Dice che non è lui a decidere la data del voto. Ma siccome «entro un anno si voterà», Renzi anticipa il congresso. Per trovare nuovo smalto e incastrare la minoranza

Inizia – come fa spesso – vestendo i panni del responsabile, Matteo Renzi, nell’ennesima (e sempre campale) direzione del Partito democratico. Maglioncino blu girocollo, Renzi esprime molto fastidio per «il ritorno dei caminetti» e per la politica che «dopo il referendum ha rimesso indietro le lancette», prima di dire che lui si fa volentieri carico di sbloccare la discussione interna al Pd.

«Abbiamo fatto analisi del voto, interviste col capo cosparso di cenere», dice convinto comunque di aver già fatto il suo: «Mi sono dimesso da Palazzo Chigi. Ho pagato il pegno. Ma se uno degli errori della campagna è stata la personalizzazione, proviamo almeno a depersonalizzare ora». Quindi Renzi è pronto a fare di più, responsabile. solo che poi parla di Trump, di Le Pen, di globalizzazione. E si dimentica il tono pacato. E comincia la campagna congressuale. «Non posso più prendere in giro la nostra gente. Non potete più prendere in giro la nostra gente», dice ad esempio, accusando la minoranza interna, annunciando che è lui a interrompere quella che gli pare proprio una melina e a chiedere il congresso.

Con questo piglio Matteo Renzi concede dunque la conta a cui abbiamo dedicato l’ultima copertina di Left. Concede il congresso, per rispondere alle recenti dichiarazioni di D’Alema e Bersani: «Io non voglio scissioni e se scissione deve essere voglio che sia senza alibi, soprattutto quello del calendario». «Si fa il congresso», dice Renzi, che quindi (anche se non lo dice  nell’introduzione, lasciando i più nel dubbio) si dimette da segretario, dando così inizio all’unico iter previsto, salvo la scadenza naturale, dallo statuto dei dem. «Ma chi perde non vada via col pallone», è l’immancabile provocazione del segretario: «Non lasci solo chi vince, come è successo a Roma con Giachetti».

Renzi così vuole incastrare la minoranza, è evidente, allontana «il ricatto» della scissione e mette allo stesso modo un timer sulla testa di Gentiloni. Perché Renzi vuole un congresso rapido («con le regole dell’altra volta»), una conta che è convinto di vincere: «Vediamo chi ha più popolo», continua, prima di tirare alcuni facili colpi, che anticipano la campagna. Il primo: «Leggo che qualcuno voleva il congresso per costruire alternativa al renzismo. Troppo onore. Io penso dovremmo costruire alternative al trumpismo, al massimo al grillismo». Il secondo. Renzi, impaziente di discutere di programmi, prima decanta i fasti del jobs act e poi, retorico, attacca: «In questi giorni mi sono anche chiesto se abbiamo fatto bene negli ultimi vent’anni. Abbiamo fatto bene su Telecom? Abbiamo fatto bene su Ilva? Mi fa piacere poter discutere con voi. Io non vedo l’ora che parta la commissione d’inchiesta sulle banche, perché è sembrato a un certo punto che il problema fossero due o tre banchette toscane». E via a citare la banca 121 (salentina e quindi, nel vocabolario dem, dalemiana) o quelle del Veneto.

«Noi torniamo alla politica. Vi aspettiamo lì», continua nel lancio della sfida. Preoccupato però di rassicurare almeno un po’ il governo, di fare almeno il gesto. Non si dica insomma che vuole il congresso presto per tentare presto di tornare a palazzo Chigi. È così (tant’è che Bersani gli chiede invece di mettere in sicurezza Gentiloni decidendo insieme che la legislatura arriverà alla fine e di fare il congresso con più calma) ma non si può dire. «Quanto si vota non lo decido io», dice, «e questa visione alla Giucas Casella, ‘quando lo dico io’, va rimossa. La discussione sul voto verrà fatta da chi ha responsabilità istituzionale. Quello che deve essere chiaro, a tutti, è che il congresso Pd non si fa per decidere il giorno in cui si fanno le elezioni politiche. Ma da qui a un anno, prima o poi, si dovrà però votare. Io allora dico: facciamoci trovare pronti».

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.