Inaugura il 3 novembre all’Arteficio di via Bligny 18L a Torino, la mostra di Stefano Stranges “Le vittime delle nostra ricchezza”, incentrata sul ciclo della raccolta, produzione e smaltimento del coltan, minerale utilizzato per i cellulari e i computer, causa di guerre e distruzione dell’ambiente. Dalle miniere del Nord Kivu, in Congo, alle discariche di Accra, in Ghana, per la prima volta sono visibili al pubblico le tappe che il fotoreporter torinese ha documentato in due anni di lavoro. La prima parte del progetto, riguardante le miniere del Congo in cui migliaia di persone, spesso bambini, estraggono il coltan a mani nude per pochi dollari, è arrivato alle selezioni finali del Sifest Premio Pesaresi 2016, ha ottenuto la menzione d’onore all’Ipoty (International photographer of the year) e ha vinto il Festival Diritti Umani 2017. Il 14 novembre presenzierà alla mostra, aperta fino al 19, il dottor Denis Mukwege. Pubblichiamo qui di seguito l'intervistaa Mukwege realizzata per Left da Federica Tourn. [caption id="attachment_105752" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of our wealth - Life in Sodom and Gomorrah. Il tramonto a Sodoma e Gomorra.[/caption] [caption id="attachment_105755" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of our wealth - Life in Sodom and Gomorrah. Mohammed, un ragazzo della comunità della baraccopoli, sul retro i fumi tossici della plastica e dei metalli stanno bruciando, come ogni giorno..[/caption] [caption id="attachment_105753" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of our wealth - Life in Sodom and Gomorrah. Mohammed, un ragazzo della comunità della baraccopoli, mostra la sua casa fatta di scheletri di vecchi frigoriferi[/caption] [caption id="attachment_105756" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of our wealth - Life in Sodom and Gomorrah. Akwasi, Michael, Abeiku, Ishmael, Sumaila e Wakasu, hanno vissuto sempre a Sodoma e Gomorra cercando di recuperare i migliori pezzi di rifiuti elettronici da vendere per il riciclaggio.[/caption] [caption id="attachment_105757" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.[/caption] [caption id="attachment_105758" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.[/caption] [caption id="attachment_105754" align="aligncenter" width="1024"] © Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.[/caption] Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. È nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel '99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l'ennesima crisi - con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu - l'incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio a Mukwege l'ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Joseph Kabila infatti si ostina a rimanere al potere nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016 e sono molti, in Congo, a chiedere che sia proprio il “medico delle donne” a gestire un governo di transizione che riporti la legalità nel Paese in attesa che si tengano le elezioni, in teoria previste per la fine dell'anno ma di fatto del tutto improbabili per i ritardi della Commissione elettorale, i disordini interni e per le manovre dello stesso Kabila che, al governo dal 2001, vorrebbe mettere mano alla Costituzione per potersi ricandidare. Mukwege non si sbilancia ma è possibile che presto debba mettersi al servizio del suo Paese, come ama ripetere, non soltanto come medico ma anche come politico. Qual è la situazione in Congo? In Congo assistiamo a uno stallo: non c'è stato il progresso che ci saremmo potuti aspettare con la fine della guerra e, nonostante l'accordo di pace sia stato firmato nel 2002, la gente continua a morire assassinata. Di fatto non è cambiato niente. In particolare quello che mi tormenta è che non siamo riusciti a mettere fine alle violenze sessuali: uno stupro devasta la vita di una donna. E chissà quante sono in questa condizione e non riescono a raccontarlo. Non c'è giustizia per le vittime: nel mio Paese regnano solo la menzogna e la negazione del dramma. La chiamano “l'uomo che ripara le donne”: un riconoscimento e una responsabilità molto impegnativi. È qualcosa che non ho cercato ma che mi si è imposto e a cui non ho potuto sottrarmi. Sono di formazione ginecologo e ostetrico e durante il mio lavoro ho potuto verificare che le mie pazienti avevano ferite estremamente gravi: all'inizio pensavo che si trattasse di una situazione passeggera, ma con il tempo ho dovuto rendermi conto che ero di fronte a un problema sistematico. Non ho potuto fare altro che prendere in carico le vittime delle violenze sessuali: le donne infatti non avevano solo ferite fisiche ma anche psicologiche, soffrivano di esclusione sociale e avevano bisogno di giustizia; per questo a Bukavu abbiamo concepito un modello per sostenere le donne da tutti i punti di vista, dalle cure mediche all'assistenza legale. Lei ha ricevuto nel 2014 il Premio Sacharov per il suo impegno. È stato soltanto un gesto formale o l'Occidente supporta il suo lavoro? Ho sempre detto che un riconoscimento ha senso soltanto se aiuta a eradicare la “malattia” che si combatte, altrimenti non ha valore. Il premio Sacharov ha dato visibilità al problema, oggi sappiamo che quando cerchiamo di dare voce a chi non ce l'ha almeno troviamo degli interlocutori. Ora dobbiamo chiedere alla comunità internazionale che si muova con decisione, come ha fatto per le armi chimiche e le mine antiuomo, e che metta al bando una violenza che coinvolge milioni di donne in tutto il mondo e che viene usata come arma di guerra. Perché distrugge l'integrità fisica e psichica della donna ma anche i legami famigliari e sociali di intere comunità. Si può fare un lavoro di prevenzione? Si può intervenire molto presto per smontare gli stereotipi di genere. Per esempio, se dici a un ragazzino “non piangere come una bambina”, imponi ai maschi a non mostrare emozioni; stiamo continuando a perpetrare questa educazione patriarcale, non solo in Africa ma ovunque, anche in quei Paesi in cui l'eguaglianza fra i sessi sembra raggiunta. L'educazione sessuale è fondamentale: se rendiamo il sesso un tabù e non parliamo di sessualità, i nostri figli troveranno su internet quello che cercano. Il silenzio è alleato degli stupratori; da un lato chi violenta sfrutta a suo vantaggio il fatto che non se ne parli, mentre la vittima tace per vergogna e paura di essere discriminata. In Congo abbiamo un grave problema di impunità dello stupratore, perché la donna deve provare di aver subito violenza e molte vittime non osano farlo perché se denunciano vengono escluse dalla comunità. Lei ha subito un attentato nel 2012 ed è tuttora sotto protezione dei caschi blu dell'Onu. Come vive questa condizione personale? È molto dura, non lo nego, ma l'enorme capacità di reazione delle donne non mi permette di far altro che combattere al loro fianco. Soffrono di dolori inimmaginabili ma quando si risvegliano da un'operazione non mi chiedono mai “che cosa sarà di me?”, il loro primo pensiero va sempre ai bambini, o al marito. Le donne sono capaci di vivere per gli altri, mentre la stessa cosa non si può dire dei maschi. Hanno un coraggio eccezionale: me ne sono andato dal mio Paese quando mia figlia è stata rapita ma loro hanno venduto frutta e verdure per raccogliere i soldi del biglietto e farmi tornare. Che cosa potevo fare di fronte a questo? Quante donne ha curato nella sua vita? All'ospedale di Panzi abbiamo curato almeno 50mila donne ma questo non sembra scuotere per nulla l'opinione pubblica. In ogni caso non amo fare conti perché sui numeri si può fare speculazione e inoltre cambiano ogni giorno: non sono le cifre che devono spingerci a reagire ma la consapevolezza che dietro un numero c'è un essere umano. La cosa che mi fa più male è quando curo delle bambine poco più che neonate, quando devo intervenire sul perineo distrutto di bambine di dodici, diciotto mesi: la più piccola che ho operato ne aveva appena sei. Per me sono queste le situazioni più difficili da affrontare. Ha un successore? Qualcuno che segue il suo esempio? C'era un ginecologo, un medico che aveva la mia stessa formazione (Gildo Byamungu Magaju, direttore dell'ospedale di Kasenga, Sud Kivu, ndr); lo consideravo il mio “erede”. È stato assassinato a fine aprile.   [su_divider text="In edicola " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'intervista a Denis Mukwege e il reportage fotografico sono tratti da Left n. 43

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Inaugura il 3 novembre all’Arteficio di via Bligny 18L a Torino, la mostra di Stefano Stranges “Le vittime delle nostra ricchezza”, incentrata sul ciclo della raccolta, produzione e smaltimento del coltan, minerale utilizzato per i cellulari e i computer, causa di guerre e distruzione dell’ambiente. Dalle miniere del Nord Kivu, in Congo, alle discariche di Accra, in Ghana, per la prima volta sono visibili al pubblico le tappe che il fotoreporter torinese ha documentato in due anni di lavoro.
La prima parte del progetto, riguardante le miniere del Congo in cui migliaia di persone, spesso bambini, estraggono il coltan a mani nude per pochi dollari, è arrivato alle selezioni finali del Sifest Premio Pesaresi 2016, ha ottenuto la menzione d’onore all’Ipoty (International photographer of the year) e ha vinto il Festival Diritti Umani 2017. Il 14 novembre presenzierà alla mostra, aperta fino al 19, il dottor Denis Mukwege.

Pubblichiamo qui di seguito l’intervistaa Mukwege realizzata per Left da Federica Tourn.

© Stefano Stranges. The victims of our wealth – Life in Sodom and Gomorrah. Il tramonto a Sodoma e Gomorra.

© Stefano Stranges. The victims of our wealth – Life in Sodom and Gomorrah. Mohammed, un ragazzo della comunità della baraccopoli, sul retro i fumi tossici della plastica e dei metalli stanno bruciando, come ogni giorno..

© Stefano Stranges. The victims of our wealth – Life in Sodom and Gomorrah. Mohammed, un ragazzo della comunità della baraccopoli, mostra la sua casa fatta di scheletri di vecchi frigoriferi

© Stefano Stranges. The victims of our wealth – Life in Sodom and Gomorrah. Akwasi, Michael, Abeiku, Ishmael, Sumaila e Wakasu, hanno vissuto sempre a Sodoma e Gomorra cercando di recuperare i migliori pezzi di rifiuti elettronici da vendere per il riciclaggio.

© Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.

© Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.

© Stefano Stranges. The victims of wealth, Minatori della miniera di Luwowo Coltan.

Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. È nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ’99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio a Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Joseph Kabila infatti si ostina a rimanere al potere nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016 e sono molti, in Congo, a chiedere che sia proprio il “medico delle donne” a gestire un governo di transizione che riporti la legalità nel Paese in attesa che si tengano le elezioni, in teoria previste per la fine dell’anno ma di fatto del tutto improbabili per i ritardi della Commissione elettorale, i disordini interni e per le manovre dello stesso Kabila che, al governo dal 2001, vorrebbe mettere mano alla Costituzione per potersi ricandidare. Mukwege non si sbilancia ma è possibile che presto debba mettersi al servizio del suo Paese, come ama ripetere, non soltanto come medico ma anche come politico.

Qual è la situazione in Congo?

In Congo assistiamo a uno stallo: non c’è stato il progresso che ci saremmo potuti aspettare con la fine della guerra e, nonostante l’accordo di pace sia stato firmato nel 2002, la gente continua a morire assassinata. Di fatto non è cambiato niente. In particolare quello che mi tormenta è che non siamo riusciti a mettere fine alle violenze sessuali: uno stupro devasta la vita di una donna. E chissà quante sono in questa condizione e non riescono a raccontarlo. Non c’è giustizia per le vittime: nel mio Paese regnano solo la menzogna e la negazione del dramma.

La chiamano “l’uomo che ripara le donne”: un riconoscimento e una responsabilità molto impegnativi.

È qualcosa che non ho cercato ma che mi si è imposto e a cui non ho potuto sottrarmi. Sono di formazione ginecologo e ostetrico e durante il mio lavoro ho potuto verificare che le mie pazienti avevano ferite estremamente gravi: all’inizio pensavo che si trattasse di una situazione passeggera, ma con il tempo ho dovuto rendermi conto che ero di fronte a un problema sistematico. Non ho potuto fare altro che prendere in carico le vittime delle violenze sessuali: le donne infatti non avevano solo ferite fisiche ma anche psicologiche, soffrivano di esclusione sociale e avevano bisogno di giustizia; per questo a Bukavu abbiamo concepito un modello per sostenere le donne da tutti i punti di vista, dalle cure mediche all’assistenza legale.

Lei ha ricevuto nel 2014 il Premio Sacharov per il suo impegno. È stato soltanto un gesto formale o l’Occidente supporta il suo lavoro?

Ho sempre detto che un riconoscimento ha senso soltanto se aiuta a eradicare la “malattia” che si combatte, altrimenti non ha valore. Il premio Sacharov ha dato visibilità al problema, oggi sappiamo che quando cerchiamo di dare voce a chi non ce l’ha almeno troviamo degli interlocutori.

Ora dobbiamo chiedere alla comunità internazionale che si muova con decisione, come ha fatto per le armi chimiche e le mine antiuomo, e che metta al bando una violenza che coinvolge milioni di donne in tutto il mondo e che viene usata come arma di guerra. Perché distrugge l’integrità fisica e psichica della donna ma anche i legami famigliari e sociali di intere comunità.

Si può fare un lavoro di prevenzione?

Si può intervenire molto presto per smontare gli stereotipi di genere. Per esempio, se dici a un ragazzino “non piangere come una bambina”, imponi ai maschi a non mostrare emozioni; stiamo continuando a perpetrare questa educazione patriarcale, non solo in Africa ma ovunque, anche in quei Paesi in cui l’eguaglianza fra i sessi sembra raggiunta. L’educazione sessuale è fondamentale: se rendiamo il sesso un tabù e non parliamo di sessualità, i nostri figli troveranno su internet quello che cercano. Il silenzio è alleato degli stupratori; da un lato chi violenta sfrutta a suo vantaggio il fatto che non se ne parli, mentre la vittima tace per vergogna e paura di essere discriminata. In Congo abbiamo un grave problema di impunità dello stupratore, perché la donna deve provare di aver subito violenza e molte vittime non osano farlo perché se denunciano vengono escluse dalla comunità.

Lei ha subito un attentato nel 2012 ed è tuttora sotto protezione dei caschi blu dell’Onu. Come vive questa condizione personale?

È molto dura, non lo nego, ma l’enorme capacità di reazione delle donne non mi permette di far altro che combattere al loro fianco. Soffrono di dolori inimmaginabili ma quando si risvegliano da un’operazione non mi chiedono mai “che cosa sarà di me?”, il loro primo pensiero va sempre ai bambini, o al marito. Le donne sono capaci di vivere per gli altri, mentre la stessa cosa non si può dire dei maschi. Hanno un coraggio eccezionale: me ne sono andato dal mio Paese quando mia figlia è stata rapita ma loro hanno venduto frutta e verdure per raccogliere i soldi del biglietto e farmi tornare. Che cosa potevo fare di fronte a questo?

Quante donne ha curato nella sua vita?

All’ospedale di Panzi abbiamo curato almeno 50mila donne ma questo non sembra scuotere per nulla l’opinione pubblica. In ogni caso non amo fare conti perché sui numeri si può fare speculazione e inoltre cambiano ogni giorno: non sono le cifre che devono spingerci a reagire ma la consapevolezza che dietro un numero c’è un essere umano. La cosa che mi fa più male è quando curo delle bambine poco più che neonate, quando devo intervenire sul perineo distrutto di bambine di dodici, diciotto mesi: la più piccola che ho operato ne aveva appena sei. Per me sono queste le situazioni più difficili da affrontare.

Ha un successore? Qualcuno che segue il suo esempio?

C’era un ginecologo, un medico che aveva la mia stessa formazione (Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, Sud Kivu, ndr); lo consideravo il mio “erede”. È stato assassinato a fine aprile.

 

L’intervista a Denis Mukwege e il reportage fotografico sono tratti da Left n. 43


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