La prima foto che illustra Independent work: Choice, necessity, and the gig economy rapporto McClatchy sul lavoro indipendente (freelance, autonomo, precario, chiamatelo come volete) è quella di un dog sitter. Segno che anche i grafici che lavorano per il gigante della consulenza alle imprese sanno che nelle economie avanzate il lavoro autonomo è difficile da definire: si va dall’autista Uber, al dog sitter, dal consulente finanziario, al softwtarista freelance. A seconda di chi sei, dell’ambito nel quale lavori, del Paese dove vivi, cambia tutto.
Il primo dato che salta agli occhi è quello quantitativo: nel rapporto si parla di 162 milioni di persone che lavorano come lavoratori indipendenti tra Stati Uniti ed Europa. Ovvero una percentuale che oscilla tra il 20 e il 30% della popolazione in età da lavoro – se guardiamo alla popolazione attiva, quindi, gli indipendenti sono ancora di più. Numeri che confermano quel che sapevamo già: nell’Occidente sviluppato il lavoro dalle 9 alle 5, dipendente e strutturato non è più la realtà nella quale viviamo. La flessibilità sembra destinata a crescere e con essa dovrebbero cambiare i ritmi della società, gli orari delle strutture rigide (dalla scuola, agli uffici pubblici), gli strumenti di tutela e welfare, l’organizzazione familiare e la distribuzione del tempo tra uomini e donne.
L’altro dato importante del rapporto McClatchy riguarda la volontarietà dell’indipendenza: il 14% del totale è autonomo per costrizione, il 16% fa un secondo lavoro indipendente perché non guadagna abbastanza, il 30% invece è soddisfatto della propria indipendenza. Infine ci sono quelli che fanno un lavoro indipendente come seconda fonte di reddito per scelta e non per necessità.
La verità è che siamo di fronte a una gamma infinita di incroci e possibilità. Ci sono i giovani americani in carriera che non hanno ancora esigenze familiari e che adorano la flessibilità totale perché possono lavorare di più o di meno a seconda di esigenze, bisogni, scelte. Ci sono gli adulti scandinavi o olandesi che hanno una rete di protezione che non discende dall’occupazione, ci sono i lavoratori di molti Paesi del Sud europeo che l’indipendenza se la sono vista imporre a partire dagli anni 90, quando, come ricorda il rapporto, quello che veniva percepito come un eccesso di rigidità del mercato del lavoro ha prodotto riforme nel senso della flessibilità che hanno creato un mercato a doppia velocità: da una parte i garantiti dall’altra gli indipendenti – che in questo caso possiamo chiamare precari. L’Italia, con il suo sistema arretrato, ha insomma anticipato la gig economy, ma non ha mai adattato il suo sistema di welfare alla flessibilità introdotta. Ne parliamo da 20 anni senza passi avanti. Infine ci sono gli indipendenti part-time: chi oltre al lavoro affitta case su Airbnb, fa l’autista part-time per Uber, fa l’imbianchino nel weekend, è anche un produttore artigianale e vende le sue cose online.
Una dimostrazione secca di questa teoria è l’infografica che troviamo proprio nel rapporto, relativa ai soli dati raccolti dagli istituti di statistica (che forniscono numeri tendenzialmente più bassi di quelli di McClatchy). Le parti in azzurro e celeste rappresentano le percentuali di lavoro autonomo e temporaneo. Come si nota, le percentuali si somigliano, ma dicono cose diverse: in Svezia e Germania una rete di welfare molto potente consente l’indipendenza per scelta nel 70-74% dei casi, in Spagna, gli indipendenti per forza sono il 42%. Grecia, Italia e Spagna (nell’ordine) hanno tassi più alti di inattività e disoccupazione. Ulteriore differenza: in questi Paesi l’indipendenza non volontaria prevale su quella volontaria. Il lavoro, insomma, è più precario.
Per molti, la capacità di scegliere gli incarichi ed esercitare il controllo su quando e come lavorare è una novità positiva. Questo vale soprattutto per i giovani, che secondo i dati raccolti nel rapporto (che non comprende tutti i Paesi elencati nella tabella qui sopra) lavorano come indipendenti nel 50% dei casi. E un po’ anche per le donne, sebbene spesso la loro sia una scelta imposta da esigenze di lavoro di cura. I più poveri, e questo è un dato che va sottolineato, sono in percentuale quelli dove il lavoro indipendente è più diffuso. Segno di un mercato del lavoro che offre posizioni precarie per lavori nei servizi poco qualificati. In America questa è una tendenza che ha caratterizzato i primi anni della ripresa occupazione post-2008.
A questo ptoposito è interessante un’altra indagine, solo americana, stavolta, condotta da Deloitte e pubblicata lo scorso agosto. Su 4mila persone che lavorano nella cosiddetta gig economy (il lavoro da freelance, temporaneo a contratto) intervistate, il 67% preferirebbe un lavoro stabile. Solo il 41% ritiene che la flessibilità offerta sia un vantaggio importante, ma il 56% ritiene che un reddito stabile e alcuni benefici di welfare, che negli Usa sono molto legati all’occupazione, sono un vantaggio maggiore. Le donne vedono nella flessibilità un benefit nel senso che riescono meglio a combinare la vita familiare con quella lavorativa, ma sono meno soddisfatte degli uomini dalla gig economy. Segno forse che occupano più spesso posizioni meno pagate?