, significa un luogo bandito, o meglio: di banditi.
Non è una novità per la Francia quella di considerare le banlieue, zone speciali. Circa dieci anni fa, nel novembre 2005, il presidente Jacques Chirac, il cui ministro degli Interni era Nicolas Sarkozy, aveva dichiarato lo stato d’emergenza nazionale quando gruppi di giovani, per lo più figli di immigrati africani e arabi di seconda e terza generazione, erano scesi in strada per protestare contro l’uccisione di due adolescenti da parte della polizia. I due ragazzini, Bouna Traoré e Zyed Benna, nel tentativo di fuggire all’inseguimento degli agenti, si erano nascosti all’interno di un recinto di una piccola cabina elettrica, rimanendo fulminati dai cavi scoperti. “Morti per nulla”, scandivano e ripetevano le persone scese in piazza, morti per paura delle forze dell’ordine, del loro atteggiamento persecutorio e minaccioso contro i giovani dei quartieri popolari, delle banlieue.
La rabbia popolare in quel caso si era materializzata in atti incendiari contro le autovetture parcheggiate lungo le zone di protesta, fatto che aveva scaturito l’indignazione, molto borghese e celatamente classista, dei media che bombardavano il pubblico con immagini, ripetitive, di macchine bruciate lungo le strade. Il dato effettivo dei danneggiamenti era stato ancora una volta esagerato dai media francesi, alcuni notoriamente vicini, al tempo, al partito popolare e al ministro degli Interni Sarkozy. Infine con lo stato d’emergenza nazionale, la Francia aveva trasformato le banlieue parigine in zone, effettive quanto immaginarie, di guerra.
Allo stesso modo per capire l’isteria collettiva – e mediatica – all’indomani degli attentati di Parigi del gennaio 2015, bisogna comprendere il contesto sociale, l’atmosfera conflittuale, delle banlieue come luogo di vita e scontro quotidiano. Non per giustificare il radicalismo di alcuni giovani francesi, che sono stati progressivamente attratti dalla propaganda islamista, ma per situare gli eventi e le loro ragioni all’interno di un’analisi alternativa alla dilagante islamofobia, in cui gli elementi “spettacolari” si trasformano in semplici quanto pericolosi mezzi di campagna elettorale in tempi di crisi. La realtà nelle banlieue si svela, scontatamente, diversa e più controversa della narrativa criminalizzante dei media o del governo. Assomiglia, per dirla con una metafora, al gioco del gatto e del topo.
L’antropologo e medico francese Didier Fassin è uno dei pochi ricercatori che hanno avuto l’onere di osservare le operazioni quotidiane della polizia di quartiere nelle banlieue di Parigi. Tre anni di ricerca al seguito di una Brigata anti criminalità (Bac), hanno permesso al ricercatore francese di avere prova ed esperienza diretta di cosa significa pattugliare le Zone urbane sensibili (Zus), ovvero le aree della capitale francese più povere e con la più alta densità di popolazione immigrata. La Bac, la polizia speciale per le banlieue, ha fama di grande severità e i suoi membri hanno l’obbligo di superare addestramenti ad hoc.
Le forze delle Bac si ritrovano di norma ad avere a che fare con ragazzi di origine araba o africana: ispezioni, controlli virulenti e linguaggio aggressivo (spesso apertamente razzista) nei confronti dei cittadini delle banlieue è la norma nel loro lavoro. E in caso di reazione non pacifica dei soggetti controllati, l’arresto è la conseguenza più immediata, mentre l’umiliazione ne è l’effetto psicofisico perdurante. Più che lottare contro il crimine, conclude Fassin, le Bac operano come presenza materiale dello Stato in territori spesso definiti dall’autorità come ingestibili e caotici, dunque a rischio.
Anche secondo le statistiche ufficiali, la loro efficacia nel contrastare il crimine è pressoché nulla, mentre la maggior parte del tempo lavorativo è occupato da ispezioni casuali e pattugliamenti nelle banlieue, durante le quali la quasi totalità dei soggetti fermati sono «soggetti appartenenti alle minoranze nera e araba del Paese». La valutazione di fondo che la polizia fa nei confronti dei giovani delle banlieue sembra essere quella del diritto garantista, all’inverso: al cittadino (di banlieue) spetta il dovere di dimostrare la propria non-colpevolezza, altrimenti segue la detenzione temporanea in caserma. Questo modus operandi è il risultato di politiche pubbliche che hanno adottato il linguaggio e le pratiche della “guerra al crimine”, producendo di fatto una militarizzazione della polizia e delle aree considerate pericolose.
Come racconta l’antropologo Fassin, la polizia francese che opera nelle banlieue si rifà a un linguaggio e a una visione militaresca altrimenti estranea alle forze dell’ordine delle città francesi. Dopotutto, se lo Stato veste i poliziotti con uniformi militari, armi da guerra e dice loro di prepararsi a “una guerra al crimine”, “al terrorismo”, o “alla droga”, il risultato, scontato, è che la polizia inizia a combatterla, questa guerra, individuando nei cittadini delle aree interessate i “nemici”. E nel momento in cui i giovani di città si ritrovano a essere il target, umiliati dalla polizia di fronte ai loro coetanei, familiari e vicini di casa, l’odio verso le istituzioni non può che crescere. Così, quello di fuggire alla vista di un poliziotto diventa un riflesso quasi pavloviano che i giovani delle banlieue sviluppano nel corso della loro vita.
Per assurdo, la polizia, da forza dell’ordine istituita per proteggere i cittadini, si trasforma in forza che li perseguita e li intimorisce. Con la polizia che agisce militaristicamente, emerge anche una spettacolarizzazione della gestione delle città: inseguendo i miti polizieschi delle serie tv americane, i guardiani dell’ordine pubblico adottano uno stile d’azione esagerato, con sgommate, inseguimenti pseudo-immaginari ad alta velocità e atteggiamenti spavaldi da sceriffo di contea.
Nel contempo i ragazzi delle banlieue guardano alla mitologia di Scarface o a quella dei tre ragazzi del film La Haine (L’odio, 1995). In entrambi domina lo spettacolo e la vendetta, due elementi che sono fulcro semantico anche degli eventi di Charlie Hebdo. Il martirio, poco islamico, nel marzo 2012 di Merah Mohammad nella città di Toulouse ne è un caso esemplare. A detta dei suoi amici, il ragazzo non aveva mai frequentato una moschea nella sua vita, era stato ripetutamente in prigione per piccoli crimini (droga, furti e guida spericolata), ed era sotto osservazione dei servizi di sicurezza francesi dall’anno 2006. Dopo un periodo in prigione, manifesta una sindrome narcisistica e paranoica a cui si accompagnano i contatti con cellule estremiste che lo porteranno a sparare contro dei militari francesi e in seguito ad attaccare una scuola ebraica a Toulouse. Si direbbe una traiettoria sociale pressoché identica a quella dei fratelli Koucachi e di Amedy Coulibaly negli attentati del gennaio 2015 contro Charlie Hebdo. L’atto terroristico avviene in solitario, secondo linee spettacolari, nei cui calcoli l’attenzione mediatica è requisito essenziale.
Si tratta non tanto di individui ideologicamente complessi, la cui fede impone l’azione drammatica, eroica e distruttiva in nome dell’Islam, ma di giovani socialmente emarginati, a cui il Paese d’accoglienza (o di nascita) non ha offerto, né a loro stessi né ai propri genitori, quella fortuna sperata, relegandoli a cittadini di secondo ordine. Prima perseguitati dalle forze dell’ordine poiché ‘diversi’, poveri e pericolosi, poi incarcerati per piccoli reati di furto e droga; infine, come anche nel caso del giovane britannico divenuto il boia dell’Isis, Jihadi John, sorvegliati dalle forze di sicurezza al seguito del loro intervento come combattenti in una guerre che l’Occidente (la Francia in testa) ha voluto fortemente. Il caso della Siria e della Libia ne sono due esempi lampanti.
Eppure, la retorica politica all’indomani degli eventi tragici di Parigi non solo ignora complessi segnali tra le classi popolari del Paese, preferendo, come scrive il filosofo Slavoj Žižek, la formula di identificazione patetica je suis Charlie, ma essa presiede a un immaginario precedentemente impensabile. Paradigmatico di questo nuovo immaginario sono i cartelloni con su scritto je suis flic, “sono un poliziotto”, che ipotizzano una riconciliazione della generazione del ’68 con il suo arci-nemico, la polizia. Uno scenario solo superficialmente rassicurante a cui solo le banlieue, tra cui quelle della Red Star Football Club sembra sfuggire.
Nel celebre film di Mathieu Kassovitz, La Haine, la voce fuori campo riassume il messaggio della storia con queste parole: «È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani; man mano che cadendo passa da un piano all’altro, per farsi coraggio, si ripete fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. L’importante però non è la caduta, ma l’atterraggio».
[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/MaziGhiabi” target=”on” ][/social_link] @MaziGhiabi