Prima un selfie davanti alla Cupola della Roccia, poi le pistole: alle 7 del mattino di venerdì 14 luglio la Spianata delle moschee è stata teatro della morte di cinque persone, due poliziotti israeliani e i tre aggressori palestinesi. Si chiamavano tutti Mohammed Jabarin e venivano da Umm al Fahem, città araba di Israele nel cosiddetto “triangolo”, area a maggioranza palestinese marginalizzata e dimenticata dalle autorità di Tel Aviv. Mohammed Ahmed Mohammed Jabarin, 29 anni, Mohamed Hamad Abdel Atif Jabarin, 19, e Mohammed Ahmed Mufdal Jabarin, 19, hanno aperto il fuoco sulla polizia che come ogni giorno presidia il terzo luogo sacro dell’Islam. E come tanti prima di loro sono stati uccisi, mentre fuori Israele blindava Gerusalemme e imponeva chiusure punitive per il resto della popolazione palestinese.
Due giorni prima, il 12 luglio, l’esercito israeliano è entrato nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, alle prime ore dell’alba. I residenti sono usciti dalle case attaccate l’una all’altra, ricostruite con difficoltà dopo la devastazione e il massacro dell’operazione Scudo difensivo dell’aprile 2002. I giovani hanno lanciato pietre, i soldati lacrimogeni e granate stordenti, mezzi di “dispersione” della folla che in passato non hanno mancato di uccidere. Poi hanno aperto il fuoco, pallottole vere, e hanno ucciso due ragazzi. Uno di loro aveva 17 anni, Aws Mohammed Salama; il secondo 21, Sa’ad Hasan Salah, un fratello prigioniero politico e un altro ex detenuto nelle carceri israeliane. È stato colpito alla testa. Il 10 luglio a morire sotto i colpi dei soldati era stato il 24enne Muhammad Ibrahim Jibri, residente nel villaggio di Tuqu’, Betlemme, piccola comunità circondata dalle colonie. Con la sua auto avrebbe tentato di investire…