Pochi giorni dopo la morte di Stefano, Paolo, il mio migliore amico, fece un sogno. Era Stefano che gli diceva: «Dì a mia sorella che sto bene ora, dille di non preoccuparsi per me. Dille di battersi, ma dille anche che forse non saprà mai quello che mi è accaduto e forse non avrà mai giustizia per la mia morte. Ma dille di andare avanti, perché quello che farà per me servirà per molti altri». In quel momento né io né Paolo potevamo capire il significato di quelle parole, era troppo presto.

Oggi a sei anni dalla morte di Stefano Cucchi al Parco degli Acquedotti in via Lemonia si terrà la manifestazione “Corri per Stefano”, gara podistica, reading e musica il 31 ottobre dalle 10 del mattino.


 

Pochi giorni dopo la morte di Stefano, Paolo, il mio migliore amico, fece un sogno.
Era Stefano che gli diceva: «Dì a mia sorella che sto bene ora, dille di non preoccuparsi per me. Dille di battersi, ma dille anche che forse non saprà mai quello che mi è accaduto e forse non avrà mai giustizia per la mia morte. Ma dille di andare avanti, perché quello che farà per me servirà per molti altri». In quel momento né io né Paolo potevamo capire il significato di quelle parole, era troppo presto.
Sono passati sei anni, ora. E ora, dopo tutto questo tempo e dopo tutto ciò che in questo tempo è accaduto, so perfettamente cosa Stefano voleva dirci allora, quando il dolore in me era ancora straziante e la strada che avevo davanti ancora sconosciuta. Avevo bisogno di risposte in quel momento, ne avevo bisogno per provare in qualche modo ad andare avanti nella mia vita. Col tempo ho capito che a volte bisogna invece imparare a convivere con dei vuoti.
E così sono andata avanti. Anche se mio fratello mi aveva detto che, forse, non avrei mai avuto giustizia, io quella giustizia l’ho ugualmente cercata e rincorsa. Insieme ai miei genitori, ai tanti e alle tante che non ci hanno lasciato da soli, ho affrontato momenti difficilissimi, che ci hanno devastati. Spesso, in questi sei anni, mi sono chiesta se lui avrebbe voluto tutto ciò, o se forse non avrebbe voluto riposare in pace e vedere anche per noi, la sua famiglia, un po’ di pace. E la risposta era sempre la stessa: bisognava andare avanti. Perché, mi sono ripetuta e mi ripeto, occorre poter dimostrare che quella stessa giustizia che ha ucciso Stefano, processandolo e mandandolo in carcere come albanese senza fissa dimora sulla base di un verbale del tutto sbagliato redatto dai carabinieri (quegli stessi che oggi, dopo sei anni, sembrano essere sospettati di qualcosa) senza che nessuno lo guardasse in faccia o ascoltasse la sofferenza nella sua voce mentre più volte si scusa perché non riesce a parlare bene, quella stessa giustizia che ha fatto prima di tutto il processo a lui, volendo dimostrare che in fondo il principale responsabile della morte era il morto stesso, quella stessa giustizia sia alla fine capace di essere rigorosa anche con se stessa.
Sono tante le prove che abbiamo dovuto affrontare e superare, mentre nel frattempo facevamo sempre più i conti con quel lutto mai completamente elaborato, impossibile da elaborare. Dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado, quella che assolveva tutti per insufficienza di prove, ho guardato Fabio, il mio avvocato, la persona sempre presente in tanti anni di lotta, e gli ho detto: «Abbiamo vinto!». Lui mi guardava perplesso, lui a fianco a noi aveva lottato per cinque anni in un processo estenuante e disumano e ora aveva davanti la sua cliente che era uscita di testa. Questo avrà pensato fuori da quell’aula. Ma io ho proseguito e la sera gli ripetevo ancora, avendo negli occhi le persone che continuavano a chiedere giustizia: «Fabio noi abbiamo vinto».
Fabio alla fine ha capito, lui che per tutto quel tempo non si era arreso all’ipocrisia di un processo confezionato per salvare tutti e aveva lottato, contro tutto e tutti, per restituire almeno dignità a mio fratello. E per dimostrare la verità tra una serie infinita di menzogne. Avevamo perso, è vero, ma io e Fabio avevamo e abbiamo vinto.
Fuori da quell’aula tutti sapevano e tutti avevano capito. E lo sdegno fu unanime. Le persone che ci incontravano, che ci guardavano negli occhi, non trasmettevano pietà ma condivisione, consapevolezza, indignazione e orgoglio. Una dignità che ci accomunava e che ci unirà per sempre.
Oggi, dopo sei anni esatti dalla morte di Stefano, siamo a una svolta. Qualcosa in quel muro di gomma misero e falso, fatto di menzogne e ipocrisie forse si è rotto. Oggi, dopo sei anni, la giustizia ha la sua opportunità per dimostrare di essere davvero giusta e davvero uguale per tutti.
Aveva ragione Stefano, quello che abbiamo fatto è servito e servirà per molti altri. Ma a Stefano dico che, come sempre, ancora non gli credo fino in fondo e vado avanti, perché quello che abbiamo fatto voglio serva anche per lui. E non solo per lui, forse per tanti di noi… di voi.

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Questo monologo compare sul n. 41 di Left in edicola dal 31 ottobre