Un giorno di festa, quello del voto per l’indipendenza. Ma la vittoria del “sì” rischia di trasformarsi in un boomerang per il “popolo senza Stato”, già diviso geograficamente, la cui sopravvivenza dipende dai rapporti politici e commerciali con le potenze vicine

Due voti, due strategie politiche, due ideologie. Settembre è stato un mese di urne aperte per i curdi, il più grande popolo senza Stato al mondo, forzatamente diviso dopo la prima guerra mondiale tra le nuove nazioni plasmate in Medio Oriente dal colonialismo europeo. Nei tre cantoni di Rojava, il Kurdistan siriano, venerdì 22 settembre, 3.700 comunità hanno votato per la formazioni delle comuni a cui seguiranno – da qui all’anno prossimo – le elezioni per le assemblee comunali, di distretto, di cantone e infine per il parlamento.

Un passo importante per la Federazione democratica del Nord della Siria, la cui nascita è stata annunciata lo scorso anno dalla regione, de facto autonoma, che sta costruendo giorno dopo giorno una nuova forma di organizzazione comunitaria basata sul confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Ocalan. Nessuna indipendenza dalla Siria, dunque, ma un’autonomia di base che permetta la realizzazione di una democrazia diretta, non più meramente rappresentativa. Un modello affascinante che ha mosso i primi passi nel 2004 e che attira oggi l’interesse di numerosi movimenti di sinistra in tutto il mondo.

L’internazionalismo che non si vede solo nella partecipazione di stranieri alla lotta dei curdi all’Isis prima a Kobane e ora a Raqqa, ma…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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