Tutte le vittime del Mediterraneo e la spinta a “blindare” i confini all’interno e intorno all’Europa sono un avvertimento: non si possono dare risposte conservatrici nei confronti di quelle persone emarginate e prive di diritti che a causa dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale rischiano di perdere la vita, sono costrette alla povertà o ad abbandonare la loro terra. Ciò che queste morti e le vite devastate dei profughi rivela è la scomparsa dalla politica dominante contemporanea persino delle idee formali che comprendono la responsabilità di proteggere e di accogliere, di cura e di giustizia. Eppure il nesso tra cambiamenti climatici, migrazioni e violazione dei diritti umani è ormai accertato.
Povertà, disuguaglianze, urbanizzazione, globalizzazione del settore alimentare, mancanza di adeguate infrastrutture, densità abitativa, conflitti, sono tutti fattori che definiscono differenti gradi di vulnerabilità ed esposizione ai cambiamenti climatici. Già nel 2007 l’ufficio Onu dell’Alto commissario per i diritti umani (Unhcr) aveva affermato che i Paesi in via di sviluppo e quelli meno sviluppati – proprio quelli che meno di altri hanno contribuito all’accumulo di gas serra in atmosfera e al conseguente climate change – avrebbero pagato il prezzo più alto. Le regioni del mondo già adesso più povere, le classi sociali più misere, i bambini e gli anziani, le persone discriminate per motivi sociali, risultano più vulnerabili e meno capaci di sviluppare adeguate risposte di adattamento ai cambiamenti climatici e agli estremi eventi climatici (alluvioni, uragani, siccità, mareggiate, ecc). E questi ultimi – sostiene l’Onu – potranno essere la causa di una crisi economica e potranno creare nuove “gabbie di povertà”.
Il rischio potenziale maggiore…