Spesa pubblica, consumi, investimenti, al Sud d’Italia va tutto male e senza un colpo di reni e politiche intelligenti non sembra esserci nulla che possa cambiare la situazione. Il direttore dello Svimez, Riccardo Padovani, ha presentato oggi a Roma le anticipazioni del rapporto 2015. Il quadro che ne esce è desolante e drammatico per il Mezzogiorno italiano, che a differenza delle altre macro-regioni del Paese non vede la ripresa. Con una crescita negativa del Pil pari al -9,4% nel periodo 2001-2014 il Sud è andato molto peggio della disastrata Grecia ( -1,7%). Il Sud affossa il dato nazionale (-1,1%), nonostante il mediocre ma non negativo +1,5% del Centro-Nord. Come si legge nel comunicato:
Il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni di crisi 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati quasi del 13% e gli investimenti nell’industria in senso stretto addirittura del 59%; nel 2014 quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord.
Nel suo intervento di presentazione, Padovani ha parlato di desertificazione del tessuto produttivo e di rischio di sottosviluppo permanente:
La crisi restituisce un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale. La flessione dell’attività produttiva è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, con effetti negativi che appaiono non più solo transitori ma strutturali. La crisi ha depauperato le risorse del Sud e il suo potenziale produttivo: la forte riduzione degli investimenti ha diminuito la sua capacità industriale, che, non venendo rinnovata, ha perso ulteriormente in competitività. La lunghezza della recessione, la riduzione delle risorse per infrastrutture pubbliche, la caduta della domanda interna, sono fattori che hanno contribuito a “desertificare” l’apparato economico delle regioni del Mezzogiorno colpendo non solo le imprese inefficienti, ma espellendo dal mercato anche imprese sane e tuttavia non attrezzate a superare una crisi cosi lunga e impegnativa. Risulta difficile a questo punto valutare se l’industria rimasta sia in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale: il rischio è che il depauperamento risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire al Mezzogiorno di agganciare la possibile nuova crescita e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.
La situazione degli investimenti lascia poche speranze: il periodo 2008-2014 fa registrare un calo degli investimenti industriali del 59,3%, il triplo del calo nel centro-nord. Sprofonda l’agricoltura (-38%), mentre costruzioni e servizi sono sostanzialmente in linea con i dati negativi del resto del Paese.
Negativi, come potrebbe essere altrimenti, i dati relativi alla demografia e all’emigrazione. Qui sotto tre delle slide presentate da Padovani che ci raccontano come, accanto al crollo dell’occupazione e l’aumento della povertà – l’Italia va peggio degli altri Paesi, il Sud peggio del resto del Paese – nelle regioni del Mezzogiorno sia in corso un cambiamento epocale in negativo: più emigrazione, più giovani che non studiano e non lavorano, meno figli. Se non cambiasse in fretta questa dinamica demografica il rischio è quello di uno “tsunami demografico”.
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Di fronte a una situazione come quella delineata servono politiche. E probabilmente la possibilità di spendere che i parametri europei oggi negano alla Grecia come all’Italia. Il direttore di Svimez, nel suo intervento, ha fatto riferimento alla necessità di guardare alla “straordinaria esperienza di discontinuità che, nel dopoguerra, aprì la strada all’impetuoso sviluppo degli anni ‘60, con una strategia di intensa politica dell’offerta, mirata ad assegnare al Mezzogiorno il ruolo di fulcro dello sviluppo italiano. Il recupero di una logica “di sistema”, di una “logica industriale”, non ridotta al solo mercato (…) Si tratta, dunque, di ragionare su come ritrovare, Nord e Sud, una strada comune, puntando a non accontentarci di recuperare una crescita “debole”, da cui peraltro le regioni meno sviluppate del Sud rischierebbero di rimanere escluse”.
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