Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle mani del quale ci siamo ritrovati dopo la guerra, non è un successo. Esso non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. Così scriveva John Maynard Keynes nel 1933. La condizione odierna del capitalismo non è molto differente, se consideriamo che noi, così come Keynes, ci ritroviamo nel bel mezzo di una grande crisi innescata dalla finanza.
I Panama Papers, l’inchiesta-shock di un consorzio internazionale di giornalisti sulle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali di politici, imprenditori e celebrità, ha conquistato le prime pagine dei media in tutto il mondo. Sia chiaro, nulla di nuovo sotto il sole. L’evasione e l’elusione fiscale sono parte del capitalismo moderno, che «non è bello, non è giusto, non è virtuoso». Così come lo sono le manipolazioni dei tassi di interesse e dei cambi, che hanno fatto scalpore qualche anno fa. O lo scandalo LuxLeaks nel quale è stato coinvolto il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, facilitatore per diversi anni, nella veste di primo ministro del Lussemburgo, di pratiche illegali o al limite della legalità e in ogni caso ben lontane da quello spirito di collaborazione e coordinamento che dovrebbero essere alla base dell’Unione europea. Perché, questo è poco chiaro in questi giorni in cui si parla solo di Panama, l’Unione Europea stessa contiene dei paradisi fiscali.
Partiamo dall’elusione fiscale, la versione “legale” dell’evasione fiscale. La forma più comune di elusione fiscale è il cosiddetto transfer pricing, che consiste nella pratica, comune a tutte le multinazionali, di “spostare” gli utili verso quei Paesi con regimi fiscali più “convenienti” (cosa ovviamente non consentita ai comuni mortali). In Europa questa pratica si traduce nel fenomeno – diffusissimo – del dumping fiscale, quella forma di concorrenza fiscale in cui gli Stati europei competono tra di loro nell’abbassare le aliquote sulle imprese e sui redditi alti nel tentativo di attrarre investimenti e capitali, in una folle corsa al ribasso. È uno dei motivi per cui oggi l’Ue presenta in media uno dei livelli di tassazione d’impresa più bassi al mondo. Spostando i profitti verso i Paesi a fiscalità agevolata – tra cui spiccano l’Irlanda, la Svizzera, l’Olanda e il Lussemburgo -, a prescindere dal Paese in cui vendono i loro prodotti, le grandi imprese transnazionali che operano in Europa riescono a pagare ancora meno dell’aliquota media europea. In cima alla lista dei “peggiori elusori fiscali del continente” spiccano megacorporation come Apple, la società di maggior valore al mondo (che nel 2012 ha pagato un’aliquota risibile dell’1,9 per cento sugli utili percepiti fuori dagli Usa utilizzando delle sussidiarie irlandesi e olandesi), Amazon, Google, Ebay, Starbucks e Cisco Systems. Secondo uno studio condotto dall’organizzazione Tax Research Uk, il fenomeno dell’elusione fiscale costa agli Stati dell’Ue circa 150 miliardi di euro l’anno.
Si tratta di una cifra esorbitante, che impallidisce però di fronte al costo dell’evasione fiscale, a sua volta collegato al problema dei paradisi fiscali, che ha ricadute ancora più pesanti sui conti pubblici. Secondo la “lista nera” stilata dall’organizzazione britannica Tax Justice Network, esistono 73 paradisi fiscali al mondo (secondo l’Ocse, gli unici due paradisi fiscali rimasti al mondo sarebbero invece le due isole-nazioni di Nauru e di Niue). Incredibilmente, tra i 20 maggiori paradisi fiscali al mondo, otto di questi – Svizzera, Lussemburgo, Jersey, Germania (“destinataria di grossi volumi di flussi illeciti da varie parti del mondo”), Regno Unito, Belgio, Austria e Cipro – si trovano in Europa (e con l’eccezione della Svizzera e di Jersey fanno parte dell’Unione europea). Stabilire con precisione la somma di denaro occultata in questi paradisi è, per ovvi motivi, piuttosto difficile. Secondo le stime di James S. Henry, ex capo economista della McKinsey e autore di uno degli studi più esaurienti sul tema realizzati finora, essa ammonterebbe a qualcosa tra i 21 e i 32 trilioni di dollari (appartenenti in buona parte a individui facoltosi e imprese transnazionali), pari al 24-32 per cento di tutti gli investimenti globali e più del Pil degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme.
Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile