Una settimana alla Casa Bianca e il mondo che conoscevamo non esiste più. Almeno nelle parole e negli annunci di Donald Trump. Muro con il Messico pagato con le tasse sull’import, tortura, dimissioni – forse forzate – della maggior parte dello staff dirigenziale del Dipartimento di Stato (la testa della diplomazia, che aveva lavorato sia con i democratici che con i repubblicani), sono solo alcune delle cose da ricordare. Più tardi l’incontro con Theresa May, che di certo regalerà qualche sorpresa – già ieri May ha parlato a Philadelphia facendo un discorso discutibile e poco europeo.
Tra le cose nuove, se si guarda al nuovo presidente, c’è il suo modo di comunicare. Che vale la pena di essere osservato da vicino. Partiamo da un tweet nel quale rilanciando un messaggio inviatogli da un anonimo conservatore texano, Trump rilancia l’idea che 3 milioni di persone avrebbero votato illegalmente. Le prove? le fornisce Gregg Phillips, il texano in questione. O meglio, le fornirà. In Italia scherziamo da anni sulle scie kimike. Questa è più o meno la stessa cosa.
La teoria secondo la quale le elezioni di novembre sono state falsate da numerose frodi e solo per questo Clinton ha preso più voti, è una panzana. Senza contare che ben tre dei massimi esponenti dello staff comunicazione di Trump sono registrati a votare in più di uno Stato – ovvero, volendo avrebbero potuto votare più di una volta.
Look forward to seeing final results of VoteStand. Gregg Phillips and crew say at least 3,000,000 votes were illegal. We must do better!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 27 gennaio 2017
In un’intervista con il New York Times lo stratega di Trump, Steve Bannon (nella foto in alto con Reince Priebus, capo dello staff alla Casa Bianca), a cui abbiamo dedicato un ampio ritratto qui e che sembra avere un ruolo cruciale nella modalità di comunicazione di tutta l’amministrazione, ha spiegato che «i media non hanno capito quel che sarebbe successo, farebbero bene a starsene zitti in un angolo per un po’….non capiscono gli Stati Uniti e sono la vera opposizione». Bannon si dice «orgoglioso» dell’operato di Michael Spicer, portavoce della Casa Bianca che ha attaccato Cnn per aver mostrato foto «false» della cerimonia di inaugurazione sostenendo, come è vero, che a quelle del 2008 e del 2012 ci fosse più gente che non a quella di venerdì 20 gennaio 2017. Kelyanne Conway, parte del nucleo ristretto dei comunicatori del presidente, ha parlato di “alternative facts”, fatti alternativi.
Il giorno successivo, è la volta del Messico, con il tweet qui sotto, Trump dice: «Se non vogliono pagare per il muro, allora sarà bene cancellare la visita» (ufficiale, del presidente Pena Nieto). Detto, fatto: il presidente messicano, che con una serie di tweet ha cercato di abbassare i toni, sceglie di cancellare la visita. Nasce la diplomazia via twitter e non è troppo diplomatica.
of jobs and companies lost. If Mexico is unwilling to pay for the badly needed wall, then it would be better to cancel the upcoming meeting.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 26 gennaio 2017
Esta mañana hemos informado a la Casa Blanca que no asistiré a la reunión de trabajo programada para el próximo martes con el @POTUS.
— Enrique Peña Nieto (@EPN) 26 gennaio 2017
Passo successivo: far circolare la notizia che il muro alla frontiera con il Messico verrà pagato da una tassa del 20% sulle importazioni da quel Paese. Una misura che allarma l’industria dell’auto e Wal Mart, il più grande datore di lavoro d’America, che dovrebbe alzare i prezzi, con un colpo all’occupazione e ai consumi della parte meno ricca della società americana (da Wal Mart si vende tutto quel che serve per vivere a poco prezzo). Dopo che tutti gli analisti spiegano che la tassa è di fatto una tassa sui consumo degli americani, l’amministrazione fa sapere che forse il dazio non è il modo migliore per “far pagare il muro ai messicani”.
Infine l’episodio più improbabile: nei giorni scorsi l’account twitter ufficiale del Park Service, che gestisce l’area dove si è tenuta l’inaugurazione, pubblica delel foto che comparano la folla del 2009 a quella del 2017. Trump prende il telefono, chiama il direttore del servizio nazionale parchi e gli chiede di pubblicare altre foto. Nel frattempo un account twitter di un parco del South Dakota viene censurato per aver pubblicato dati scientifici sul cambiamento climatico – in un modo, a dire il vero, visibilmente polemico con l’amministrazione.
La somma di tutti questi episodi non può essere derubricata come un caso di impulsività cronica di una figura non adatta a fare il presidente di condominio. Trump ha ribadito alcuni concetti vistosamente falsi durante discorsi e interviste, le sue prime uscite ufficiali da presidente. Parallelamente i suoi, Spicer dal podio della casa Bianca e Bannon nell’intervista, hanno sparato ad alzo zero contro i media ufficiali. Il messaggio, diretto alla sola base elettorale del presidente e non al popolo americano nel suo complesso, è chiaro: vi raccontano frottole su quel che siamo e quel che vogliamo, la verità ve la diciamo noi e poi smascheriamo i nostri e vostri nemici denunciandoli pubblicamente. Non c’è niente di nuovo. Parlare “tra noi”, individuare un nemico potente, additarlo, fornire una versione dei fatti alternativa è una pratica di tutti i movimenti populisti contemporanei e non. I nemici, in questa fase, sono i media e il Messico. E l’uso dell’account twitter non è un modo per parlare con il presidente di un Paese amico e vicino (c’è quell’antico strumento che si chiama telefono), ma per rilanciare un’immagine di presidente combattente.
Si tratta di una vecchia modalità della destra americana, che da decenni si è creata una linea di comunicazione diretta con la propria base utilizzando la talk radio conservatrice, siti e FoxNews che hanno ascolti e audience clamorosamente alti per essere (FoxNews esclusa) media alternativi. Un ambiente chiuso, con proprie figure di riferimento, super popolari ma che, con qualche eccezione, tendono a evitare di comparire sui media più noti o in Tv. Tra l’altro, i tweet di Trump spesso sono in relazioni con contenuti diffusi da FoxNews o in risposta polemica a quelli di altri media. Come se si trattasse di un nostro spettatore arrabiato-troll qualsiasi.
Steve Bannon, cresciuto come produttore di informazioni all’ombra di Breibart News (di nuovo, nel pezzo su di lui c’è molto), è uno che di quell’ambiente si intende ed evidentemente sta lavorando per mantenere quel profilo a questa presidenza. Nel frattempo, come già successo in campagna elettorale, Trump usa i grandi canali, gli appuntamenti ufficiali, per produrre comunicazione al pubblico generale che abbia gli stessi contenuti ma che non sia bollabile come “conservative news”. È un lavoro ben fatto che punta, tra le altre cose, a influenzare, condizionare la maggioranza repubblicana in Congresso, il cui elettorato è abituato al modo di comunicare di Trump e compagnia. In effetti, in questa prima settimana, escluse poche voci coraggiose (i senatori McCain e Graham ad esempio), si sono tutti messi in riga dietro alle proposte e ai modi di fare rischiosi del presidente. Per tutte queste ragioni, sui media americani è in corso un grande dibattito su come e cosa fare di fronte a questo contesto cambiato, nel quale il podio della Casa Bianca non è più il luogo dello spin per una comunicazione ufficiale istituzionale ma uno strumento di propaganda dai toni aspri.