Dopo l'assemblea del 18 giugno al Teatro Brancaccio, l'ex magistrato dice come deve essere una lista unica di sinistra: programma chiaro, volti nuovi e niente demagogia. «Non sono un ingenuo movimentista, mi sembra una buona partenza»

Mentre ci si avvicina al secondo turno delle amministrative e diventa sempre più stretto il rapporto tra Mdp e Giuliano Pisapia che il 1 luglio convoca il suo Campo Progressista a Roma, continuano le reazioni dopo l’assemblea al Teatro Brancaccio del 18 giugno. All’appello per una lista unica di sinistra lanciato da Anna Falcone e Tomaso Montanari hanno aderito in molti, e tra questi c’è anche Livio Pepino, ex magistrato prestato all’editoria (cura le edizioni del Gruppo Abele). «Io sono uno dei molti che spera che sia questa sia la prospettiva giusta e cercherò di dare una mano» dice dopo l’incontro.
Durante il suo intervento aveva toccato tre punti, di cui uno era quello delle alleanze. Cioè, lei ha detto, non deve essere questa la principale preoccupazione per costruire una lista unitaria.
Bisogna partire dalle fondamenta e non dai tetti come ha detto anche Tomaso Montanari. Cioè bisogna partire dal programma, dalla forza delle associazioni che rispondono all’appello. E visto che c’è un po’ di tempo ancora, visto che la scadenza elettorale non sarà immediata, occorre stilare un un programma coerente e dopo di che procedere, senza fare l’esame del sangue a nessuno e senza fare recriminazioni sulle storie personali di ognuno. La cosa importante è che ci sia un’adesione convinta al programma, se non c’è, è inutile dire che mi alleo con Tizio, Caio o Sempronio. Ricordiamoci che nel passato questo modo di agire ha portato a sconfitte, come quelle della lista Arcobaleno.
Qual è la sensazione rispetto all’assemblea del 18 giugno?
C’è molto da lavorare, ma mi sembra una buona partenza, c’è stata un’ottima adesione, si sono ascoltati buoni interventi. Questa però è solo la premessa. Si gioca la prima parte della partita nei prossimi due mesi. A settembre bisogna capire se questo appello ha avuto nei territori delle reazioni positive, se c’è mobilitazione forte, voglia di costruire. Io credo che possa funzionare, ripeto, le premesse in qualche modo ci sono, anche se sono tutte le da verificare.
Nel secondo punto da lei toccato, ha parlato di chiarezza nel programma e nell’agire politico.
La chiarezza è collegata naturalmente al primo punto. La cosa importante è il radicamento nel territorio: ora questo potrebbe essere l’ennesimo slogan, ma per me significa che bisogna cercare di mettere insieme e di far ragionare tra di loro una serie di realtà che nel territorio ci sono, fanno cose interessanti e sono orientate verso prospettive egualitarie e però sono distanti dalla politica. Sono associazioni, sono persone che lavorano con i migranti, una parte dei movimenti studenteschi, pezzi del mondo del lavoro che non si sentono rappresentati, ma che però esistono. Ci sono tanti spezzoni che non hanno rappresentanza, il problema non è pensare alla sinistra come a un luogo del Parlamento, il problema è pensare a questi pezzi qui, che se si mettono in rete e in collegamento tra di loro possono fare molto.
Non saranno solo speranze?
Non sono un ingenuo movimentista che pensa che si possa realizzare tutto da un giorno all’altro, ma alcune esperienze ci sono nel mondo. Quello che ha fatto la differenza in Inghilterra con Corbyn e negli Usa con Sanders è stata la mobilitazione di una serie di settori che non lo facevano da decenni e che lo hanno fatto. Hanno trovato un riferimento. E al di là della distinzione vecchi-giovani, perché non è questo il problema, il problema è la coerenza del progetto, dire le parole giuste e avere una storia senza scheletri nell’armadio.
E a proposito di scheletri nell’armadio, lei ha detto al Brancaccio che è un errore non aver fatto una discontinuità con il passato.
Io parto da un’analisi sia del non voto che su quello che in parte, in Italia come in altre parti d’Europa, è diventato un “voto di vendetta” come l’ha chiamato Marco Revelli. In quel 20% delle classi subalterne che negli Usa ha votato per Trump, credo che nessuno pensasse che lui avrebbe risolto i suoi problemi ma che almeno con quel voto gliel’avrebbe fatta pagare agli altri. Anche il voto dei 5 stelle io lo vedo in quest’ottica. Lo si è visto sin dalle prime manifestazioni, quelle del vaffa. Ecco, questo è il sentire comune, io credo a torto ma in buona parte anche a ragione. Ora noi non bisogna cavalcare la demagogia, bisogna fare discorsi seri ma con modalità, facce, parole, forma di rappresentanza che dimostrino effettivamente che si è voltato pagina. E questo al di là delle responsabilità soggettive, perché non è vero che tutti sono uguali. In questi anni c’è chi ha sbagliato. E quando il ceto politico ha perso credibilità per una serie di ragioni, non è che glielo puoi riproporre agli elettori.
E allora cosa fare, come conciliare i vari pezzi dell’alleanza?
Il problema è che non bisogna escludere a priori nessuno. Ma se domani le liste possono anche comprendere pezzi che hanno fatto politica in passato tuttavia devono esserci in prevalenza volti nuovi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Il senso deve essere quello di un’altra cosa, diversa dal passato. Certo, bisogna dare delle risposte giuste. Per esempio, nel dibattito sulla sicurezza, a chi ha paura non si può dire non devi avere paura, bisogna saper dare delle soluzioni. A chi dice che questo sistema non funziona, è marcio, non gli puoi dire non è vero, gli devi dare delle risposte che, se mai dimostri che su alcuni punti ha torto, ma deve essere una risposta diversa che lo deve portare da qualche parte. Se no, faremo dei programmi bellissimi e nessuno li sosterrà.
Come deve essere una politica seria di sinistra?
Chi è riuscito di nuovo ad aggregare è riuscito a fare una politica concreta: in una città deve aprire delle mense, ambulatori medici gratuiti ecc. Insomma bisogna dare risposte alle persone. Se lo fai, la gente si fida e allora puoi essere anche credibile nel momento in cui fai anche dei progetti più ampi. Oggi, siccome tutti promettono ogni sorta di cosa, e la realtà poi è estremamente deludente, la reazione dell’opinione pubblica è quella di sfiducia.

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Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.