Due sono le notizie di giornata che danno ulteriore senso alla copertina con cui saremo in edicola da sabato 11 febbraio, “Liberi tutti”, con il Pd rappresentato come una gabbia da cui fuggire alla svelta, perché anche il congresso che Renzi concederà difficilmente, temiamo, potrà aprire una fase nuova (nuova veramente: non solo per i toni della comunicazione)

Due sono le notizie di giornata che danno ulteriore senso alla copertina con cui Left sarà in edicola da sabato 11 febbraio, “Liberi tutti”, con il Pd rappresentato come una gabbia da cui fuggire alla svelta, perché anche il congresso che Renzi concederà difficilmente, temiamo, potrà aprire una fase nuova (nuova veramente: non solo per i toni della comunicazione).

La prima notizia è la mozione che alcuni deputati renziani hanno scritto per dire a Gentiloni che non si azzardasse ad alzare le tasse, mettendo così le mani avanti su una crisi di governo che presto o tardi (presto, spera Renzi) dovrà arrivare. La seconda è l’intervista che Giuliano Pisapia ha rilasciato a Aldo Cazzullo, annunciando che scende in campo di nuovo, «ieri a Milano, oggi in Italia», e che, sperando in una legge elettorale che preveda il premio di coalizione, vuole candidarsi con il nascituro Campo progressista ad «essere l’embrione del nuovo centrosinistra».

Partiamo dal documento dei renziani. Che così accusano Gentiloni, di fatto (sorvolando sul fatto che il ministro dell’economia sia lo stesso di prima, così come il 90 per cento dell’esecutivo), di esser pronto ad alzare le tasse, le accise su carburante e tabacchi, e di voler rispondere troppo diligentemente alle richieste dell’Europa. Richieste che i renziani, si deve intendere, avrebbero rispedito al mittente, fosse dipeso ancora tutto da loro. Che sia un attacco al governo, è indiscutibile. Tant’è che nel Pd qualcuno – neanche timidamente – lo dice: «È evidente che si tratta di una mozione politica che non entra nelle dinamiche economiche», dice ad esempio Francesco Boccia, dem e presidente della commissione bilancio, secondo cui «oggi non ha senso fare inutili discussioni con la commissione europea su uno 0.2 del rapporto Deficit/pil; rompere oggi per 3.4 mld e incorrere in una procedura di infrazione non mi sembra il caso» e, se proprio una mozione si voleva fare, questa doveva partire con «la premessa che è il governo Renzi che non è riuscito evidentemente a tagliare la spesa improduttiva».

E se evidente è la ricaduta politica della mozione. Evidente, anche se palazzo Chigi parla di «ricostruzioni fantasiose», è il conseguente fastidio del presidente del Consiglio. Che vede così cominciare il tiro al piccione che durerà per mesi, per tenere la giusta tensione di cui ha bisogno la strategia renziana, che prevede un ritorno alle urne il prima possibile. Nell’eterno replicarsi della guerra senza esclusione di colpi interna al Pd. Da cui sarebbe il caso di stare alla larga. Lasciandoli fare (le liti e pure la legge elettorale), organizzandosi, vedendo poi (poi) quali scelte richiederanno i frutti.

Ed eccoci all’intervista di Pisapia, che lancerà ufficialmente Campo progressista l’11 marzo. «La prospettiva» dice l’ex sindaco di Milano, «è ambiziosa: spostare il Partito democratico a sinistra. Per necessità numerica, il Pd è stato costretto a governare con forze che non erano né di sinistra né civiche. È il momento di andare oltre». Molte sono state le reazioni e molti i commenti – tra cui, vi segnaliamo quella di Jacopo Tondelli che, su Gli stati generali, nota come il disegno di Pisapia si basi su un entusiasmo troppo milanese, città che può falsare la prospettiva, perché invece, “che Milano sia un’isola a parte, anche dal punto di vista elettorale, lo hanno dimostrato anche tutte le recenti occasioni, dalle amministrative che hanno eletto Sala a sindaco al referendum costituzionale”.

Ma tra le accuse che – da chi sta più a sinistra, ovviamente – sono arrivate a Pisapia c’è quella di un peccato di politicismo. Politicista, si dice in sintesi (dice, ad esempio, Nichi Vendola) è porre a priori l’obiettivo del centrosinistra, di un’alleanza resa possibile non da una convergenza politica ma da una legge elettorale. Per noi c’è del vero. E non solo perché evidentemente politicista è un progetto politico che scommette su una sola tipologia di legge elettorale. «Penso», dice Pisapia, «che l’alleanza tra il Pd, noi, le liste civiche, gli ecologisti possa arrivare al 40 per cento. Certo, dipenderà se la legge elettorale consentirà le coalizioni. Siamo una forza autonoma; non possiamo certo entrare in una lista con il Pd».

Quello che più ci colpisce è il giudizio che Pisapia dà (o meglio conferma) di Renzi. «Ha lati positivi», dice sempre a Cazzullo, «coraggio e, all’inizio, capacità innovativa. Ha portato a termine riforme ferme da decenni, a cominciare dalle unioni civili; ma ha anche sbagliato sul referendum e su altre riforme che si sono trasformate in controriforme, ad esempio sul Jobs Act. Dovrebbe ascoltare di più. E non ha capito che i corpi intermedi sono importanti; a cominciare dai sindacati». Renzi, vi spieghiamo nei nostri servizi di copertina, vincerà il congresso che il Pd farà prima del voto. E se Pisapia punta il dito contro Alfano («Non possiamo stare con un partito di centrodestra», dice, «rispetto Alfano, ma dai diritti civili alle politiche per i giovani siamo diversi»), noi siamo qui a ricordare che non è certo Ncd ad aver obbligato il Pd ad abolire l’articolo 18, per dire, o a sdoganare i voucher, come d’altronde non è solo Ncd a tener ferma la legge sul testamento biologico o ad aver voluto lo stralcio delle adozioni dalla legge Cirinnà. Insomma. Il nostro dubbio è: sicuri si possa archiviare (ciò che politicamente è) il renzismo con Renzi e nel partito che Renzi ha prodotto?

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Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.