Quando la regina Elisabetta, nel novembre 2008, chiese ad alcuni professori della London School of Economics come mai non avevano previsto la crisi appena scoppiata, l’economia aveva appena ricevuto la migliore valutazione accademica tra tutte le discipline del Regno Unito. Quanto al dibattito che ne è seguito, Robert Lucas, premio Nobel e fondatore della moderna macroeconomia, che solo qualche anno prima aveva affermato che «il problema della prevenzione della depressione, per tutti gli scopi pratici era ormai stato risolto», sviluppò un contorto ragionamento secondo il quale la crisi non era stata prevista perché secondo la teoria economica certi eventi non possono essere previsti. Come può sussistere un contrasto così stridente tra l’effettiva capacità di una disciplina di interpretare la realtà e il prestigio di quella stessa disciplina nell’accademia e nell’opinione pubblica? Come mai, a distanza di otto anni, si ricorre ancora a quella teoria per superare questa perdurante fase di crisi?
È attorno a queste domande che scorre uno dei percorsi di ricerca del volume di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, appena pubblicato per i tipi della Laterza. Le discipline economiche, ci ricorda Sylos Labini, si sono sempre caratterizzate per la presenza di diverse scuole di pensiero, ciascuna delle quali si associava a differenti concezioni della storia, della società e della politica. Purtroppo, negli ultimi trent’anni, tra di esse ha preso il sopravvento la teoria economica neoclassica. Difficile dare pienamente conto del perché una scuola di pensiero, nata nella seconda metà dell’800 e accompagnata, fin dai suoi esordi, da critiche assai fondate, sia oggi il principale se non unico riferimento per accademici, politici e tecnici. Alcune di queste ragioni possono essere rintracciate nel fatto che, sul piano metodologico, essa è riuscita a presentarsi come interprete dei successi ottenuti in quel secolo dalla fisica newtoniana, imitandone la struttura e il metodo. Da qui scaturiscono i caratteri fondamentali di questa teoria: la riduzione del soggetto ad atomo isolato sul mercato (individualismo metodologico), l’idea della tendenza all’equilibrio tra forze (interessi) contrapposti, l’eliminazione dal campo della teoria pura di qualsiasi problematica non trattabile matematicamente.
In sostanza, è nella scelta metodologica la ragione ultima della devastante emarginazione dall’economia neoclassica di tutti quei temi – culturali, storici, giuridici, connessi alla giustizia sociale – che nel moto dei pianeti non trovano alcun corrispettivo.
Questo nucleo teorico ha affermato la propria egemonia culturale avvalendosi anche di operazioni propagandistiche ai limiti della truffa. La vicenda del cosiddetto “premio Nobel” in economia è particolarmente istruttiva. Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che il suo nome restasse associato a uno strumento di distruzione, dunque con i suoi ingenti guadagni istituì un fondo per premiare chi si fosse reso utile all’umanità nei campi della fisica, della chimica, della medicina, della letteratura e per la pace. Nel 1969 la Banca di Svezia, per dare all’economia il prestigio e la visibilità connessi all’assegnazione di un premio di così grande successo, istituì un “premio in Scienze economiche in memoria di Alfred Nobel” con fondi che non hanno nulla a che vedere con quest’ultimo. Recentemente, come ricorda Sylos Labini, Peter Nobel, avvocato e discendente di Alfred Nobel, ha dichiarato che «quello che è accaduto è un esempio senza precedenti di violazione di un marchio di successo».
Sostenuta dunque da un potente apparato propagandistico e da un’immensa disponibilità di risorse private e pubbliche, piuttosto che rendere un servizio utile all’umanità, l’economia neoclassica è riuscita in questi ultimi anni a trasformare una crisi nata nella finanza privata in una crisi causata dall’eccessiva generosità delle retribuzioni e del welfare. Di qui i colpi alla scuola, all’università, e a quelle politiche di austerità che stanno devastando gran parte del continente europeo.
Eppure, lungi dal seguire quelle prescrizioni, quale debba essere la strada per il progresso e il benessere sembra evidente: in una società in continua evoluzione scientifica e tecnologica, dove la competitività dei sistemi produttivi è sempre più legata alla capacità delle imprese di innovare, la centralità dello sforzo pubblico per l’istruzione e la ricerca non dovrebbe neanche essere oggetto di discussione. Assistiamo invece all’assurdo di un ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che esprimendo un modo di pensare assi diffuso tra le nostre classi dirigenti, affermò: «Perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?».
In sintonia con altri Paesi dell’Europa meridionale, l’Italia rischia così di compromettere per generazioni il proprio futuro. Non solo, ma l’assegnazione dei fondi per la ricerca segue criteri che nulla hanno a che vedere con la qualità di quest’ultima: l’analisi impietosa di Sylos Labini dello stato delle discipline economiche e del modo in cui l’economia dominante impedisce lo sviluppo di programmi di ricerca alternativi, non è isolata. Troviamo qui un secondo pregio del volume: emergono con chiarezza i limiti di una concezione della formazione che trascura la ricerca di base per quella applicata e, per distribuire i fondi e valutare studenti, docenti e ricercatori, si affida a improbabili indicatori di tipo quantitativo. L’autore – che è anche co-fondatore e redattore di Roars.it, brillante rivista dedita proprio a discutere dei temi connessi alla ricerca – ci illustra bene quale sorte avrebbero avuto oggi Wittgenstein, Frege, Semmelweis; lo stesso Einstein, il quale fu escluso dall’accademia e trovò posto all’ufficio brevetti di Berna, alla luce dei criteri oggi vigenti per le pubblicazioni scientifiche, nel 1905 si sarebbe visto rifiutare l’articolo in cui espone la teoria della relatività ristretta.
In sostanza, la credenza nel fatto che tutto ciò che ha un valore debba avere una misura quantitativa, che troviamo in economia, investe anche cultura e ricerca. Il metodo neoliberista si costituisce dunque come simbolo di un modo di pensare agli esseri umani e alla società che rischia di inaridire le fonti principali del nostro progresso sociale e civile.
(l’articolo è uscito su Left n.18)