Negli ultimi giorni sono proseguiti gli sbarchi a Lesbos e Chios. Atene ha spiegato che non è in grado di implementare l'accordo tra Europa e Turchia mentre l'Unhcr precisa di non essere parte dell'intesa e che, anzi, ha dovuto smettere di svolgere alcuni servizi sulle isole greche per non partecipare ai rimpatri. Abbiamo sentito Carlotta Sami, portavoce dell'Agenzia Onu per i rifugiati per il Sud Europa

L’accordo tra Europa e Turchia per la riammissione dei rifugiati non funziona e non è granché. E per come è concepito cammina su un filo molto stretto tra diritto internazionale e violazione della convenzione di Ginevra. Il flusso di rifugiati che sbarcano a Lesbos e nelle isole al nord dell’Egeo non si è interrotto e, anzi, è aumentato per la consapevolezza che più passano i giorni è più sarà difficile per le persone che lasciano le coste turche, chiedere asilo in Europa.
Tra venerdì e oggi sono almeno 1600 le persone sbarcate tra Lesbos e Chios perché siriani, iracheni e afghani il loro Paese lo hanno già lasciato e non possono tornare indietro. E la Grecia, ma era cosa nota a tutti, ha spiegato che non è in grado di implementare l’accordo, deve adeguare le sue strutture, spostare personale e coordinare il lavoro di quei funzionari europei che a centinaia arriveranno nel Paese nei prossimi giorni. Non è una sorpresa per nessuno, la data in cui l’accordo è entrato in vigore (domenica scorsa) è figlia della fretta, della necessità di partire immediatamente ed evitare sbarchi in massa. Che però ci sono e ci saranno.
L’accordo presenta, lo abbiamo scritto in molte occasioni, inciampi legali e pratici di vario ordine e grado. Innanzitutto la Turchia, come ci spiega Carlotta Sami, portavoce di Unhcr per il Sud Europa (qui la posizione ufficiale dell’Agenzia che “prende atto dell’accordo”), ha una posizione ambigua per quanto riguarda il diritto d’asilo, avendo dato un permesso di protezione umanitaria ai siriani, che però non possono chiedere di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
Alla portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati nel sud Europa preme soprattutto un’altra questione: «Abbiamo letto molte cose in questi giorni sulla partecipazione dell’Unhcr all’accordo. È bene chiarire che non partecipiamo e non siamo parte di quell’accordo e che non prenderemo parte a nessun rimpatrio verso la Turchia». Non potrebbe essere altrimenti, l’agenzia esiste per garantire il diritto d’asilo e aiutare i rifugiati e le persone in fuga, non per rispedirle in un Paese terzo che non fornisce garanzie adeguate sulla loro destinazione finale.
«Il nostro ruolo oggi è quello di monitorare che sulle isole greche il diritto internazionale venga rispettato: fare in modo che tutti e ciascuno ricevano assistenza legale (ovvero che si spieghi loro come fare domanda di asilo e quali sono i requisiti necessari). Inoltre monitoreremo e cercheremo di individuare le persone vulnerabili che sulla carta vengono tutelate dall’accordo europeo-turco ma che oggi non hanno garanzia di tutela di protezione in Turchia».

Unhcr è anche uscita dalla gestione diretta dei servizi a Lesbos: «Prima trasportavamo le persone dalla zona degli sbarchi a nord dell’isola fino ai centri di accoglienza che però, come effetto dell’accordo, sono divenuti centri di detenzione. Rimaniamo attivi per le persone che hanno bisogno di interventi urgenti, a cominciare dall’ospedalizzazione».

L’accordo presenta almeno un problema ulteriore, oltre a quello dell’implementazione pratica, che costerà moltissimo e che necessità di personale spedito da diversi paesi europei sulle isole greche (Atene fino a qualche giorno fa rifiutava l’idea di avere delle guardie di frontiera europee sui propri confini). «Europa e Turchia hanno sottoscritto un testo che parla di rimpatrio che non nomina gli iracheni e gli afghani, in fuga da conflitti e/o persecuzioni personali anche loro», continua Sami. In questo caso non c’è nessuna garanzia che quelle persone non vengano rispedite a casa o in altri Paesi terzi, «L’Unhcr è pronta a collaborare con il governo di Ankara per lavorare all’adeguamento della legislazione in materia di asilo – che al momento non è prevista per i non europei – per l’accesso dei minori all’istruzione e degli adulti al lavoro». ma per adesso la legge turca non è in linea con le convenzioni internazionali.

E il piano di redistribuzione dei rifugiati già presenti in Europa? «Quello è un altro capitolo. Sembra di capire che dopo la firma dell’accordo ci sia stata un’accelerazione di quell’accordo intra-europeo che era rimasto quasi lettera morta. Per questo stiamo lavorando con il governo greco per creare dei siti di accoglienza per ospitare le 50mila persone che al momento sono in Grecia in attesa di essere ridislocate in altri Paesi europei. A Idomeni, che è la situazione più grave, partecipiamo alla fornitura di cibo e strutture igieniche».
E qui viene il punto: diversi Paesi europei hanno già spiegato che non hanno intenzione di accogliere nuovi rifugiati, l’Ungheria ha piazzato mezzi corazzati a “protezione” dei propri confini, una mossa che si giustifica solo con la voglia di parlare ai bassi istinti del popolo ungherese. L’implementazione di tutti gli accordi – per quanto limitati siano – è essenziale per garantire un minimo di diritti alle decine di migliaia in fuga che già si trovano in Europa. «In poche settimane il Canada ha accolto 25mila siriani, non serve uno sforzo sovrumano» ci spiega Sami. Il premier britannico Cameron ha invece spiegato che la Gran Bretagna non accoglierà più dei 20mila per i quali si è impegnata e non concederà nuovi visti di ingresso ai cittadini turchi.

Ora, è vero che in Canada c’è molto spazio, ma il tema è quello di una scelta politica: il nuovo governo canadese ha deciso che l’emergenza siriana aveva bisogno di una risposta urgente. Alcuni governi europei hanno invece deciso di utilizzare la crisi dei rifugiati come strumento di propaganda interna.

[divider] [/divider]

La famiglia Clooney a colloquio con dei rifugiati siriani e lo spot Unhcr “5 anni fa ero in Siria e stavo bene”

Amal racconta la propria storia di profuga libanese in fuga dalla guerra e la madre che parla con loro spiega: «Ho detto ai miei figli che era meglio morire per un proiettile che decapitati e che non volevo avessero tanta paura». Il video è dell’International Rescue Commitee, diretto da David Milliband, ex ministro degli Esteri britannico (nel video)